Le fatiche del femminismo cristiano

Gli anni a cavallo tra il XIX e il XX secolo furono anni di grande cambiamento e fermento, in cui movimenti culturali e femministi iniziarono a reclamare a gran voce il riconoscimento dei diritti per le donne.
Oltre ai noti movimenti suffragisti inglesi e americani, ne esistevano diversi anche in Italia, portati avanti da studiose, filosofe e giornaliste. In molti casi, si trattò di associazioni definite di “femminismo cristiano”: le affiliate, infatti, aspiravano ad unire temi di denuncia sociale a principi e valori di ispirazione evangelica.
Tra le madri fondatrici di tali movimenti, vi fu Adelaide Coari, maestra cattolica che proponeva la costruzione di un programma minimo femminista, sulla scia delle rivendicazioni Socialiste di inizio secolo.
Tra le figure più importanti troviamo Elisa Salerno. Nata e vissuta a Vicenza, si interessò in particolare allo studio e alla denuncia delle condizioni operaie delle lavoratrici e dei lavoratori veneti. Formatasi da autodidatta, imparando il latino, il francese e il tedesco, la filosofia e la teologia, impiegò tali conoscenze per fondare, all’inizio del ‘900, il suo giornale dal titolo “La donna e il Lavoro”.
All’interno dell’editoriale, l’attenzione è posta in particolare su studi, ricerche e interviste alle donne della classe operaia vicentina, mettendo in luce, nel dettaglio, aspetti quali il divario salariale fra uomini e donne, le precarie e insalubri condizioni di lavoro, le continue sopraffazioni morali e sessuali a cui venivano sottoposte. L’idea di fondo di tale ricerca era che, oltre alla giusta battaglia sindacale e sociale, fosse soprattutto necessario una battaglia culturale e ideale, che partisse dall’istruzione, nel tentativo di avviare un radicale cambiamento ideologico.
In tale contesto, Salerno accusò pubblicamente la Chiesa e le sue istituzioni, che nonostante professassero la necessità di difendere e proteggere i deboli e gli ultimi, di fatto perpetravano la situazione di subalternità delle donne, a causa di un intrinseco antifemminismo nella patristica e nella scolastica.
Per tali coraggiose affermazioni, la studiosa fu prima condannata dalla Chiesa Locale, poi dalle Curia Romana e infine fu scomunicata, nel 1927, anno in cui interruppe definitivamente la sua produzione editoriale.
Giulia C. – Firenze

Blanco, un cantante a san Pietro

Lunedì 18 aprile, prima della Veglia con il pontefice, piazza San Pietro è stata il centro di un grande momento di festa. Dopo due anni di pandemia, don Michele Falabretti (responsabile dell’Ufficio nazionale della Cei per la pastorale giovanile) ha organizzato un concerto prima del momento di preghiera per il Lunedì dell’Angelo. L’evento, avvenuto in concomitanza con il forte pellegrinaggio dei laici, ha riscosso moltissimo successo sul pubblico giovanile (circa 57000), ma anche in quello adulto. I ragazzi sono stati accompagnati di fatto da numerosi adulti, per lo più educatori, sacerdoti, volontari e famigliari. Inoltre, successivamente all’annuncio che le udienze generali riprenderanno a tenersi nella Piazza, il concerto è segno di un ritorno alla normalità che manca ormai da troppi anni. Averlo organizzato in periodo pasquale è un modo per incoraggiare le persone a credere in Gesù; metaforicamente si può vedere in esso una nuova rinascita proprio come quella che Gesù ha mostrato ai credenti “vincendo le tenebre della morte” riprendendo il Papa.

Per l’occasione, è stato invitato Riccardo Fabbriconi, in arte Blanco, fresco vincitore del Festival di Sanremo 2022 nonché rappresentante, insieme a Mahmood, dell’Italia agli Eurovision Song Contest di Torino (martedì 10 e sabato 14 maggio. Aver scelto un volto noto come Blanco (oltre a lui erano presenti anche Giovanni Scifoni, Michele la Ginestra e Matteo Romano) è indubbiamente una mossa di apertura verso i più giovani che sempre più spesso si fanno condizionare dai grandi abbandonando gli oratori e i centri pastorali. Essendo Blanco la star del momento, scegliere una persona così significa anche da parte della Chiesa cercare di “riallacciare” i rapporti con un mondo giovanile sempre meno religioso e più ateo. Riccardo ha tatuato sul petto un angelo con una corona di spine, simbolo, spiegato dall’artista stesso che rappresenta la sua doppia natura: da una parte “bravo”, ma dall’altra “marcio”. L’angelo fa però intuire come la persona abbia avuto un’educazione religiosa e cristiana quindi avesse a che fare con l’evento organizzato dalla Chiesa. La sua esibizione è avvenuta in mondovisione, nel pomeriggio prima dell’arrivo di Papa Francesco. Tra i suoi brani ha portato Brividi, canzone vincitrice di Sanremo, e Blu Celeste, celebre canzone del suo omonimo album. Quest’ultima è un inno all’amore, l’arma più potente che l’uomo ha a disposizione. In questo caso, purtroppo è rivolto ad una persona che non c’è più e non ritorna.

“Quando il cielo si fa blu, penso solo a te. Chissà come stai lassù ogni notte. È blu celeste”

In tutto il brano l’artista ha sensi di colpa, si sfoga, salvo poi autoassolversi; concetto che si presta all’idea di perdono cristiano. Possiamo quindi affermare quasi sicuramente che la scelta di far cantare Blanco non sia stata dovuta al momento che sta vivendo, ma anche all’abilità di scrittura, profonda e sensibile di Riccardo che in qualche modo, nonostante la giovane età, può essere d’esempio per milioni di persone.

Marco Ciniero, Milano

PREGIUDIZI SULLA CHIESA? brevi annotazioni sulla necessità di generare il futuro.

«Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dètte la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla?».

F. Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125

Nell’atrio di questo millennio, che l’Occidente si appresta a vivere, che cos’è, cosa può essere e soprattutto cosa non potrà più essere deputata a fare, l’istituzione ecclesiastica, “baluardo” del nostro Vecchio Continente?
Non è importante, in questa sede, dibattere sui classici – e seduttivi – argomenti concernenti l’esistenza o l’inesistenza di Dio, il significato dell’esser fedeli, i meriti e i demeriti storici della cristianità e così via. Il punto essenziale, il crocevia, è il seguente: la Chiesa, il Vaticano, come si percepisce nel nostro tempo? Ora che siamo distanti ormai vent’anni dal secolo scorso, in che modo il mondo cattolico e mutato e quanto, ancora, muterà? Gli europei, come i cattolici, per fortuna o purtroppo, non possono ignorare determinati quesiti. Il motivo di ciò? Non esisterebbe l’Europa – la nostra, amata, Europa – se non esistesse il cristianesimo e viceversa. Sulla base di questo dato imprescindibile – il quale potrà essere confermato da chiunque si sia occupato, nel corso della sua esistenza, di discipline storiche, filosofiche e teologiche – non possiamo continuare a fingere di non vedere e non capire.
Al di là di quanto i governi e i cittadini europei ne possano dire, è impossibile non far caso alla forte crisi politica, culturale e antropologica, che tutti noi stiamo vivendo. Questo senso di disincanto, disorientamento e disillusione, ovviamente non può che coinvolgere anche la Chiesa alla quale, però, bisogna riconoscere che è da ormai un decennio che sta tentando disperatamente di restare aggrappata a un mondo che nessuno – veramente nessuno – riesce più a comprendere. Tuttavia, anche il mondo cattolico sta pagando a caro prezzo la vertigine della trasformazione antropologica che l’intero pianeta sta attraversando.
L’Occidente, dopo il 1989, ha dato progressivamente l’impressione di aver smarrito la bussola: crisi delle cosiddette socialdemocrazie, dissoluzione e disincanto nei confronti di qualsivoglia ideologia politica e ridimensionamento brutale del potere ecclesiastico. Tutto ciò, innegabilmente, ha incrementato il senso di smarrimento in tutti coloro i quali sono venuti al mondo a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio. L’opinione pubblica e gli organi d’informazione cercano le cause nella mancanza di occupazione che – a causa delle crisi economiche – avrebbe obliato nelle menti dei giovani l’idea di uno stralcio d’avvenire. Questo, in parte e solo in piccola parte, è vero. Bisogna considerare, però, che ci troviamo dinanzi a un cane che si morde la coda. Bene, la causa dei nostri mali va cercata proprio nell’assenza di luoghi dove cercare ristoro.
Tralasciando la questione politico-antropologica, vorrei concentrarmi sulla figura e sul luogo che può rappresentare la Chiesa. Non importa se Dio esiste o meno, ciò che conta è la domanda che un individuo nell’oggi può porre a Dio. Ogni tipo d’interesse, ogni forma di desiderio, amore e ammirazione, non è nient’altro che la formulazione di un quesito. Il fatto che qualcuno abbia assistito al collasso di un qualche tipo di ideologia politica certifica un fatto: quell’ideologia non era più in grado di rispondere, e forse neppure di accogliere, la domanda dell’interlocutore. Quest’ultimo, allo stesso tempo, ha rinunciato persino a formulare il quesito: “ma tutto ciò, alla fine, che senso ha? Meglio lasciar perdere. Che vada tutto in malora”.
Nei confronti della cristianità, dal mio punto di vista, è andata più o meno allo stesso modo. L’istituzione ecclesiastica, nella percezione comune, non è più in grado di rispondere ai più svariati quesiti. Tutto questo, però, è un dramma.
Una volta che abbiamo obliato il tutto – e, quindi, niente più ideologie, niente più Dio né religione – cosa ci resta? Che cosa siamo? Temo che ci resti il nulla e che, conseguentemente, non possiamo che scoprire d’esser divenuti un grande – seducente e amabile – niente.
La Chiesa accusa i giovani di non avere valori, mentre i giovani, al contrario, accusano il mondo cattolico di essere afflitto da un sistema valoriale anacronistico: un cane che si morde la coda, ripeto! Comunque, questa condizione, fa male indistintamente a tutti. Bisogna tentare necessariamente di distruggere entrambi i pregiudizi: le giovani generazioni devo smetterla d’immaginare la figura del cristiano come una figura fuori dal tempo e dal mondo; i cristiani, i sacerdoti, non devono dare più modo ai giovani di pensarli come obsoleti. Aprirsi al dialogo, alla diversità, alla differenza, aprirsi persino allo scontro. Essere disposti ad accettare le contraddizioni e le incoerenze. Solo attraverso una forma di caos produttivo, oggi, potrà germogliare una nuova idea di mondo, di casa, di futuro. Offrire l’avvenire, un pensiero, un paradiso che sia qui –nei corpi e nelle menti- e non solo in cielo!
La cristianità, del resto, dispone di armi potentissime – quali l’arte e la bellezza – per rigenerarsi. Il compito, oggi, spetta a tutti i seminaristi, a tutti coloro che si apprestano a divenire sacerdoti, ma anche ai cristiani giovani, sono loro il futuro della cristianità e solo formando in modo impeccabile i nuovi apostoli di Dio, Dio stesso riuscirà a non morire. I nuovi cattolici, i futuri signori di Dio, hanno il dovere di pensarsi come i “custodi del divenire”, affinché il nulla – che un tempo fu immaginato dalla Chiesa nelle vesti del Diavolo – possa finalmente cessare di tediare le nostre primavere.

Giuseppe P. – Aversa

Perché ancora non lascio la Chiesa

La domanda che mi hai posto è un po’ difficile e non credo di avere una risposta, perché è la stessa domanda che mi pongo anche io da 2 anni a questa parte: «Perché se critico così tanto la Chiesa non mi stacco?». Forse perché credo che la Chiesa come istituzione e la Chiesa che vivo io nella mia quotidianità siano in qualche modo diverse. Ho avuto la fortuna o possibilità di crescere in un oratorio e conoscere tanti padri con i quali si riesce a parlare, a confrontarsi, ad arricchirsi, in cui ognuno riesce ad esprimere il suo punto di vista senza sentirsi giudicato o attaccato. Forse questo è dovuto anche all’amicizia che si crea tra animatore e sacerdote per cui è più facile dialogare. In oratorio inoltre ho sempre avuto modo di confrontarmi con miei coetanei che bene o male affrontano i miei stessi dubbi, i miei stessi problemi: sentirsi in qualche modo supportato è sempre di aiuto. Ovviamente poi ci sono anche i preti barnabiti con cui non c’è proprio modo di dialogare né di far capire il proprio punto di vista perché sono completamente disinteressati nel cercare di comprendere il mondo dei giovani. È qui che mi altero e mi sento lontana dal mondo della Chiesa, una Chiesa che mi sembra sempre predicare bene ma razzolare male! Una Chiesa che troppo spesso esprime giudizi cattivi, che crea muri al posto di ponti, una chiesa che chiude porte quando sul Vangelo c’è scritto che tutti possono avvicinarsi a Gesù. Ovviamente questo mio discorso non è riferito a Papa Francesco, che ha fatto tanti passi avanti, ma ai tanti discorsi di sacerdoti che a volte mi capita di incontrare in autobus o delle suore oppure gli articoli che si leggono sul giornale o sui social. Ultimamente mi è capitato di leggere un articolo in cui un ragazzo sosteneva di essere guarito dall’omosessualità grazie a Dio, come se quest’ultima fosse una malattia. Sono queste le cose che mi lasciano senza parole. Un altro motivo per cui continuo a stare nella Chiesa forse è perché ho sempre distinto fede e Chiesa. Un conto è la mia fede, leggere la Bibbia, credere nella parola di Dio; un conto è la Chiesa che secondo me quello che fa è interpretare la Bibbia e darne una sua visione che può essere condivisibile o meno. Ma sicuramente il motivo che mi fa rimanere vicina all’oratorio di Roma è che quel posto mi ha dato tanto, tante esperienze che mi porto ancora dentro, tanti insegnamenti e mi ha sempre fatto vedere il mondo anche da altre prospettive meno egocentriche e materiali. LA cosa bella è che sto cercando di trasmettere tutto ai bambini che accompagno ai sacramenti: andare oltre a questo mondo troppo attaccato alle cose materiali e di ritrovare la bellezza nei piccoli gesti che uno può fare ogni giorno. Più o meno è questo quello che penso, che vivo, che amo e qualche volta dispero della Chiesa. Martina Chiesa, Roma

