“Adolescenti sani!”: questo il titolo dell’articolo editoriale con il quale avevamo aperto il primo numero del 2025 della nostra rivista cartacea. Un articolo che parla di giovani, pandemia e cambiamenti, ma che principalmente interroga gli adulti e chi dei giovani si occupa.
Abbiamo quindi chiesto ad alcuni di questi “giovani” di darci dei brevi commenti su questo articolo, che riportiamo in seguito.
Valeria partendo dalla sua esperienza personale, ci racconta di come non solo i giovani sono cambiati durante il covid, ma anche gli adulti, e si sofferma sull’importanza di un ascolto sincero dei giovani, e scrive:
«Leggendo queste parole, mi sono sentita profondamente coinvolta, perché quando è scoppiata la pandemia avevo soltanto 11 anni. Mi trovavo in quel periodo di passaggio tra l’essere bambina e diventare una ragazza, proprio all’inizio dell’adolescenza. Un momento delicato, in cui tutto inizia a cambiare: il corpo, le emozioni, le relazioni. Ma invece di vivere queste trasformazioni con naturalezza, tutto si è bloccato. Ognuno di noi ha vissuto questo trauma collettivo in modo diverso, sfogando alla fine di esso reazioni differenti.
Ho notato anche io, come viene detto nell’articolo, un cambiamento repentino nei ragazzi poco più grandi o poco più giovani di me, i quali sono diventati molto più agitati, poco consapevoli delle loro azioni e riscontrano gravi difficoltà nel socializzare. É ovvio che le ripercussioni ci sono state anche sugli adulti, che sono diventati sempre più egoisti e impazienti, come se dovessero recuperare il tempo perso durante il lockdown.
Io ritengo, come anche affermato nel testo, che sia fondamentale che gli adulti aiutino noi giovani a ritrovare sé stessi, ad essere ascoltati e capiti anche se ciò potrebbe essere visto come una perdita di tempo a causa degli atteggiamenti discostanti o provocatori che a volte mostriamo. Secondo me, essendo una loro coetanea, penso sia l’unico modo per portare sulla retta via ragazzi agitati, sempre con il telefono tra le mani e con la testa altrove, poiché l’unica cosa di cui abbiamo bisogno, in realtà, è un punto di riferimento stabile, adulti capaci di ascoltarci davvero, con pazienza, senza volerci subito correggere o “aggiustare”. Dunque, come conclude l’articolo, la vera sfida non è riportarci in chiesa o farci seguire regole, ma aiutarci a sentire che c’è qualcuno che ci chiama per nome, che crede in noi e nel nostro futuro e non ci consideri come dei “malati” o delle persone da “aggiustare”.»
Anche Giacomo ci racconta della sua esperienza personale durante la pandemia e di come, secondo lui, la pandemia abbia influito sui comportamenti dei giovani:
«Leggere questo articolo mi ha fatto tornare alla mente tante cose a cui spesso cerco di non pensare. Quando è iniziata la pandemia avevo 11 anni, ero alle medie, e sinceramente non avevo capito subito cosa stava succedendo. All’inizio sembrava quasi una vacanza, niente scuola, tutto chiuso, giornate infinite a casa. Ma poi è diventato pesante. Le lezioni online, la solitudine, la noia, il senso di smarrimento… sono cose che non si dimenticano.
L’articolo mi ha colpito perché, per una volta, qualcuno ha saputo descrivere bene quello che tanti della mia generazione hanno vissuto e stanno ancora vivendo. Non si tratta solo di “pigrizia” o “mancanza di voglia”, come spesso ci viene detto. È che ci siamo ritrovati a crescere in un momento strano, dove tutto era sospeso, dove le relazioni erano dietro a uno schermo e il futuro sembrava lontanissimo, quasi finto.
Ora ho 17 anni e a volte mi sento ancora un po’ perso. È come se ci mancassero dei pezzi, come se fossimo cresciuti in fretta ma senza tutti gli strumenti. Ed è frustrante sentirsi dire “ormai è passato”, come se tutto dovesse tornare normale automaticamente. Ma non è così semplice.
Quello che dice l’articolo sulla pazienza e sulla presenza degli adulti mi sembra verissimo. Non abbiamo bisogno di essere giudicati o corretti in continuazione. Abbiamo bisogno che qualcuno ci stia vicino davvero, che provi a capirci senza pretendere subito risultati o cambiamenti. A volte basta poco: uno sguardo, una domanda sincera, qualcuno che ascolta senza interrompere.
