Anche un leone ferito può riaccendere il bello

Qualche domenica fa nella nostra parrocchia della Divina Provvidenza in Firenze, per chiudere un ciclo di conferenze sulla sfida educativa abbiamo ospitato la professoressa e preside dell’Istituto Tecnico e Alberghiero di Caivano, Eugenia Carfora. Nonostante l’orario desueto, quasi mezzogiorno, la sala era gremita ed evidentemente l’interesse per il tema e per l’ospite era molto alto. Carfora, infatti, è diventata celebre, con il nome di Preside Coraggio, già da diversi anni, grazie alla sua lotta e al suo impegno profuso nel rendere le scuole di Caivano un luogo non solo di aggregazione ma di speranza e riscatto per i ragazzi e le ragazze del Comune del Napoletano.
La Preside ci ha parlato della sua esperienza, del suo modo di percepire l’educazione sollecitandoci a essere vivaci, nel nostro piccolo: infatti, in quanto cristiani la nostra missione passa anche dal valorizzare gli altri e investire per il prossimo.

Chi è la professoressa Carfora?

«Sono da sempre abituata a realizzare i miei tuffi insieme ai ragazzi, nella mia vita non mi sono mai allontanata dal contesto giovanile e dalla scuola. Mi sono sempre impegnata nel sociale: quando ebbi l’occasione di andare a lavorare e Castelvolturno mi sono fatta carico di quei bambini che “venivano al mondo comunque”, figli di quelle donne, molte delle quali sfruttate, che quando avevano figli avevano bisogno della scuola e la ricercavano, mi dicevano che avevano bisogno di aiuto per i loro figli, che per loro era importante che andassero a scuola.

Mi pare che li abbia realizzato una consapevolezza importante.

È stato allora che ho realizzato che non per tutti la scuola è vicina, non per tutti la scuola è scontata. In quel momento ho capito che volevo fare questo nella mia vita: iniziai a occuparmi dei problemi della dispersione scolastica, perché mi resi conto che nessuno ne parlava. Mi accorsi che spesso ci si perdeva dietro la burocrazia, e che fra quello che mi dicevano ai convegni e ai corsi, e quello che poi accadeva nella realtà, c’era un abisso.

Poi venne il concorso del 2007!

Quando ho vinto il concorso da dirigente scolastica, nel 2007, emerse un elenco di scuole in cui c’era troppa dispersione scolastica. Venni, quindi, assegnata alla Raffaele Viviani, nel Parco Verde di Caivano, che era considerata la peggiore scuola d’Italia.
Nel parco Verde vivono poche persone, poco più di 3800. In questo pezzetto di terra il contesto è complesso: ci sono molte case che avrebbero dovuto essere temporanee, ma cui, poi, nessuno ha pensato più. Il problema, a mio parere, non è tanto della gente che ci abita, ma della dirigenza che non viene esercitata e dell’amministrazione che sfrutta la povera gente.
Ci sono due scuole, di cui una delle due è la Viviani. Quando arrivai per la prima volta a vedere la sede, mi trovai davanti a quella che non poteva essere davvero una scuola: un edificio abbandonato, chiuso catenacci davanti ai cancelli, materassi accatastati all’ingresso e una signora con una scopa che puliva il viale. Andai allora in succursale, ma una volta arrivata, non mi presentai come futura preside. Chiesi se ci fosse qualcun con cui poter parlare, mi dissero che erano tutti in ferie. Ovunque c’era disordine e confusione. Chiesi informazioni e mi spiegarono la situazione: nella sede centrale al Parco Verde nessuno voleva andare, c’erano molti studenti iscritti, ma la maggior parte non andava a scuola, i professori facevano tardi e i pochi ragazzi che si presentavano a lezione erano spesso lasciati soli in aula.
La mia sfida educativa, in quel primo periodo, è stata principalmente fare le pulizie, ripulire tutta la scuola e gli ambienti. Finita la parte di pulizia e riordino, sistemati gli spazi, mi aspettavo che i ragazzi sarebbero venuti a scuola, ma così non accadde, e capii che, in realtà, la mia nuova sfida educativa era far venire i ragazzi a scuola con gioia. Una mattina decisi di scendere in strada e andare per le vie a cercare i miei studenti. Camminando vedevo le persone su balconi delle case. Quando mi vedevano a loro volta, molti mi chiamavano, mi invitavano nelle loro case, mi offrivano il caffè: in questi gesti, in quei silenzi, vidi una disperata richiesta di aiuto. I ragazzi continuavano a non venire a scuola e mi chiedevo perché. Capii che questi giovani spesso sono partoriti con atti, non so se di amore, perché nella solitudine ci si incontra e si vivono le pulsioni.
Scoprii qualcosa nel Parco Verde: tutto lì era già predestinato. C’era bisogno di cambiare molte cose, così decisi di introdurre il tempo prolungato per tenere più tempo i ragazzi scuola, la stavo trasformando in un istituto di eccellenza. Volevo anche introdurre la possibilità di crescere i bambini fin dall’infanzia, ampliare i gradi di istruzione per evitare la dispersione scolastica. Il mio progetto, però, è stato bloccato dai colletti bianchi che detenevano il potere nel territorio, che mi hanno costretto ad andare via.
Alla fine, fui spostata in una scuola che, secondo i piani, doveva sparire dalla mappa di Caivano. Si diceva che mancassero le aule, ma io ne trovai 30 vuote, utilizzabili, mentre tutti dicevano che era necessario costruire altre scuole. Ricordo che, in quei mesi, ci fu un ragazzo che venne a dirmi che ero come un leone ferito: soffrivo, ma non ero morta. Anche grazie a queste parole decisi di accettare il posto e buttarmi in questa impresa. Non so se ho svolto bene il mio lavoro di preside, ma sicuramente ho fatto una scelta: per metà sono una preside, per l’altra metà sono ciò che mi passa per la testa. Iniziai a sistemare tutto anche nella nuova scuola, mi sono messa a lavorare con altre persone per creare la bellezza interna, fatta di sacrifici e pulizia. Sfida educativa vuol dire anche prendersi le responsabilità, agire attivamente, senza scorciatoie.