 

“Giovani distratti? Adulti, gli insegnanti!”. Intervista a P. Lello Lanzilli membro del Sinodo Giovani


Sinodo Giovani, Cari amici di Giovani Barnabiti, una nuova tappa del nostro cammino di riflessione sul Sinodo Giovani, che inizierà oggi  mercoledì 3 ottobre 2018 qui a Roma, dove ci troviamo adesso insieme a padre Lello Lanzilli, gesuita, che fa parte del equipe di organizzazione ai livelli più alti del Sinodo, “I giovani la fede e il discernimento vocazionale”; gentilmente ci concede un po’ di tempo per ragionare insieme su questa bella opportunità che la Chiesa sta giocando come sfida nell’ incontro con voi giovani. Qualche domanda, quasi una chiacchierata amichevole, per entrare un po’ di più in questa macchina così importante e anche su qualche riflessione in risposta a domande da voi poste.

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Il Sinodo è l’assemblea primaria dei vescovi del mondo voluta da Paolo VI per aiutare il papa a riflettere sui temi importanti e talvolta difficili della Chiesa, dei cristiani, prima di tutto cosa significa il titolo del Sinodo, “I giovani la fede e il discernimento vocazionale”?

Il Sinodo che è dedicato ai giovani ha l’intenzione di concentrare l’attenzione di tutta la Chiesa sulla realtà giovanile, su questa età della vita in cui tutti siamo chiamati e siamo impegnati a prendere delle decisioni importanti, sia per quanto riguarda lo stato di vita, sia per quanto riguarda le scelte professionali, sia per l’inserimento nella società. Per questo i giovani sono al centro dell’attenzione della Chiesa, ma non come soggetti passivi come se la Chiesa si interessasse a loro con un atteggiamento di tipo statistico o sociologico, sono al centro della vita della Chiesa, perché la Chiesa desidera che siano sempre più protagonisti. E quindi il tema della Fede è il tema della possibilità che loro hanno di esprimere la relazione che hanno con il trascendente, la relazione che hanno quelli che sono cristiani cattolici con Nostro Signore Gesù Cristo. E poi il discernimento vocazionale, e bisogna dire che il discernimento è un tema che i giovani nella riunione pre sinodale hanno faticato a comprendere, nessuno o quasi sapeva con precisione cosa significasse la parola discernimento, ma è semplicemente il discernimento e l’opportunità che viene data affinché i giovani possano scoprire qual è la loro vocazione, cioè qual è il loro posto nel mondo, nella società e nella vita, e farlo non in maniera superficiale ma a seguito da una riflessione alla luce dello Spirito che orienti la loro comprensione della loro vita e del loro posto nella società.

Il Papa ha invitato i giovani, credenti cristiani e non, non credenti per un dialogo in cui riuscire a sbriciolare un po’, per far comprendere meglio l’importanza di questa parola “discernimento”, ma anche l’importanza della parola “vocazione”: credo che sia un impegno molto importante. Come hanno accolto i giovani la sfida di questa parola magari poco usata nella loro quotidianità?

Mi riferisco soprattutto ai 300 giovani della riunione pre-sinodale, dal 19 al 24 marzo, convocati qui a Roma da tutto il mondo e dai vari ambiti della società, ma anche provenienti dall’esperienza di droga o carcere, poi giovani sportivi e giovani vittima di tratta perché proprio in questo Sinodo il Papa desidera che nessun giovane si senta escluso dall’attenzione e sollecitudine della Chiesa e dalla possibilità di partecipare attraverso le diverse forme che abbiamo individuato, come il questionario online, per esempio, di partecipare a questo momento di vita della chiesa cattolica. Alla riunione pre-sinodale oltre 300 giovani hanno partecipato anche 15.000 giovani, tutti hanno contribuito alla stesura del documento finale. A Roma erano presenti anche 5 o 6 non credenti; 7 giovani di altre confessioni cristiane; anche questi, sebbene il termine discernimento non facesse parte del loro vocabolario, hanno compreso l’importanza di fermarsi a riflettere in maniera seria e approfondita e alla luce di un criterio di alcuni criteri, un metodo, a riflettere su quello che è la loro vita e la possibilità di scelta e di progetti seri perché la propria vita abbia un senso, perché la propria vita possa sentirsi una vita realizzata non nel senso di potere raggiungere gli apici del successo, ma di potere raggiungere la gioia e la felicità, perché in fondo quello che è in linea con i sinodi precedenti, ma un po’ con tutto il magistero del Papa, quello che è importante è che i giovani capiscano che c’è una via per la gioia, che c’è una via per la felicità, che c’è la gioia dell’amore, che c’è anche la gioia della scienza.

Parlare di gioia significa anche, credo, parlare di salvezza; effettivamente alla domanda quale è la salvezza che ti aspetti molti si sono sentiti con le spalle al muro. La cercano in modi diversi.Nel suo ultimo viaggio nei Paesi Baltici Papa Francesco denunciava la disaffezione dei giovani per la Chiesa, a causa degli scandali della chiesa o della troppa commistione con il potere. Chiedeva alla Chiesa di riprendere ad ascoltare i giovani. Secondo te sarà facile o difficile ascoltare i giovani, specialmente tenere conto delle loro parole, delle loro denunce che purtroppo sono reali? Quando li incontri hanno una tensione verso la Chiesa ma sono preoccupati o allontanati da queste situazioni, se pur riconoscono che non è solo questo la Chiesa.