Mi ha fatto bene leggere queste parole, perché mi sono sentito capito. E penso che anche molti miei coetanei si ritroverebbero in questo. Non vogliamo fare le vittime, ma neanche essere trattati come se fossimo sbagliati o rotti. Abbiamo solo bisogno di tempo, e di qualcuno che creda in noi, anche quando facciamo fatica a crederci da soli.»
Sarah (adulta, con una esperienza di educatrice e di lavoro) ci spiega quali, secondo lei, sono le origini di questi cambiamenti dei comportamenti, legate ai social e all’iper performatività a cui i bambini sono sempre più sottoposti, e di come questi processi si siano intrecciato con la pandemia:
“Effettivamente sono d’accordo con te sul fatto che non si dedichi abbastanza “tempo” ai giovani. Da bambini imparano che devono fare mille attività organizzate e vedono i genitori giusto la sera prima di andare a dormire. attività in cui devono eccellere, in cui sono sempre considerati i migliori. Secondo me sono una generazione non abituata ai no che si è trovata ad affrontare un periodo (la pandemia) che li ha posti davanti ad un grandissimo no.
Una generazione (credo colpa anche dei social e dei ritmi frenetici che essi impongono) che non sa soffermarsi sulle cose, che fatica ad andare in profondità. Io personalmente avevo trovato negli scout un posto dove ti chiedono di fermarti, di capire chi sei non solo come essere unico e staccato dalla realtà ma soprattutto in relazione con l’altro e la comunità che ti circonda. ricordo che mi aveva molto aiutato e ha decisamente influenzato le mie scelte di vita future
Ovviamente sto molto generalizzando, sicuramente ci sono delle eccezioni, ma in un’epoca in cui vince chi grida più forte (il tutto amplificato da internet), individui che già attraversano un periodo difficile (quello dell’adolescenza) fanno sicuramente ancora più fatica.
E per concludere, durante la pandemia abbiamo estremamente sottovalutato l’impatto psicologico che essa ha avuto su certe fasce della popolazione (adolescenti e studenti in generale e anziani i primis, persone più povere che non avevano accesso a tutti gli strumenti informatici necessari a continuare a lavorare e studiare o che semplicemente vivevano in spazi ristretti in famiglie numerose).
Vincenzo sottolinea di nuovo, l’importanza dell’ascolto e della pazienza nel rapporto con i giovani, fondamentali per riconoscerli nelle loro forze e fragilità:
«Questo testo è molto toccante, perché parla in modo sincero delle difficoltà che i giovani stanno vivendo dopo la pandemia. Fa riflettere su quanto il COVID abbia lasciato segni profondi, anche se spesso invisibili. L’autore dice che oggi educare non significa solo dare regole, ma soprattutto ascoltare, stare vicino e avere tanta pazienza. I ragazzi hanno voglia di stare insieme, ma fanno fatica a costruire legami veri e duraturi. Si sente il bisogno di dare loro fiducia e tempo, anche solo per stare con loro senza fare nulla. Il testo invita a guardarli negli occhi, a riconoscerli per quello che sono, con le loro forze e le loro fragilità. Non serve riportarli solo in chiesa, ma aiutarli a scoprire chi sono e quale può essere il loro posto nel mondo. È un invito a seminare amore, accoglienza e speranza, anche se i risultati arriveranno piano piano.»
Anche Gianluigi, infine, sottolinea la necessità di un aiuto concreto nel riconoscere una chiamata alla vita vera:
«Questo articolo interpella fortemente chiunque abbia a che fare con i giovani (genitori, educatori, insegnanti, animatori). Il vero messaggio, però, è rivolto anche al mondo adulto nel suo insieme: non si può educare senza mettere in gioco sé stessi, senza rallentare, senza scegliere di esserci davvero.
La pandemia ci ha mostrato quanto fragile sia la nostra società, e quanto velocemente possiamo perdere l’essenziale. Ma ci ha anche mostrato che la relazione col prossimo è ciò che può farci ripartire.
Il messaggio finale è potente: più che riportarli in chiesa, aiutiamoli a riconoscere una chiamata. Che sia spirituale, personale, relazionale. In ogni caso, una chiamata alla vita vera.»
covid
I Barnabiti e i giovani dopo la Covid
Ai confratelli Barnabiti,
Il 125° anniversario della canonizzazione di S. Antonio Maria Zaccaria, grazie agli insegnamenti di alcuni nostri padri illustri ci ha introdotti nel cuore vivo del nostro Fondatore per capire come diventare testimoni del Cristo qui e ora, non nel secolo XVI!