Cosa vuol dire, quindi, sfida educativa?

Credo che si possa fare n paragone fra la Scuola e la Chiesa: la Chiesa cerca di curare le anime, ma non ha la responsabilità di certificare i risultati delle persone, cosa che invece deve fare la Scuola. La Chiesa ha l’obbligo morale di dare una carezza a chi sbaglia e a chi si perde. La Scuola ha mezzi diversi, ma ha scopi, secondo me, comuni: dare alla famiglia umana dei valori, non solo predicandoli, ma praticandoli attivamente. La Scuola si divide in semi e germogli: entrambi cadono nel terreno. Se il terreno è inquinato, va pulito con le nostre mani. Gli educatori devono riuscire ad essere di fianco ai ragazzi e alle ragazze, devono essere modelli, non devono portare nella direzione che vogliono loro ma devono riuscire ad instaurare un colloquio, un ascolto: da questo il concetto di rigenerazione. Per contare bisogna esserci: è importante come ci comportiamo in tutti i giorni, dobbiamo scegliere fin dall’origine cosa fare nella nostra vita, altrimenti si corre il rischio di perdere tutto. Non importa se abbiamo l’approvazione degli altri, perché può venire meno da un momento all’altro. L’importante nella vita è condividere una missione e una visione. Io al Parco Verde ho immaginato di portare la bellezza e ho cercato di rendere visibile all’altro il bello, impegnandoci per superare giudizi e pregiudizi, per evitare di creare un ghetto. Dobbiamo riuscire a far nascere nei giovani la volontà di ricreare il bello e il benessere anche nelle periferie.
È importante che i ragazzi imparino che niente arriva per caso, che è necessario impegnarsi e coltivare i propri talenti, ricordando che niente è dato per scontato. Gli educatori, però, hanno come sfida educativa quella di aiutare i ragazzi a far emergere i propri talenti, investire nei ragazzi là dove gli altri non investono, aiutandoli a scoprire le proprie passioni e ambizioni. I miei studenti sono esemplari in questo, perché senza avere niente, sono riusciti a creare la bellezza: ognuno di noi sta lavorando per ricucire la coesione sociale e la responsabilità in questi luoghi, ma è un percorso lungo, che passa attraverso la responsabilità di tutti, come singoli e come collettività.
Sfida educativa è utilizzare ogni attimo di vita che abbiamo, ricordando che ciò che conta non è l’apparenza ma la sostanza.

Quali ricchezze si sente di trovare nei luoghi in cui lavora quotidianamente? Sono ricchezze che in altri contesti non si riesce a cogliere?