Tutto il percorso sinodale durato 2 anni, dall’ annuncio il 6 ottobre 2016, fino ad arrivare all’assemblea generale che comincerà il 3 ottobre 2018, fino alla stesura delle linee guida per la discussione, è stato un percorso di ascolto dei giovani in varie forme. Attraverso le conferenze episcopali (maniera classica), le associazioni o il web; tutti hanno ricevuto un documento preparatorio con annesso 15 domande generali e 3 per ogni continente. Anche questa è una particolarità, una novità di questo Sinodo. Sappiamo benissimo che la realtà giovanile, pur avendo diversi tratti in comune, ha anche delle differenze enormi, diversa è la società in cui vivono i giovani che sono stati oggetto di attacchi dell’ Isis per esempio e vivono situazioni di guerra, di tratta. Diverse dalle situazioni dei giovani che vivono nelle società occidentali dove i bisogni primari sono stati soddisfatti e magari c’è più un senso di insoddisfazione diffusa, di noia rispetto alla vita. Quindi i giovani sono stati protagonisti della prima fase del Sinodo, con l’ascolto diretto della riunione pre-sinodale e del documento finale; con il seminario di studi nel settembre 2017, con 50 esperti a livello mondiale più una ventina di giovani; con il questionario online che conteneva delle domande diverse rispetto a quello mandato ai Vescovi, domande più specifiche alla realtà dei giovani. Uscirà il report tra non molto, del questionario online, e ci sono delle sfumature particolarmente interessanti. Sono arrivati più di tremila contributi di singoli giovaniMi sono commosso leggendo questi contributi, mi sono commosso per il loro desiderio di vivere una vita piena di senso, per la loro difficoltà a farlo e il sentirsi prigionieri in una società e un mondo che non promuovono le cose più belle dentro di loro. Le loro solitudine e difficoltà di vivere con un mondo di adulti, che continua a rimproverarli ma non vuole lasciargli le chiavi di casa sebbene ci dia degli esempi che sono pessimi e sono scandalosi. Noi parliamo spesso dei problemi dei giovani. Credo che il problema fondamentale siano gli adulti, non sono i giovani. Gli adulti che non sono stati in grado di indicare ciò che veramente vale nella vita. E continuano ad andare dietro a quelle cose. Rimproverano i giovani: sono distratti, stanno al cellulare, pensano solo alla palestra, ma questo l’hanno imparato dagli adulti. Genitori che prima di pensare alla possibilità di educare davvero i propri figli in molti casi hanno pensato al proprio autoreferenziale modo di vivere.

Passiamo ora a un altro aspetto più vicino a noi in Europa e Italia. Alcuni nostri giovani brasiliani e messicani mi dicono che forse questo Sinodo riguarda più l’Europa, l’Occidente, la sua ormai poca fede che il resto del mondo. Cosa ne pensi?

Si ci può essere questo rischio, però devo dire che c’è stata un’attenzione da parte di tutti ad allargare gli orizzonti, per esempio le domande specifiche per ogni Continente. Nella riunione pre-sinodale personalmente ho avuto l’impressione che la vitalità della chiesa è sicuramente nei continenti come l’Asia, l’Africa e l’America Latina. Piccolo esempio. Alla riunione abbiamo invitato i giovani per un momento di festa. Ognuno a seconda dei propri Continenti hanno presentato dei numeri, degli spettacoli. Hanno iniziato gli africani, molto bello e coinvolgente; hanno continuato gli asiatici con un loro stile più compassato, ma con humor molto sottile; poi il Medio Oriente, con canti molto armonici; l’America Latina ha concluso tutto con un trenino. Gli unici continenti che non hanno presentato nulla sono America del Nord ed Europa. Sicuramente la vita della Chiesa deve guardare sempre di più a questi continenti dove anche i numeri dicono che la realtà ecclesiale sta crescendo e dove c’è, in molti casi, un desiderio di accogliere la proposta di vita nuova, quale quella del Vangelo, che, a volte, nel mondo occidentale, sembra essersi perso; dico sembra perché, probabilmente, quello che si è perso non è il gusto, il desiderio, il senso, ma la capacità di saperlo trasmettere, in una maniera che sia sensata.

Torniamo al discorso degli adulti; è un Sinodo dei giovani ma che dovrebbe essere molto seguito da parte di tutti gli adulti, anche nella vita della Chiesa. Non tocchiamo ora la questione della trasmissione della fede ai giovani, ma sono d’accordo che noi adulti dovremmo interrogarci e quindi capire in cosa siamo stati mancanti, non per accusarci ma per essere più coerenti e capaci di comprendere la Verità.

Io faccio sempre un esempio; alcuni anni fa, nei tempi della mia gioventù, della mia adolescenza, il modello di riferimento della pubblicità, della società, delle riviste, era la persona adulta; si sapeva che la persona realizzata, colui che aveva raggiunto la pienezza dell’essere uomo, era l’adulto, con alcune caratteristiche: un senso di responsabilità, una capacità di sapersi divertire ma senza fare male agli altri; se guardiamo oggi, il modello che viene proposto, anche per gli adulti, è l’adolescente, cioè, colui che cerca di divertirsi, si ubriaca, passa il tempo solamente per il proprio piacere, il proprio tornaconto, questo è il modello di riferimento; non ci siamo resi conto che, noi vogliamo che i giovani siano adulti, ma in realtà, stiamo costringendo gli adulti a essere adolescenti. Altro tema su cui si spalancherebbero diverse riflessioni.

Ancora due domande; come funzionerà esattamente il Sinodo?

Il Sinodo inizierà Mercoledì 3 Ottobre con una celebrazione eucaristica sul sagrato di San Pietro e poi già nel pomeriggio cominceranno i lavori.Il Sinodo prevede la partecipazione dei padri sinodali, 266, con diritto di voto; in più ci sono gli uditori, 35 giovani e 16 formatori, i quali possono intervenire, anche nei circoli minori, ma non hanno diritto di voto; in più ci sono gli esperiti, 23, che collaboreranno con i segretari speciali e il relatore generale, proprio per l’elaborazione del documento finale. Ci saranno delle congregazioni generali, cioè delle riunioni in assemblea di tutti i Vescovi, in cui ciascuno potrà prendere la parola su una delle tre parti in cui è diviso l’Instrumentum laboris; la prima parte è relativa alla condizione giovanile, la seconda parte al discernimento e alla vocazione e la terza relativa alla prassi, all’azione pastorale della Chiesa. Ogni vescovo potrà fare un intervento su una di queste parti, poi si svolgerà il lavoro nei circoli minori, cioè dei circoli linguistici (francese, inglese, italiano, portoghese, spagnolo e tedesco)in cui verranno fatti degli emendamenti, delle proposte di cambiamento al testo dell’Instrumentum laboris, che sarà il testo base anche per l’elaborazione del documento finale. Quindi possono essere fatte proposte di cambiamento, di eliminazione di parti, di aggiunta di altre parti, di altre frasi e quindi, attraverso quelli che vengono chiamati “i modi”, si procederà all’elaborazione del documento finale che sarà compito del relatore generale insieme ai segretari speciali. Questo sinodo ha 2 segretari speciali e ad una commissione di membri eletti proprio a questo scopo.

Grazie perché sapere come funziona una macchina credo che sia importante. L’ultima domanda a Padre Lello che ha una grande esperienza sia missionaria (abbiamo condiviso momenti belli anche in Albania appena dopo il crollo della dittatura), sia formatrice e che ringrazio per questa disponibilità di tempo, l’ultima domanda: che cosa ti aspetti, che cosa desidereresti di più visto da questo sinodo che stai vivendo ancora di più dal suo interno?