Unitamente alla preparazione culturale e spirituale abbiamo cercato di raggiungervi per riflettere sui giovani, perché i giovani sono il nostro futuro. Purtroppo molto pochi di voi hanno dato delle risposte: troppo impegnati o troppo disinteressati a pensare il proprio servizio pastorale ai giovani? Forse paura di pensare, pregare e proporre insieme?
Il servizio ai giovani dovrebbe essere ancora il modo di caratterizzare il nostro essere pastori barnabiti eppure c’è un deficit di riflessione condivisa che deve farci pensare.
Mai come nel passato la pandemia di Covid ha toccato tutte, tutte le nostre realtà: mai come nel presente dobbiamo cercare insieme delle risposte, delle strade nuove, perché non si può semplicemente partire da dove ci siamo fermati.
Certo non si può in soli pochi due anni trovare risposte e strade nuove, però si possono cercare, sondare, proporre. Anche perché come avete rilevato nelle risposte, i danni della Covid ci sono stati: paura, restare con se stessi, poca fiducia negli adulti, maggiore uso degli smartphone, fatica di relazione. Il recupero quasi totale delle attività quotidiane ha lasciato molti … a casa e gli altri – specialmente adolescenti – con dell’amaro in bocca. In Europa poi la situazione della guerra in Ucraina sta continuando questo dramma.
Di fronte alla denuncia dell’Arcivescovo di Milano, Mario Del Pini: «I giovani non avvertono più la Chiesa come una interlocutrice per le loro domande, la Chiesa vive ciò come una sconfitta: abbiamo perso una scommessa.»; ma anche alla speranza dell’Arcivescovo di Hong Kong, Stephen Chow: «C’è bisogno di visione. E c’è bisogno di capire il presente e il contesto. Non guardare i muri, guardare il futuro.»: non possiamo agire da soli.
Muovendo da questi presupposti: sconfitta e visione vogliamo cercare di lasciarci muovere dal vigore zaccariano degli inizi che, nonostante la vita breve del Fondatore, non è stato invano: muovendoci con piede continuato nel cammino che la vocazione di ognuno di noi è chiamato a vivere. I confratelli che hanno risposto sottolineano il bisogno dei giovani di essere ascoltati, di essere presi con attenzione e serietà; mi viene da chiedervi: come ascoltiamo i giovani? Dalle Filippine al Brasile tutti chiedono di incrementare un rinnovato stile missionario.
Questo nuovo stile missionario è riconosciuto come proprio del nostro carisma, ma va pensato e ripensato e pregato insieme, con uno spirito e metodo sinodale che si fa testimonianza di vita specialmente perché le nostre forze sono diminuite.
Forse dovremmo ragionare di più sulle due parole: sconfitta e visione e in questo farci aiutare dalle sconfitte e dalle visioni del nostro Antonio Maria e dei suoi primi collaboratori e collaboratrici. È questa anche la linea che ha indicato il recente Sinodo dei Giovani che non è archiviato.
Grazie ai padri Giovanni Giovenzana di Eupilio, Giorgio Viganò di Cremona, Giuseppe di Nardo di Bari, Michael Sandalo di Silangan, Junior Cavalcante di Belem, Ferdinand Mushagalusa di Moucron e Carlo Giove di Napoli, Pascal Balumebaciza Pilipili di Buenos Aires.
p. Fabien M. Muvuny, p. Giannicola M. Simone, Ufficio di Pastorale Giovanile dei PP. Barnabiti. 27 maggio 2022
il furto delle stagioni
Cosa resterà dell’oggi ai giovani occidentali?
Sollecitato dalla perturbazione causata dalle restrizioni per far fronte all’epidemia e alla nuova ondata che ha investito l’Europa nelle ultime settimane provo a indagare la condizione attuale da una prospettiva inedita. Non voglio commentare o giudicare le scelte dei governi europei, tantomeno quanti sono deceduti ovvero gli uomini e le donne che ogni giorno lavorano per tenere in piedi i sistemi sanitari del “nostro” Vecchio Continente e gli ammalati gravemente sofferenti. Tutto ciò va trattato dalle persone competenti, io cercherò invece di scrive di qualcosa che conosco meglio.