Ci sono tanti sguardi, tante parole. Un semplice saluto, un buongiorno, per me quella è ricchezza. Spesso in città la gente non si saluta più, mentre io nel mio lavoro trovo gente che mi saluta, gente che mi chiede aiuto. Tutto questo mi da la forza di credere ancora nell’umanità e nello stare insieme.

Secondo lei, quanto il benessere economico e sociale incide sulla ricettività degli studenti e su come i ragazzi si approcciano alla scuola?

Io credo che la cosa veramente importante sia stimolare a creare e far emergere il bello e la creatività nei ragazzi, affinché diventino orme e tracce su cui progettare il proprio percorso in futuro. Per questo credo che non sempre il benessere economico sia la vera ricchezza, il vero benessere è tutelare i valori.

L’educazione non riguarda solo i ragazzi e la scuola, ma anche gli adulti. Anche questi dovrebbero essere in qualche modo rieducati all’ascolto e a piccole attenzioni nel modo in cui si rapportano con i giovani?

Gli adulti hanno smesso di essere modelli, e questo è un pericolo, perché se i giovani vedono che i genitori non parlano più, che gli adulti fanno finta di niente e si lamentano e basta, non è più un ruolo di guida positiva. Gli adulti dovrebbero imparare a mettersi accanto e a rimodulare il loro modo di approcciarsi, per evitare di creare un muro fra loro e i giovani. Forse noi adulti dovremmo diventare un po’ invisibili e renderci capaci di ascoltare i giovani, mettendo a disposizione la nostra esperienza.

Cosa la sostiene in queste sue scelte così coraggiose e faticosa?

Quando ti rendi conto che c’è da fare, non ti chiedi se ce la farai. In questi luoghi, la forza emerge senza che tu te ne accorga. Mi immagino la vita come una consegna di testimone, dove creo qualcosa di bello per ciò che verrà in futuro.

Secondo lei quale è il problema principale della scuola?

Ci siamo innamorati di ciò che abbiamo costruito in passato, ma siamo rimasti fermi lì. Dobbiamo trovare il coraggio di far diventare la professione di docente la più bella del mondo, ma io vedo sempre meno persone appassionate. Vorrei una scuola che faccia innamorare i ragazzi della cultura, che li incanti in aula e che li faccia innamorare della materia. Bisogna stimolare la cultura e lasciare spazio ai ragazzi di emergere con le loro idee. Credo che dovrebbero essere introdotte tre discipline fondamentali nella scuola: la filosofia, il diritto e l’economia sana.

C’è stato un momento dove ha capito che ciò che stava facendo si stava davvero concretizzando?

C’è un episodio che vorrei raccontare. C’era una ragazza che non riusciva proprio a stare a scuola, aveva molte difficoltà a studiare. Era già stata non ammessa due anni consecutivi alla classe successiva, però mi ero accorta che ogni cosa che toccava, la faceva brillare, puliva tutto alla perfezione, riordinava gli ambienti e sistemava le cose. Una volta le chiesi cosa le piacesse davvero fare, lei mi rispose che le piaceva fare e pulizie e tenere la casa pulita. Facemmo un accordo: lei mi promise che avrebbe seguito tutte le prime ore di lezione, e io in cambio le promisi che avrebbe potuto ripulire e sistemare tutto il mio ufficio come meglio credeva. In questo modo, riuscii a farle seguire le lezioni a cui non era mai andata.