Ma credo che il mio desiderio e la mia speranza sia un po’ quella di tutti ed il Papa l’ha già espresso, l’augurio che questo sinodo possa davvero contribuire al rinnovamento e al ringiovanimento della Chiesa, ringiovanimento nel senso forte del termine, non nel senso adolescenziale che dicevo prima, ma nella possibilità che la Chiesa riscopra quella carica di entusiasmo, quella apertura alla vita, quel desiderio di costruire qualcosa di importante che è propria dei giovani di oggi tempo che, come dicevamo forse, nella nostra società occidentale sta venendo un po’ meno e di rinnovamento nel senso che grazie anche ai giovani, alla loro parola, alla loro creatività e al loro entusiasmo un po’ tutta la vita della Chiesa possa riprendere slancio anche nelle sue strutture e nelle modalità di celebrazione. Ecco ringiovanimento e rinnovamento della Chiesa e tutto questo non limitato esclusivamente ad usum interno, diciamo, ma perché la Chiesa possa essere davvero un fermento di vita per tutta la società. Una delle esperienze forti della riunione pre-sinodale, al di là del documento finale che, secondo me, è molto bello e molto interessante, è stata esattamente la convivenza dei giovani cattolici con giovani non credenti, giovani di altre religioni, perché gli stessi cattolici si sono accorti che il loro modo di essere, il loro linguaggio era troppo da ghetto. Hanno detto che la presenza di altri qui insieme a loro ha costretto a ripensare e a riformulare la nostra fede in una maniera che sia comprensibile per il mondo di oggi; non solo come qualcosa da condividere tra di loro, quasi fosse un codice segreto, quasi fosse una setta. I giovani, hanno detto, hanno fatto un’esperienza di Chiesa così come la vorrebbero, una Chiesa davvero sinodale, una Chiesa che accoglie tutti, pur non negando le differenze che ci sono, che accoglie tutti e che davvero si preoccupa per il bene di tutti.

Bene, avremmo ancora forse altre domande, ma ci fermiamo qui e ringraziamo di cuore Padre Lello Lanzilli della Compagnia di Gesù che ci ha dedicato questo tempo per riflettere e sicuramente i suoi spunti cercheremo di svilupparli e di “sbriciolarli” un po’ di più nelle nostre realtà, per momenti di incontro e di crescita e, chissà, forse, ci rivedremo dopo il Sinodo per sentire se ha risposto anche più di quello che magari ci si aspettasse. Grazie ancora.

Grazie a voi e buona vita a tutti

 

( Hanno collaborato:

Massimiliano Serino, Andrea Pistelli, Margherita Pedron, Bianca Contardi e Bernardo Bonaccorsi – Firenze;

per la parte tecnica Giacomo Camilletti e p. Giannicola M. Simone – Roma)

 

 

Parlate a noi adulti

Di questo siamo tutti sicuri: il Sinodo dei Vescovi sui giovani è un evento storico, che rappresenta un avvicinamento della Chiesa a quel mondo dei giovani sempre percepito unicamente come destinatario degli insegnamenti, dell’istruzione e dei rimproveri degli adulti, specialmente quando il rapporto è Giovani – Chiesa. Con il Sinodo i giovani diventano attori, sono loro a parlare. Proprio questo è stato il suggerimento di Papa Francesco durante la riunione presinodale tenutasi a Roma dal 19 al 24 marzo e ce lo dice Gabriella Serra, Presidente Nazionale femminile della F.U.C.I. (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), che vi ha partecipato e che ci ha gentilmente concesso una breve intervista, per raccontarci quanto vissuto durante l’incontro, ma anche la percezione di cosa sta avvenendo, che ha come esito finale e tanto atteso proprio il Sinodo dei Vescovi sui giovani.

«Si sta vivendo un ottimo momento – dice Gabriella – nel quale i giovani vengono coinvolti veramente, in prima persona, attraverso una partecipazione attiva e concreta». Infatti, Papa Francesco, durante la riunione presinodale ha chiesto con forza ai giovani di “parlare” a gran voce avendo il coraggio di esprimersi e raccontarsi, perché la Chiesa ha più che mai bisogno di capire i giovani e per questo è necessario un dialogo aperto con essi.
Papa Francesco ha ricordato che tutti siamo parte della Chiesa, anche i giovani e, per questo, ognuno ne è responsabile, aggiungendo: «anche se noi adulti tacciamo, voi dovete parlare»; proprio da ciò, ci dice Gabriella: «Si intuisce quanto a Papa Francesco stia a cuore la causa; è proprio lui il grande promotore di questo Sinodo, nuovo nella forma di coinvolgimento. È lui che ci ha dato e continua a darci la forza, il coraggio e la speranza».

Ripercorrendo il documento finale della riunione presinodale, ci si accorge di quanto siano stati ridotti e assottigliati gli spazi che hanno da sempre separato la struttura fortemente gerarchizzata della Chiesa con il popolo giovanile. Papa Francesco ha parlato a tutti i giovani presenti in modo diretto, colloquiale, paritetico e la prova di ciò sta anche nella riuscita di quella che era una grande sfida: riunire tutti e 5 i continenti del monto durante questo evento a Roma, 300 ragazzi più molti altri collegati via web.
Dal Documento emerge anche un tema cruciale, specialmente in questo periodo, non solo per la Chiesa ma anche per la società: la donna. Si è ricordato quanto importante sia e debba essere il ruolo che la donna ricopre all’interno della società e della Chiesa, chiedendosi quale sia l’apporto che la donna può dare all’interno della società e della Chiesa.
Infine, «È stato dato spazio anche a un altro rilevante tema: il volontariato. Si è sottolineato come il volontariato sia un metodo adeguato per permettere ai giovani di sentirsi utili, responsabilizzati e coinvolti all’interno della società e della Chiesa. Un modo per sentirsi vicini al prossimo in modo attivo e concreto, corresponsabili del mondo che si abita e dei luoghi che si vivono», visto il riscontro di una recente problematica giovanile legata proprio a uno scoraggiamento generale per la scarsa responsabilità che si sentono di avere all’interno della società e, di conseguenza, maturano una percezione, spesso inconscia, di essere inutili.

Dalle parole di Gabriella si sente la grande soddisfazione di aver assistito e partecipato in prima persona all’evento, facendo trasparire una grande emozione e un grande entusiasmo, accompagnati da profonda consapevolezza, da lei sottolineata: l’importanza storica dell’evento.
Noi GiovaniBarnabiti ringraziamo Gabriella per l’esperienza vissuta e per averla raccontata e condivisa rendendoci partecipi, anche se indirettamente, delle emozioni vissute e dell’impegno profuso. Le auguriamo un grande “in bocca al lupo” per il futuro, sperando che le nostre strade possano incrociarsi ancora.

Tommaso C. Milano

I giovani: la Chiesa che manca!