Cercherò di scrutare la prospettiva, la condizione, la potenziale sofferenza silente, di un segmento della popolazione. Uno spaccato di cittadinanza residua, a tratti invisibile, demograficamente minoritaria e tuttavia legittima proprietaria del futuro del mondo. Naturalmente mi riferisco a una parte specifica della gioventù europea: gli studenti, i dottorandi, i neo-laureati, i maturandi che ambiscono a divenire fisici, chimici, magistrati, biologi, consoli, artisti e così via. Se è vero che le sofferenze, oggi, investono maggiormente i piccoli-medi imprenditori, dipendenti e lavoratori, è vero anche che ciò non delegittima né può sminuire l’inquietudine che investe le gioventù europee, ossia il nostro futuro. Chiaramente, a questo punto, diviene legittima una domanda: “ma perché mai, questi ragazzi, dovrebbero soffrire?”. Purtroppo, o per fortuna, non tutti sono angosciati per ragioni calcolabili matematicamente. Se gli adulti, e nello specifico i lavoratori, costituiscono la loro esistenza sull’equilibro del calcolo e sul garante personificato dal Signor Reddito Adeguato (e immutato), per un giovane studente non è così. Se l’adulto riesce a fare della stabilità il proprio Dio; la giovinezza, invece, ha la prospettiva –l’ambizione- come solo e unico argomento. E cosa accade, allora, a questi ragazzi che giustamente si vedono barricati nelle loro case? Perché il “restare a casa” dovrebbe essere così drammatico per loro –noi-?
Prima di rispondere a questa domanda, credo sia opportuno compiere una precisazione. La giovinezza, nutrendosi esclusivamente di avvenire e di ambizioni, risulta essere –e questo è risaputo- una delle fasi della vita più intense e complesse di ogni esistenza. In una condizione ordinaria, quasi sempre, vi sono dubbi, rimorsi, sensi di colpa, incertezze e paure (tutto ciò, in solitudine, diviene asfissiante). A uno studente universitario può sfuggire il presente, ma non il futuro. In senso pratico ciò significa quanto segue: in età giovanile si fa molta fatica a comprende che cosa e, soprattutto, chi si è. L’adulto, invece, giovando del fatto di possedere già un passato –e quindi un vissuto-, non può avere determinati dubbi in merito. Può impoverirsi, sì; può perdere il lavoro, è vero; certamente, però, è molto più difficile che smarrisca se stesso e che non sappia più rispondere alla domanda “chi sono, io?”. Ai nostri ragazzi, in questo tempo, può accadere quanto detto. L’inquietudine, derivante dall’isolamento e dalla distanza siderale dal proprio “contesto”, ingombra e annebbia le menti. E quindi vi è un rischio di rinuncia all’ambizione, di smarrimento e deperimento della spinta esistenziale e vitale. La tragedia, la morte, può essere anche psicologica, non solo organica. Indubbiamente il momento storico è complesso per tutti noi, ciononostante bisogna non ignorare né sottovalutare la totalità delle questioni.
Ho scritto per dare voce a delle dinamiche, a delle conseguenze, che altrimenti resterebbero ignorate solo perché non organicamente danneggiate dal virus. In definitiva, nessuno può fingere di dimenticare ciò: se l’adulto ha la salute come necessità primaria della propria esistenza, la giovinezza ha il futuro come solo argomento. Perché se è vero che tutti godono degli stessi diritti, è vero anche che nessuno possiede il diritto di non ascoltare e non considerare qualsivoglia forma di sofferenza –sia pure minoritaria, non patologica o meramente psichica-.
Giuseppe P., Aversa
Una rivoluzione dopo Covid?
Si parla spesso di rivoluzione portata da questa pandemia. La rivoluzione indica un qualsiasi cambiamento radicale nelle strutture sociali.
Non si vuole fare troppo allarmismo, certo, ma è anche vero che se 100 anni fa riconoscevi il nemico contro cui combattere, ora non è così; mi viene da ridere quando sento il primo anziano in coda al supermercato riderci sopra dicendo che lui ha superato la guerra. Non è la stessa cosa.