Giulia C. – Firenze

Gioia e speranza della Quaresima 2024

Diciamo che la lettera di papa Francesco per la Quaresima 2024 affronta temi profondi e universali che vanno al di là delle divisioni religiose. Innanzitutto, il richiamo alla libertà come dono divino e la necessità di uscire dalle schiavitù interiori e esteriori risuona in modo potente. Anche se non si condivide la fede cattolica, il concetto di liberazione e di ricerca di una vita piena e autentica è qualcosa a cui molti possono aspirare.
Inoltre, il messaggio mette in luce la responsabilità individuale e collettiva nel riconoscere e rispondere alle sofferenze degli altri. L’invito a non essere indifferenti di fronte alle ingiustizie e alle oppressioni richiama alla nostra comune umanità e alla necessità di solidarietà e compassione. Questo è particolarmente rilevante in un’epoca segnata da conflitti, disuguaglianze e crisi umanitarie su scala globale (ahimè).
La lettera sottolinea anche l’importanza di agire concretamente per il bene degli altri e per la cura del creato. Questo richiamo all’impegno sociale e ambientale ci spinge a considerare le nostre azioni quotidiane e le loro implicazioni sul pianeta e sulla vita degli altri esseri umani. È un appello a una maggiore consapevolezza e responsabilità nell’utilizzo delle risorse e nella gestione dei rapporti interpersonali.
Anche se il mondo può sembrare segnato da divisioni e conflitti, il richiamo alla conversione personale e collettiva verso un modo più autentico e inclusivo di vivere offre una prospettiva luminosa per il futuro. In definitiva, la lettera invita tutti, indipendentemente dalle proprie credenze, a riflettere sulle proprie azioni e a impegnarsi per un mondo migliore fondato sull’amore e sulla giustizia.
Per realizzare questa novità è necessario però liberarci dalle nostre schiavitù, dai nostri idoli. A questo proposito mi pare interessante e utile sottolineare il parallelismo che il papa pone tra il percorso, la vita di Gesù e il percorso dell’Esodo, della liberazione degli ebrei dal Faraone d’Egitto. Gesù è colui che ci insegna a vivere nel deserto, a ri-conoscere noi stessi, a liberarci dal “faraone” che ci opprime.
Il deserto dei 40 giorni di quaresima è il luogo dove operare un maquillage del nostro volto, ma non solo una estetica di facciata, bensì del pensare, dell’amare, del decidere. Nel deserto il credente ri-trova il suo volto nel volto di Gesù, non un volto fotocopia, ma un volto, una storia che ritrova nella storia di Gesù la matrice sulla quale costruire la propria vicenda di uomo e di credente libero.
Non la malinconia. «Si veda piuttosto la gioia sui volti, si senta il profumo della libertà, si sprigioni quell’amore che fa nuove tutte le cose, cominciando dalle più piccole e vicine. In ogni comunità cristiana questo può avvenire.»
Papa Francesco ci racconta quella ventata di speranza che in questo periodo serve a tutti per sperare e per risollevarsi, una ventata che spesso ci dimentichiamo di avere per poter vivere una vita che possa rendere felici e speranzosi gli altri oltre che noi stessi.
Infine, «Nella misura in cui questa Quaresima sarà di conversione, allora, l’umanità smarrita avvertirà un sussulto di creatività.» La creatività è uno dei doni più belli che l’umanità possa avere. È bello capire che la Quaresima può essere il periodo in cui l’umanità smarrita può sempre trovare la strada per fare cose nuove.
Vincenzo, Gianluigi, Andrea

Chiese vuote… di giovani?

Le chiese sono vuote, di giovani (ma non solo).
La colpa è della Chiesa che non parla più di Cristo bensì di sole cose mondane.
I giovani hanno bisogno di Cristo non di cose mondane.
Lasciamo le necessarie cose del mondo al mondo.
I giovani scansano le chiese perché la Chiesa vuole fare da maestra in tutto non sapendo più parlare di Cristo.
Queste sono alcune delle riflessioni che molti credenti fanno alla realtà ecclesiale attuale. In particolare provo a rispondere a Matteo Matzuzi che sabato 18 novembre scriveva su IlFoglio un testo dal titolo Ite Missa Est proprio su questo tema.
Certo, ognuno ha le sue competenze, i propri ambiti di azione, ma i vari ambiti oggi più di ieri sono così interconnessi tra loro e sollecitano delle risposte anche morali.
Già Paolo VI, che non è l’ultimo arrivato, diceva che il credente deve avere su una mano il Vangelo e sull’altra il giornale, perché il vangelo è fatto per il mondo e il cristiano deve conoscere il mondo. Il Vangelo è la lampada da porre in cima al monte perché illumini le città degli uomini. Per illuminare il mondo è necessario conoscerlo.
E poi Dio si è fatto uomo in Gesù non per hobby, bensì “per conoscere” la storia degli uomini, perché gli uomini conoscessero la sua storia.
Non si può dare una fede senza il mondo e viceversa. Forse per troppo tempo si è voluto lasciare il mondo fuori dalle porte delle chiese, come fosse qualcosa di solamente cattivo, maligno e si è persa la capacità di comunicare.
Il problema non è parlare di Cristo, bensì scalfire l’indifferenza all’incontro con la persona Cristo. Questo perché l’apatia, l’indifferenza e l’individualismo della nostra società ormai sono all’apice del ben vivere: se già chiedere di incontrare l’uomo è una sfida, chiedere di incontrare l’uomo Cristo lo è ancora di più.
Non si può non parlare del mondo, perché il mondo tutto è stato ricapitolato in Cristo, perché ogni più piccolo granellino di sabbia o filo d’erba trovano il loro senso in Cristo! Certo il rischio di confondere l’ecologia con l’escatologia è alto, ma sempre è stato così. La sfida è far capire che l’ecologia senza escatologia diventa ideologia.
Forse non tutti sanno che l’escatologia è la conoscenza e l’esperienza del Paradiso; è lasciarsi guidare dalla luce e della realtà del Paradiso per dare direzione, significato e sapore all’ecologia non solo dell’ambiente, ma di ognuno di noi. Si può vivere la storia con tutte le ottime intenzioni ma solo nel presente. Si può vivere la storia con la prospettiva futura che dona continuamente speranza e forza nel presente.
Le chiese sono vuote non perché la Chiesa parla troppo del mondo e poco Cristo, bensì perché non ha ancora ritrovato quella capacità di parlare del mondo come segno della rivelazione di Cristo aperto alla luce di Cristo.
D’altra parte non è proprio il Concilio Vaticano II a scrivere: le gioie e le speranze, i dolori e le angosce degli uomini di oggi sono anche le gioie, le speranze, i dolori e le angosce dei discepoli di Cristo?
«Non so, mi scrive F., se dire le cose del mondo porti a oscurare Gesù, anche perché la religione insegna valori umani assolutamente condivisibili: fratellanza, rispetto… Quindi per forza bisogna trattare le interazioni umane che, diciamo, sono una manifestazione più diretta e visibile della Rivelazione».