È necessario che le comunità mostrino ai giovani la differenza cristiana. Enzo Bianchi, OssRom 25 04 2018

Cari amici credo che questo articolo di Enzo Bianchi valga leggerlo a giovani e adulti e… preti.

A marzo i giovani hanno vissuto una riunione presinodale nella quale è stato elaborato un documento da offrire alle istituzioni del prossimo sinodo su «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale», affinché da esso si sentano ispirate nell’elaborazione dell’Instrumentum laboris, la traccia per il confronto e la discussione comune. Un documento concepito da trecento giovani provenienti da tutto il mondo, collegati online attraverso gruppi di Facebook con altri quindicimila coetanei, non può essere pienamente rappresentativo di una realtà così plurale e complessa qual è la gioventù di molte e diversissime aree culturali nelle quali è presente la Chiesa cattolica. Resta tuttavia significativo che in questo testo si possano scorgere alcune convergenze, soprattutto sulle sfide e sulle opportunità dei giovani nel mondo di oggi. Va anche riconosciuta un’innegabile evidenza: le numerose indagini sociologiche e le diverse letture da parte di attenti osservatori del mondo giovanile non contraddicono ciò che i giovani hanno espresso in prima persona in questo confronto.

Questo documento ha il pregio di aiutare a percepire i giovani come parte della Chiesa e noncome semplici interlocutori di un’istituzione a loro esterna. I giovani si sentono Chiesa, anche quando hanno consapevolezza di essere “la Chiesa che manca”, secondo la felice espressione di don Armando Matteo, e hanno la capacità di prendere la parola per richiedere al corpo di cui fanno parte un cambiamento di rotta e di stile. È significativo che si esprimano giudicando «la Chiesa come troppo severa e spesso associata a un eccessivo moralismo» e chiedendo che essa sia «accogliente e misericordiosa, […] capace di amare tutti, anche quelli che non la seguono» (1.1). Dunque i giovani fanno richieste non scontate né rivoluzionarie, ma pacate e determinate. Ciò che tuttavia dal documento emerge come urgente per i giovani di oggi è la ricerca del senso dell’esistenza. Ricerca che si è fatta faticosa e difficile e che avviene ormai lontano dai percorsi indicati dalle religioni e soprattutto lontano da un itinerario di fede, perché proprio la fede non è stata loro trasmessa dalla generazione precedente, quella dei loro genitori. I millennials, nati negli ultimi due decenni del secolo scorso, possono anche essere definiti la “prima generazione incredula”, ma si faccia attenzione e si legga con discernimento quanto avvenuto nella generazione precedente, resasi estranea alla Chiesa soprattutto attraverso un’inedita incoerenza: si diceva cattolica ma non frequentava più abitualmente la liturgia domenicale e non sentiva l’appartenenza al cattolicesimo se non a livello culturale, in quanto erede di una cultura tradizionalmente cattolica.

Negli ultimi decenni del secolo scorso la Chiesa cattolica, in particolare quella italiana, è parsa aver smarrito lo slancio dell’aggiornamento conciliare e non si è più impegnata nella formazione e nella cura del fedele, affinché la sua fede fosse pensata, adulta e dunque emergesse la figura del cristiano maturo, corresponsabile nella comunità cristiana. Ha preferito spendere tutte le sue energie in una logica di presenza nella società, fino a cercare di occupare spazi abitati dalla “religione civile”. Così è avvenuta una rottura della trasmissione generazionale della fede ed è emersa una figura di cattolico astenico e poco convinto che, come tale, non poteva comunicare ai figli né le esigenze evangeliche della sequela né una concreta appartenenza alla comunità cristiana.

Va anche detto che questa generazione adulta di fine millennio è stata incapace di comunicare una grammatica umana ai figli, che oggi si trovano poco abilitati al vivere quotidiano, ad assumere una responsabilità, a trovare senso. È soprattutto questa “ricerca di senso” a essere oggi in affanno, come testimoniano le indagini sociologiche e come sperimentano quanti sono in ascolto dei giovani (come i monasteri o le comunità che li accolgono abitualmente). «Chi sono veramente io? Chi voglio essere? Come diventare me stesso? Che cosa posso sperare? Che senso dare alla mia vita? Mi ritrovo davanti a un muro: come abbatterlo? O devo forse scalarlo?». Queste le domande dei giovani, a volte vissute in modo tragico, nella sensazione che non vi siano risposte se non il nulla.

Occorre ascoltare i giovani, ascoltarli nelle loro speranze e nelle loro ansie con molta pazienza, cercando soltanto di essere vicini a loro, compagni di strada, niente di più, senza avere la pretesa di suggerire o di proporre alcunché. Proprio perché queste sono le domande drammatiche che li abitano, oggi il riferimento a Dio sembra di nessun interesse, anche se questa aporia non desta alcuna confessione o militanza ateistica. Semplicemente, Dio non è più interessante e i giovani sono convinti che si possa vivere una vita felice senza di lui. E non si dica che, di conseguenza, i giovani abbandonano la Chiesa. Questa è estranea di per sé, come un mondo che non riesce più a dire nulla né attraverso la sua liturgia né attraverso le sue prediche. Dio è una parola rifiutata ed espulsa perché è risuonata troppo, perché le sue immagini sono state percepite come false e nemiche dell’uomo, mentre la Chiesa è estranea perché — come più volte mi hanno detto i giovani — «vive in un altro mondo». Resta però significativo che quei giovani che hanno ricevuto una qualche conoscenza di Gesù Cristo e della sua radicale umanità non sono indifferenti alla sua figura esemplare e al suo messaggio, anche se non giungono a una confessione di fede in lui.

Proprio per queste considerazioni, diventa urgente e decisivo un cambiamento nel vivere la fede cristiana: un cambiamento che riguarda innanzitutto la generazione adulta dei padri e delle madri, la generazione dei quarantenni-cinquantenni che deve essere raggiunta dal Vangelo, da quel Vangelo che non è stato loro indirizzato nel tempo della formazione cristiana. Occorre riaccendere un cristianesimo di testimonianza, in cui comportamento e stile siano veramente coerenti con il Vangelo professato. La trasmissione della fede deve cominciare nello spazio della famiglia, anche della famiglia ferita: solo se c’è convinzione salda, mite e intelligente, allora la fede si fa eloquente, parla ad altri e si fa comprendere come un tesoro per la vita. Se invece le istituzioni della Chiesa continuano a ignorare i fedeli, a lasciarli in una condizione di destinatari passivi del culto e della predicazione, se non riescono a farli partecipare con responsabilità alla vita della comunità, continuerà una fuga senza contestazioni e nel recinto dell’ovile resterà un numero sparuto di pecore.