Sicuramente ci sarà una crisi post epidemia che ricorderà molto quelle post guerra: le imprese dovranno affrontare una crisi di merce invenduta e magazzini pieni mentre le persone dovranno ottimizzare bene la spesa pensando più volte a cosa acquistare. Diversa gente non potrà più permettersi di fare vacanze lunghe (e già prima erano in pochi rispetto ai tempi del boom economico) o altre cose che fino al 2019 venivano date per scontato fare. Paradossalmente anche mantenere più auto o comprare il motorino al ragazzino.
Si capirà meglio, forse, il valore dei soldi e della fatica, avremo più a cuore i piccoli gesti tra i quali aiutare il bisognoso, riutilizzare oggetti vecchi e non buttare gli avanzi di cibo, ma anche solamente il salutare una persona amata. Sicuramente le nuove generazioni capiranno che non sono immortali soltanto perché sono nati con lo smartphone o possono fare Londra-New York in 6 ore.
Ma chi siamo noi per dire cosa è giusto e cosa è sbagliato?
Qualcuno si domanda se ci sarà una rivoluzione virale? Non proprio.
Più che di rivoluzione parlerei di un ritorno al passato e, riprendendo l’economista inglese Thomas Malthus, di un ciclo che ricomincia dopo aver sforato il limite. Se nel 1700 le nascite superavano i mezzi di sussistenza andando così a creare uno squilibrio tra risorse e capacità di soddisfare la domanda, ora possiamo fare un parallelismo con gli acquisti inutili effettuati rispetto a quelli necessari. Con questa epidemia, la cosiddetta “catastrofe malthusiana”, si va a chiudere un’epoca aprendosene un’altra; casualmente in concomitanza con il nuovo decennio.
Il virus non darà un colpo mortale al capitalismo, il quale continuerà imperterrito per la sua strada, ma sicuramente sarà un osso duro per tutti, capitalismo compreso. Come dicevo prima si darà più peso al valore delle cose e si analizzeranno accuratamente i propri acquisti. Se si era abituati a cambiare cucina ogni 5 anni, forse ora ne serviranno 10 per vedere un nuovo piano cottura in casa propria. Se prima si era abituati a comprare l’ultimo modello del cellulare preferito, ora si penserà due volte prima di fare questo investimento.
Molte altre cose, però, rimarranno inalterate. Ricordiamoci che il Dio denaro prevale su tutto da sempre e si è più portati a far continuare il capitalismo anche a costo di fare poi svariate campagne, spot e altro ancora per salvare il Pianeta.
Dal punto di vista politico (perché anche di questo dobbiamo parlare) svaluto il pensiero di Zizek, che ho trovato in un articolo, ovvero di una caduta del regime comunista cinese, come svaluto l’idea di una superiorità cinese stessa nei confronti del resto del mondo, la gente si dimentica facilmente le cose. Ci sarà un ennesimo finto senso di uguaglianza e di comunità tra Stati dell’Unione Europea e non. Classico giochetto illusorio per far credere di star facendo qualcosa di importante, quando in realtà non si sta combinando nulla.
Servono e serviranno più che mai fatti concreti e non maschere da indossare quando fa comodo. Perché un giorno mi conviene essere tuo amico mentre il giorno dopo non più? Se non siamo noi cittadini stessi a essere uniti (e non lo siamo perché dopo 159 anni ci sono ancora meridionali che incolpano settentrionali e viceversa), perché ci vogliono far credere di esserlo con Paesi nemici dai tempi dei romani? Perché essere disonesti con se stessi? Forse hanno ragione i diversi studi scientifici che affermano che l’essere umano è egoista per natura e l’altruismo è solo un modo per sentirsi migliori agli occhi di chi guarda. Un esempio è la classica storia del ragazzo che trova una moneta per terra: quando è da solo la tiene, altrimenti la dona al povero. Questa azione viene fatta inconsciamente, ma è dettata da diversi fattori tra i quali la società e la paura di essere emarginato.
Marco Ciniero – Milano
30 mjekë shqiptar. 30 medici albanesi
Jeta është e bukur dhe gjithmonë fiton
La vita è bella e vince sempre.
Shqiperia, Italia dhe e gjithë bota tani po kalojnë një situatë mjaft të vështirë. Po përballemi me një pandemi mjaft të rrezikshme që mban emrin Coronavirus.
Në këtë kohë të gjithë po bëjnë thirrje për distancim social dhe qëndrim në shtëpi. Epo në fakt është e vetmja mënyrë për të dalë nga kjo gjendje e vështirë që jemi dhe për tju rikthyer jetës normale.
