Cosa resterà dell’oggi ai giovani occidentali?
Sollecitato dalla perturbazione causata dalle restrizioni per far fronte all’epidemia e alla nuova ondata che ha investito l’Europa nelle ultime settimane provo a indagare la condizione attuale da una prospettiva inedita. Non voglio commentare o giudicare le scelte dei governi europei, tantomeno quanti sono deceduti ovvero gli uomini e le donne che ogni giorno lavorano per tenere in piedi i sistemi sanitari del “nostro” Vecchio Continente e gli ammalati gravemente sofferenti. Tutto ciò va trattato dalle persone competenti, io cercherò invece di scrive di qualcosa che conosco meglio.
Cercherò di scrutare la prospettiva, la condizione, la potenziale sofferenza silente, di un segmento della popolazione. Uno spaccato di cittadinanza residua, a tratti invisibile, demograficamente minoritaria e tuttavia legittima proprietaria del futuro del mondo. Naturalmente mi riferisco a una parte specifica della gioventù europea: gli studenti, i dottorandi, i neo-laureati, i maturandi che ambiscono a divenire fisici, chimici, magistrati, biologi, consoli, artisti e così via. Se è vero che le sofferenze, oggi, investono maggiormente i piccoli-medi imprenditori, dipendenti e lavoratori, è vero anche che ciò non delegittima né può sminuire l’inquietudine che investe le gioventù europee, ossia il nostro futuro. Chiaramente, a questo punto, diviene legittima una domanda: “ma perché mai, questi ragazzi, dovrebbero soffrire?”. Purtroppo, o per fortuna, non tutti sono angosciati per ragioni calcolabili matematicamente. Se gli adulti, e nello specifico i lavoratori, costituiscono la loro esistenza sull’equilibro del calcolo e sul garante personificato dal Signor Reddito Adeguato (e immutato), per un giovane studente non è così. Se l’adulto riesce a fare della stabilità il proprio Dio; la giovinezza, invece, ha la prospettiva –l’ambizione- come solo e unico argomento. E cosa accade, allora, a questi ragazzi che giustamente si vedono barricati nelle loro case? Perché il “restare a casa” dovrebbe essere così drammatico per loro –noi-?
Prima di rispondere a questa domanda, credo sia opportuno compiere una precisazione. La giovinezza, nutrendosi esclusivamente di avvenire e di ambizioni, risulta essere –e questo è risaputo- una delle fasi della vita più intense e complesse di ogni esistenza. In una condizione ordinaria, quasi sempre, vi sono dubbi, rimorsi, sensi di colpa, incertezze e paure (tutto ciò, in solitudine, diviene asfissiante). A uno studente universitario può sfuggire il presente, ma non il futuro. In senso pratico ciò significa quanto segue: in età giovanile si fa molta fatica a comprende che cosa e, soprattutto, chi si è. L’adulto, invece, giovando del fatto di possedere già un passato –e quindi un vissuto-, non può avere determinati dubbi in merito. Può impoverirsi, sì; può perdere il lavoro, è vero; certamente, però, è molto più difficile che smarrisca se stesso e che non sappia più rispondere alla domanda “chi sono, io?”. Ai nostri ragazzi, in questo tempo, può accadere quanto detto. L’inquietudine, derivante dall’isolamento e dalla distanza siderale dal proprio “contesto”, ingombra e annebbia le menti. E quindi vi è un rischio di rinuncia all’ambizione, di smarrimento e deperimento della spinta esistenziale e vitale. La tragedia, la morte, può essere anche psicologica, non solo organica. Indubbiamente il momento storico è complesso per tutti noi, ciononostante bisogna non ignorare né sottovalutare la totalità delle questioni.
Ho scritto per dare voce a delle dinamiche, a delle conseguenze, che altrimenti resterebbero ignorate solo perché non organicamente danneggiate dal virus. In definitiva, nessuno può fingere di dimenticare ciò: se l’adulto ha la salute come necessità primaria della propria esistenza, la giovinezza ha il futuro come solo argomento. Perché se è vero che tutti godono degli stessi diritti, è vero anche che nessuno possiede il diritto di non ascoltare e non considerare qualsivoglia forma di sofferenza –sia pure minoritaria, non patologica o meramente psichica-.

Giuseppe P., Aversa