Lasciamo perdere la retorica sui giovani e, mi permetto di dire, anche sulle donne. È controproducente caricare queste realtà di aggettivi pieni di complimenti e di immagini poetiche ma vuoti di sostanza: occorre invece un mutamento, affinché queste parti della Chiesa che stanno per mancare, o addirittura già mancano, trovino uno spazio di appartenenza e di vera fraternità e sororità vissuta in una comunità che sappia mostrare “la differenza cristiana”, in mezzo agli uomini e alle donne presenti nella storia e nella società, non contro di loro. I giovani oggi sono sempre più lontani dalla fede cristiana, ma abitano non una terra atea bensì una terra di mezzo in cui regna l’indifferenza per Dio e per la Chiesa. Questo è però un terreno aperto alla ricerca, alla vita interiore, alla spiritualità, un terreno assetato di grammatica umana.

Attraverso le loro domande, sovente mute, i giovani chiedono che sia indicato loro il senso, la chiamata/vocazione alla vita. Sì, la vocazione che vorrebbero ascoltare e discernere è la vocazione alla vita, al vivere che è la chiamata unica e irripetibile per ogni persona da parte di Dio, anche nella fede cristiana. Come tutti gli umani, anche i giovani sono chiamati a vivere in pienezza, a fare della propria vita, per quanto è possibile, un’opera d’arte consapevole: chiamati dunque alla felicità, perché la vita buona e bella sa anche dare la felicità. Nessuna visione banalmente ottimistica sul “duro mestiere di vivere”, ma se questo invito alla vita è rivolto a un giovane da chi ha fiducia e comunica fiducia, se è fatto nella piena gratuità, non per farlo entrare nella Chiesa, non per farne un discepolo, ma perché si vuole che diventi un soggetto capace di pienezza di vita, allora l’appello è veramente credibile. Solo degli anziani, degli adulti capaci di fiducia e dunque di fede sanno anche mostrare la gratuità della loro cura dei giovani e sono capaci di fare strada insieme a loro, verso la vita.

Accogliendo i giovani, nel monito presinodale Papa Francesco ha usato parole commoventi per loro, invitandoli al rischio, all’entusiasmo della fede e al gusto della ricerca. Ha chiesto loro di non temere, di non spaventarsi mai sui nuovi sentieri da percorrere. Nella domenica delle Palme ha chiesto loro di gridare perché, se non grideranno i giovani, grideranno le pietre, come aveva detto Gesù dopo il suo ingresso a Gerusalemme (cfr. Luca, 19, 40). Dunque i giovani non siano mai letti né fuori dalla Chiesa né come semplici destinatari delle parole della Chiesa, né senza i padri e le madri, senza gli anziani, perché solo tutti insieme, come un solo corpo, si cammina con fiducia e solo in comunione ci si salva.

Rimanere sulla poltrona

Rimanere sulla poltrona del proprio immobilismo.
Rimanere, forse è il verbo che più ho riscontrato in questi ultimi mesi in molti giovani che ho cercato di disturbare per chiedere qualche idea, qualche consiglio, qualche confronto.
E non parlo solo di giovani sconosciuti, incrociati tra le vie della città, ma anche di tanti giovani vicini a me, alle nostre attività, addirittura vicini a Gesù!
Sembra ci sia una paura di fondo nel lasciarsi scocciare anche per qualche cosa di semplice, sembra che non possiamo abbandonare i modi di pensare, i non lasciarci mettere in gioco.
Oggi molti di voi possono permettersi di viaggiare come io non potevo, di vedere, di comprendere (forse) tanto che sembra essere un peccato rimanere nello stesso posto per più tempo. Eppure pare si rimanga sempre attaccati alle proprie idee, al proprio pensare, per restare indisturbato.
Qualcuno obietterà che bisogna rimanere nelle proprie idee, che sono necessari dei punti fermi per diventare uomini o donne. È necessario rimanere da qualche parte, ma non per restarci in eterno, bensì per tuffarsi nella vita.
Tuffarsi non è facile ma deve essere bellissimo (io non ne sono capace) eppure per tuffarsi è necessario rimanere sulla punta del trampolino. Non restarci per sempre: quanto basta!
Quindi c’è un rimanere esagerato e un rimanere quanto basta.
Forse io, gli adulti, la società, la Chiesa siamo rimasti legati a noi e non sappiamo più cosa dirvi, come starvi accanto, come crescere con voi – non ho scritto “come farvi crescere”, ma “come crescere con voi”, o forse preferite rimanere dove siete e guai a chi vi tocca?
Rimanere è un verbo che torna molte volte nel vangelo di Giovanni per dirci dove radicare le nostre esistenze, ma non è un termine statico o passivo, tutt’altro: è un termine dinamico, attivo fino a portare frutto. Un po’ come il “rimanere sul trampolino”.
Però non si può arrivare da soli sul trampolino, non dimentichiamolo. E la mia impressione è che per certi versi molti di voi siate sul trampolino, ma ci siete soli e rischiate di rimanerci, sul trampolino.
Lo so, la Chiesa non è perfetta. In questi ultimi decenni ha fatto anche un po’ di errori, rimanendo sulle proprie lunghezze d’onda incapace non di “farvi crescere”, ma di “crescere con voi”. Per molti versi non si è accorta della vostra voglia di tuffarvi, ma anche della vostra paura di tuffarvi e così ognuno è rimasto sul proprio trampolino incapace di tuffarsi.
C’è un bel film, Tutto quello che vuoi, in cui un anziano poeta e dei giovani scapestrati si incontrano; nessuno vuole insegnare o imparare qualche cosa dall’altro, piano piano però uno per l’altro insegnano e imparano a puntare bene i propri piedi sul trampolino, uno per tuffarsi nella vita dell’aldilà e gli altri per tuffarsi nella vita dell’aldiquà!
La Chiesa per un verso è vecchia, per un altro – ora non approfondisco – è sempre giovane: vogliamo crescere insieme? Imparare e insegnare gli uni gli altri a posizionare bene i piedi sul trampolino?
È questo che papa Francesco sta chiedendo alla Chiesa ma anche a tutti voi; è questo l’obiettivo del prossimo Sinodo / Assemblea dei vescovi sui e per i giovani.
Nessuno trucco, nessun costo, solo voglia di tuffarsi ognuno con la sua età per un mondo più bello, buono e vero.
pJgiannic