AZZARDO QUESTO CONOSCIUTO

Cosa ha spinto i calciatori a scommettere? Detta così sembra una domanda retorica ed inutile perché i calciatori hanno tutto: soldi, fama, donne… eppure come se non bastasse hanno voluto provare l’ebbrezza di scommettere. Penso però che il giocatore (in quanto giocatore d’azzardo) non vuole giocare d’azzardo per arricchirsi o perché ha bisogno di soldi facili, bensì perché vuole provare l’emozione di aver battuto il banco. Ovvero quella “persona” che non perde mai. O quasi. Si inizia a giocare da giovani, per noia, passatempo, capriccio e pian pianino, se non si è bravi a dosarsi, diventa una vera e propria ossessione. I ragazzini cominciano a giocare pochi spicci al videogame di un bar e le prime volte, magari, vincono. Successivamente, l’eccitazione della sfida e l’illusione di facili guadagni li spinge a continuare il gioco nelle ricevitorie o addirittura in siti online, rubando prima i dati sensibili ai genitori e poi iscrivendosi alle piattaforme. Una droga che ti prende il cervello e non ti lascia pensare ad altro. Ti rende ridicolo e cieco di vedere comportamenti bizzarri e alquanto superstiziosi. Non riesci a scindere i problemi della vita vera da quello che dovrebbe essere un gioco. È un problema che è in aumento e secondo me questo è dovuto al fatto che al giorno d’oggi i ragazzini vivendo nell’era digitale e avendo sempre in mano uno smartphone o un tablet crescono più in fretta, conoscono più cose e sono più sgamati.
In queste settimane si è parlato tanto, forse troppo, di Fagioli e Tonali che da calciatori hanno scommesso su partite di calcio. Ai professionisti non è negato il gioco d’azzardo purché sia legale, su piattaforme legali (per intenderci quelle che vediamo in tutte le pubblicità e/o sponsor di eventi) e non su eventi sportivi rientranti nelle federazioni quali FIGC, UEFA e FIFA. Inoltre, la grande differenza con il passato è che loro hanno scommesso, fino a quello che sappiamo oggi, solo per proprio interesse personale senza commettere eventuali illeciti sportivi e/o combinare partite. È una finezza particolare che però molti media non tengono a precisare tanto da far passare i due calciatori come coloro che si sono venduti le partite, come successo anni fa.
Detto ciò, cosa ha spinto due calciatori a scommettere ed essere definiti dai giornalisti ludopatici? Come riportato dalla Rai nell’intervista mandata in onda durante “Avanti Popolo” ai dirigenti del Piacenza calcio (squadra in cui sono cresciuti Fagioli e Tonali), gran parte del problema sta nei soldi. I calciatori guadagnano troppo fin da giovane. Infatti, se un calciatore guadagnasse 1.000 – 2.000 euro al mese, tolte le spese delle bollette e altro, non gli rimarrebbero molti soldi da investire in schedine e slot machines. Di certo, se anziché 1.000, la giovane promessa ha una busta paga 10 volte superiore la situazione si complica drasticamente e di conseguenza anche le eventuali, se non quasi certe, perdite che accumulandosi diventano debiti. Poi però c’è anche una sorta di abbandono. I giocatori nelle giovanili sono spesso soli, i loro compagni al di fuori del calcio hanno una vita normale e lo stesso vale per le ragazze che frequentano. Di conseguenza, non hanno modo di vivere una vita normale di un adolescente e questo può portare a stare in casa, su internet e scoprire siti illegali e non dove con poco ci si può registrare e scommettere. Bisognerebbe che questi ragazzi venissero educati dal principio, dai primi stipendi con l’aiuto di tecnici per capire come gestire i guadagni. Anche solo far capire loro che non tutti hanno quella possibilità economica, che, ad esempio, 10.000 euro è quasi metà stipendio annuale medio di una persona. In fin dei conti questi calciatori sono nel bene o nel male ignoranti del settore. Negli USA questa formazione c’è già da qualche anno. In NBA, infatti, girano cifre molto più grosse di quelle calcistiche italiane ed europee, tant’è vero che le squadre sono corse subito a investire nell’educazione finanziaria dei propri giocatori.
Forse, tra tutte le cose che prendiamo dall’America, questa potrebbe veramente salvare molte persone giovani e non solo.
Marco C. – Milano