“Dashuria fillon duke u kujdesur për më të afërmit” thotë një shprehje e Nënë Terezës, prandaj nisur nga kjo duhet që të gjithë të ndërgjegjësohemi e të qëndrojmë në shtëpi për tu kujdesur jo vetëm për veten tonë por edhe për të afërmit tanë. Ndiqni këshillat e mjekëve dhe mos përhapni panik por qëndroni të qetë e të sigurtë në shtëpi.
Situata ku ndodhemi nuk do të zgjasë përgjithmonë dhe është më mire për të gjithë ne nëse kujdesemi për njëri-tjetrin. Jemi më të fortë nëse sillemi si një komunitet i bashkuar.
Në këtë mënyrë ndihmojmë edhe ata,që janë në vijën e parë të “luftës”, mjekët, të cilët tani më shumë se kurrë kanë nevojë për mbështetjen tonë.
30 mjekë shqiptar janë dërguar në Itali për ti ardhur në ndihmë shtetit italian mbi situaten mjaft të rëndë që po kalojnë.
Në periudhën e vështirë të tërmetit që Shqiperia kaloi, ekipet italiane të shpëtimit na erdhën në ndihmë e nuk na lanë vetëm në përballimin e kësaj situate. Sot,kur Italia ka më shumë nevojë se kurrë, 30 bluza të bardha nga Shqipëria shkojnë në ndihmë të shtetit fqinj që nuk na la vetëm në momente të vështira. Këta mjekë janë krenaria jonë,shembulli dhe virtyti ynë. Ata po shkojnë në “luftë” me vetëdije, kundër një “armiku” sa të njohur, aq të pa njohur, por me një mision të vetëm,të shpëtojnë jetë. Prandaj lutemi çdo ditë për ju dhe për popullin italian dhe jemi gjithmonë me mendje e me zemër pranë jush.
Nënë Tereza thotë “Në vend që të mallkojmë errësirën, le të ndezim një qiri”. E pra në mes të kësaj errësire duhet të ndezim një dritë, një dritë shprese e besimi se me ndihmën e Zotit dhe me bashkëpunimin e secilit prej nesh, do dalim nga kjo situatë e vështirë. Unë kam besim se në fund, jeta do të triumfojë.
L’Albania, l’Italia e il mondo intero stanno attraversando una situazione molto difficile. Siamo di fronte ad una pandemia molto pericolosa chiamata Coronavirus. In questo momento tutti siamo chiamati a restare in casa. In effetti è l’unico modo per uscire da questa situazione e tornare a una vita normale.
“L’amore inizia prendendosi cura dei nostri cari”, dice Santa Teresa di Calcutta, per questo bisogna che tutti ci responsabilizziamo restando in casa per salvaguardare non solo noi stessi ma anche il nostro prossimo. È indispensabile seguire i consigli dei medici, senza diffondere il panico, ma rimanendo calmi e al sicuro in casa.
La situazione in cui ci troviamo non durerà per sempre ed è meglio per tutti noi se ci prendiamo cura gli uni degli altri. Siamo più forti se ci comportiamo come una comunità unita. In questo modo aiutiamo anche chi è in prima linea in questa “guerra”, i dottori, che ora più che mai hanno bisogno del nostro sostegno.
30 medici albanesi sono stati inviati in Italia per aiutare i loro colleghi italiani in questa fase veramente difficile. Nel difficile periodo del terremoto che ha colpito l’Albania, le squadre di soccorso italiane sono prontamente venute in nostro aiuto e non ci hanno lasciato soli nell’affrontare questa situazione. E oggi è l’Italia ad aver bisogno anche del nostro aiuto. Questi medici sono il nostro orgoglio, son un esempio di virtù. Condurranno una “guerra” contro un “nemico” tanto noto quanto sconosciuto, con l’unico intento di salvare vite umane.
Ecco perché preghiamo ogni giorno per voi e per tutto il popolo italiano e siamo sempre vicini a voi con la mente e il cuore.
Santa Teresa di Calcutta diceva: “Invece di maledire l’oscurità, accendiamo una candela”. E, quindi, in mezzo a questa oscurità dobbiamo accendere una luce, una luce di speranza e fiducia con l’aiuto di Dio e la cooperazione di ciascuno di noi. Usciremo da questa situazione difficile. Sono fiducioso che alla fine trionferà la vita.
Redjon Llesha, FushMilot