La Chiesa che vorrei

Talvolta quando mi capita di vivere in un ambiente di Chiesa mi rendo conto che ascoltare la Parola di Dio e viverla ogni giorno è difficile sia per le situazioni di vita nelle quali siamo coinvolti, sia per le reazioni che spesso abbiamo nei confronti di essa e degli altri.
Ognuno di noi, penso, dovrebbe vivere nella consapevolezza che abbiamo una vita troppo breve per pensare a dare problemi a quella degli altri. Bisognerebbe invece cercare di dare del valore aggiunto alla nostra vita regalando amore gratuito perché, seminando amore lentamente (non subito), l’amore crescerà. Nota bene che sto parlando appositamente in primo luogo di Chiesa dal punto di vista dei laici, perché i preti solamente non fanno la Chiesa.
Vorrei una Chiesa che vivesse di amore sincero e che in qualche modo fosse in grado di correggere coloro che le portano discordia e non la vivono in modo sereno. Vorrei che la fede diventasse qualcosa di concreto e modello di vita non solo per i laici, ma soprattutto per i sacerdoti, specialmente per quelli che approfittando del potere loro dato conducono una vita non del tutto consona alla loro vocazione.
I giovani, come gli adulti, hanno bisogno non di un predicatore che dà istruzioni di vita come fosse un manuale, ma un esempio da seguire esattamente come Gesù lo era per i suoi discepoli. Inoltre i giovani hanno bisogno di una Chiesa che accolga tutti senza giudicare perché il comandamento “Ama il tuo prossimo come te stesso” invita a non puntare il dito contro chi non condivide le tue idee. L’amore è anche e soprattutto rispetto: rispetto delle idee, del credo, delle situazioni, delle posizioni degli altri. Anche la più piccola delle comunità è l’esempio di ciò che dico. La Chiesa: giovani, adulti, sacerdoti, deve impegnarsi a mettere in pratica tutti i giorni ciò che il Vangelo ogni domenica ci dice.
Abbiamo la fortuna di poterci dissetare e nutrire con la Parola di Dio e quindi anche il dovere di testimoniarla con amore non solo con le parole ma con i fatti: l’amore è gratis: seminiamolo! Cosi anche gli altri ci seguiranno perché l’esempio è come l’amore: cresce lentamente dopo essere stato seminato.

Stefano Fr. – Torino

Dio a modo mio

Pubblichiamo volentieri un intervento di Roberto Lagi, Laico di san Paolo, sui giovani con l’augurio possa suscitare qualche discussione.

GIOVANI A MODO MIO. La transizione difficile

In questi giorni ho letto un libro pubblicato da Vita e Pensiero che contiene i risultati di una ricerca dell’Università Cattolica di Milano: Dio a modo mio. Giovani e fede in Italia (P. Bignardi, R. Bichi e altri a.c., 2015). Vorrei sintetizzare alcuni argomenti emersi e riassunti dall’autrice nelle conclusioni (pp. 173).

  1. L’attuale generazione dei giovani di oggi dal punto di vista religioso, è al confine tra due generazioni: quella di un passato che non c’è più e di un futuro che non c’è ancora… Sono una “generazione di mezzo”, potremmo anche definirla “interstiziale”, collocati storicamente tra un modello culturale tipico del passato, tradizionale-istituzionale, a cui sono stati, dolenti o nolenti, socializzati nella maggioranza dei casi, e un modello culturale presente, emergente e de-istituzionalizzato, che si sta diffondendo proprio in questi anni. Quest’ultimo, concedendo maggiore libertà all’individuo e rifiutando di esercitare la normatività tipica del modello tradizionale, apre la strada tra i giovani a nuove modalità di vivere la fede, più personali, meno “convenzionali”, seppur “autentiche e consapevoli”. Il loro è il travaglio di chi soffre il venir meno di un modello percepito come inadeguato e insoddisfacente e per questo respinto, e vorrebbe trovare un modo nuovo di vivere il rapporto con Dio, la ricerca di un’autenticità di vita, la strada verso la speranza e la felicità. Conoscono le forme della religiosità del passato, istituzionali, tradizionali, definite: le hanno ricevute dal catechismo, dall’oratorio, in famiglia, dai nonni. Ma non sanno come quelle possano rispondere alle domande che essi portano dentro di sé, esigenti e inedite; le tracce di un modo diverso di vivere la fede si fanno strada dentro di loro a fatica. Percorso difficile e rischioso, anche perché spesso vissuto in solitudine, talvolta in compagnia di adulti che vorrebbero continuare ad essere i maestri per un tempo che non c’è più.
  2. Da queste premesse una serie di ulteriori considerazioni. Intanto la confusione fra la fede e l’etica: spesso essere cristiani coincide con un’etica identificata con i dieci comandamenti o, per alcuni, con il detto “ama il prossimo tuo come te stesso”.
  3. I giovani vedono la Chiesa cattolica come Istituzione, raramente hanno un ricordo gioioso della loro iniziazione cristiana: La formazione ricevuta da bambini ha generato in loro un’idea di vita cristiana piena di obblighi e divieti, di impegni che hanno poco a vedere con la voglia di vivere e con le domande tipiche della loro età.
  4. Inoltre: Questi giovani hanno acquisito un’idea piuttosto esteriore di vita cristiana, con poca anima e soprattutto priva della percezione che l’essere cristiani ha a che fare con Gesù Cristo e con il Vangelo.
  5. Da ciò deriva che i giovani hanno una visione della vita cristiana rigida, definitiva e senza tempo, dentro la quale non trovano posto le domande personali o la sensibilità che soggettivamente vorrebbe reinterpretare il senso della fede. Da questo modo di credere essi prendono le distanze, abitando lo spazio dell’esperienza cristiana in modo soggettivo e individualistico, quello che il titolo della ricerca definisce “Dio a modo mio”.
  6. Non che ai giovani manchi un anelito di infinito, un’apertura al divino, il problema è che: a un modello pastorale tutto orientato a comunicare una visione della vita o a proporre una serie di impegni andrebbe oggi sostituito un modello impostato sul dialogo: un dialogo vero, che è scambio, ascolto profondo, personalizzazione dell’annuncio e accompagnamento a collocare le ragioni della fede dentro percorsi personali, originali e irripetibili, cosa che purtroppo difficilmente si realizza.

Concluderei riportando ancora una frase della Bignardi: Educare i giovani alla fede significa consegnare loro la fede così come noi adulti l’abbiamo vissuta? O piuttosto mettere nel loro cuore l’essenziale, insieme ad una passione che dia il desiderio e la volontà di reinterpretarlo per il loro tempo, nel loro tempo? …. Vi è un intreccio molto stretto tra le generazioni: i più giovani imparano dalla testimonianza degli adulti che cosa significhi credere; ma il loro apprendimento non è passivo. Mai come oggi esso è critico, attento a discernere, ad accogliere ma anche a rifiutare. In questo i giovani, mostrandoci le inautenticità dei nostri percorsi, ci costringono ad aprirci alla novità e al futuro. Resistere a questa esigenza avrà come esito non solo lo smarrimento delle nuove generazioni, ma l’inaridimento della generazione adulta. Che resterà pateticamente superata, gente di altri tempi, testimoni di un cristianesimo che non sa cercare e intuire i segni del tempo e pertanto non riesce a stare dentro la vita.

In Atti 1,8 il Risorto invia i discepoli dicendo: avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra. Testimone non è, in questo contesto, colui che si limita a parlare di ciò che è accaduto, ma chi testimonia con la propria vita l’autenticità di ciò che dice e questo in ogni tempo e luogo.

Sapremo essere anche oggi dei veri testimoni del Risorto soprattutto per i giovani?

Roberto Lagi, Fiesole