¡Adelante 2023!

Il 15 Maggio scorso padre Giannicola mi chiese di scrivere un pensiero sul viaggio che stavamo per intraprendere verso Mérida (Mexico); mancavano 3 mesi e non riuscivo nemmeno a immaginare ciò a cui sarei andato incontro. Nel testo scrissi che avrei sfruttato l’occasione per diventare una persona migliore e altre “frasi fatte” simili, non potendo veramente concepire quanto questa esperienza mi avrebbe cambiato.
“Il Messico non è un paese, ma uno stato mentale”, così uno dei confratelli Barnabiti, padre Miguel, ci ha descritto il paese in cui egli da qualche anno presta servizio. Noi abbiamo avuto la fortuna di poter verificare quanto realistica sia quella affermazione.
Durante l’esperienza, infatti, siamo riusciti ad abbattere ogni barriera culturale e linguistica che si è posta sul nostro cammino; abbiamo iniziato giocando con i bambini, che sono il futuro e il motore del mondo, e proprio per questo sono i primi a cui bisogna prestare attenzione. Poi il legame si è esteso anche alle famiglie che ci hanno invitato nelle loro case, raccontato le loro storie, fatto assaggiare i piatti tipici e aiutato a comprendere quella che a noi si è presentata come una realtà utopistica.
Difatti ogni persona che abbiamo incontrato a Merida, qualsiasi cosa succedesse, era sempre pronta ad aiutarti e a darti tutto ciò che poteva, anche se, di materiale, non possedeva niente. Questo è il motivo per cui ognuno di loro avrà sempre un posto nel mio cuore.
Prima di partire dissi che ero pronto a migliorare come persona, dando per scontato che il processo sarebbe avvenuto per merito mio. Ad oggi, rientrato a casa, con la volontà e l’intenzione di ritornare il prima possibile, sono invece convinto di essere riuscito a raggiungere questo “obiettivo” soltanto grazie all’amore e alla dedizione che tutte le persone che ho incontrato in questo viaggio hanno messo a mia disposizione. In primis padre Giannicola che si è fatto carico di organizzare e unire i ragazzi italiani con cui sono partito; poi padre Stefano che ci ha fatto conoscere la vita del carcere e padre Miguel tramite il quale abbiamo organizzato il “campamento” che ci ha permesso di conoscere dei bambini stupendi; quindi gli animatori messicani, che sempre hanno fatto di tutto per farci sentire a casa, riuscendo pienamente nel loro intento; infine “mamma” Yanely con marito e i loro 5 figli, che hanno accolto 8 persone in casa sua come se fosse la cosa più comune del mondo, mettendosi al nostro servizio per ogni necessità.
Non so se sarà mai possibile tornare e non so se altre esperienze del genere, una volta fatta la prima, mi cambieranno e colpiranno con lo stesso impatto però, quel che è certo, è che dopo queste due settimane sono pronto a rimettermi in gioco ogni qualvolta sarà possibile pur di aiutare chi vive in condizioni meno fortunate delle mie.
Grazie a tutti coloro che hanno reso possibile e mi hanno accompagnato in questa fantastica esperienza con l’augurio di rivederci ancora per non dimenticare mai quanto passato insieme.
¡Viva Mexico!
Michele L. – Bologna

¡Con todo l’amor del mundo!

È notte, a Mérida (Yucatán).
Alcuni, forse tutti i giovani sono in piscina di don Martin e dona Leila. Un piccolo lusso nella semplicità della periferia.
È l’ultima notte. Domani si riparte, nessuno vorrebbe ripartire. È normale.
Tutti partirono carichi, anche un poco forse molto preoccupati.
Il primo giorno, il caldo aggressivo e l’umidità opprimente, l’acqua che non arriva perché ignari del rubinetto chiuso e la prospettiva di una doccia ogni tre giorni non era peregrina. Ma non si voleva (e non si poteva) tornare indietro!
La Storia va avanti se la facciamo andare avanti. E ognuno di noi la Storia vuole continuarla.
Si è consapevoli di poter fare un pezzo di Storia, perché si è guardata in faccia la realtà, la realtà di se stessi, la realtà degli altri.
La realtà di se stessi, messi alla prova non solo dal caldo e dall’umidità improponibili ma da un mondo nuovo non fatto di 5 stelle o like di Trip Advisor bensì di uomini, donne, bambini, case, strade, fede con altri criteri di esistenza rispetto ai nostri.
Il dormire in otto in due stanze, senza cuscini, con le valigie unico armadio e appoggio. Anche il lavarsi ci mette in gioco, un solo bagno per tutti. L’altro è per la famiglia, papà mamma e 5 figli: tutti splendidi. Si sono ritirati nella loro unica stanza rimasta, sulle loro amache per fare spazio a tutti noi. E poi i criteri di pulizia ben diversi dalle nostre ossessioni igienistiche.
Eppure la vita procede, la voglia di scoprire e lasciarsi scoprire prende la meglio sulle nostre preoccupazioni.
Quale famiglia italiana avrebbe ospitato in casa sua 8 sconosciuti?
Quali persone, le altre famiglie, avrebbero mai fatto a gara per cucinare ogni sera piatti diversi per far conoscere la propria storia? Compresi i litri di Coca Cola?
I bambini, quelli in affido alla Mision de Amistad, quelli della Capilla del Carmén specialmente, che sono i veri protagonisti della storia: cosa avranno pensato dal basso della loro statura media di fronte a noi abbastanza alti per intimorirli?
Bambini tranquilli nell’attesa che ogni gioco venisse spiegato in italiano prima e in spagnolo poi, ma poi scatenati non tanto per vincere, ma per giocare! Un gioco per tutti, grandi e piccoli uniti. E le mamme in retroguardia a godere di questa anomala attività. I papà purtroppo i grandi assenti, chissà perché.
E i giovani? Che si sono prodigati nell’accogliere la nostra proposta, il nostro modo di lavorare e giocare? Anche prendendoci per la gola?
12 giorni fuori dalla nostra storia quotidiana per vivere altre storie, entrare in altre case; scoprire per quel che si può il carcere locale da una parte e bambini e bambine dimenticati dagli adulti, affidati all’associazione Amistad/Friendship.
12 giorni in cui la nostra storia non è più l’unica Storia, perché nel mondo ci sono altre Storie con la “S” maiuscola che ci insegnano le vere nozioni necessarie per vivere in un mondo occidentale che rischia di perdere la Storia, non solo perché ormai senza più figli.

Todo lo que hiciste para nosotros no es comun y por eso siempre sostendrè vuestre familias en el nostro corazon, esperando que para vosotros puede ser lo mismo.

¡Con todo l’amor del mundo!

Agosto 2023

Agosto, tempo di riposo o di ritmi più tranquilli.
Non proprio: tutte le energie recuperate in una settimana al mare a luglio, sono già esaurite alla vigilia di questo 15 agosto.
Avrei voluto leggere un libro in più, approfondire qualche tema lasciato in sospeso, ma il vortice delle questioni burocratiche o delle emergenze ha avuto il sopravvento.
Anche il pensare a tutti i fatti di cronaca di questo ultimo mese o poco più ha avuto la meglio.
Quante violenze su questa donna o quella ragazza, nelle carceri; quante violenze tra giovani; quanta droga ancora in circolazione di cui non si parla; poi le guerre, e poi … tanto altro.
Sembra un mondo che non vuole uscire dal vortice del male, un mondo sul quale non vogliamo ragionare per sconfiggere il male e tirar fuori il bello e il vero. Talvolta lo sconforto sembra prevalere; altre si sceglie l’indifferenza e si riesce anche a procedere senza grossi problemi.
Però non possiamo non vedere tanta violenza gratuita di tanti giovani, tanta violenza che ci infetta se non facciamo attenzione. Perché l’essere umano è violento, ma può domare la violenza e coltivare il bene.
Il Papa ha detto qualche cosa di interessante a proposito parlando ai giovani a Lisbona qualche giorno fa. Certo non erano tanti questi giovani di fronte ai milioni di giovani sparsi nel mondo. Probabile che molti di quei giovani abbiano già dimenticato le parole ascoltate e la mission sollecitata dal Papa: «Voi siete la generazione che potete vincere la sfida del clima… non abbiate paura, andate avanti!».
Ma il lievito è sempre poco rispetto alla farina da impastare e al pane da cuocere. E se anche pochi, quei giovani, di cui nessuno tra i giornali del mondo ha parlato tranne qualche pagina italiana, hanno ascoltato e vissuto la spiritualità della GMG e sicuramente ne sentono la responsabilità.
Commentava un mio giovane amico, Giorgio Brizio, su Instagram l’altro ieri: «Non sono credente, ma penso davvero che la Chiesa e le comunità religiose possano avere un ruolo decisivo tanto nella lotta climatica quanto nel supporto alle realtà che salvano vite nel Mediterraneo».
E non sono pochi i giovani che amano vivere la vita. Non sono pochi quelli che hanno rallegrato queste mie serate con lunghe chiacchierate non su come si veste Harry Styles ma come la fisica possa aiutare a migliorare la vita, come possa incontrarsi o ancora scontrarsi con la fede e cose del genere… Fortunatamente la birra ha mantenuto fresche e agili le corde vocali! Potrei sintetizzare le tante parole che ci siamo scambiati con quanto scritto l’8 agosto scorso da Michele Serra (Ok Boomer, Ilpost.it): «Siamo animali, la realtà fisica è ciò che ci dà vita e senso, ci rimette in quadro. La tecnologia, anche se silicio e terre rare ne garantiscono l’hardware, è metafisica, ci fa sembrare di essere ovunque ma, nel farlo, ci leva la terra sotto i piedi, espropria il nostro metro quadrato e ci fa galleggiare come anime nel paradiso – e siccome il paradiso non esiste, la sensazione di spaesamento, e di truffa, è anche peggiore».
Certo, per me il Paradiso esiste e proprio perché esiste so che la speranza non è una chimera ma ciò che rende bello e vero il presente, anche con le sue fatiche. Il Paradiso sono quei due giovani che hanno dato del tempo a dei ragazzetti albanesi nella missione che purtroppo il 15 agosto chiuderemo per mancanza di pastori/sacerdoti che possano guidarla. Il Paradiso sono quei 9 giovani con cui, senza troppe pretese ma voglia di esserci, condivideremo dal 15 agosto del tempo con bambini e bambine della periferia di Mérida (Messico) per imparare un po’ di senso e magari darne un poco anche noi.
Siamo ad agosto e il silenzio e le città deserte ti fanno meglio ragionare su quanta buona speranza si riesca comunque a coltivare. E il tempo un po’ più rallentato ti fa capire la pazienza che si deve avere con le nuove generazioni, i loro ritmi, i loro aneliti, i loro dilemmi, anche quando l’età che avanza rischia l’impazienza.
Il 15 agosto è anche la festa dell’Assunzione di Maria alla casa del Padre e del Figlio (l’abitudine della Chiesa di immettere in feste “pagane” il proprio zampino!) che ci insegna come la paziente perseveranza di questa giovane donna le abbia donato il Cielo sulla Terra, perché non si può andare in Cielo se prima non si vive sulla Terra.
Non abbiate paura, andate avanti! Questo è il mio 15 agosto 2023.

Giannicola M. Simone

SAMZDAY 2023

Oggi è la festa del nostro amato e simpatico e ganzo e innovativo e instancabile e… SAMZ!
Non scrivo cose su di Lui, già lo ha fatto Paolo recentemente e non solo lui. Piuttosto credo che il modo migliore sia quello di ragionare su come mettere in pratica i suoi insegnamenti e renderlo presente oggi.
Recentemente don Alberto R. a scritto che il rischio dei preti e della Chiesa è di dire: “abbiamo sempre fatto così”, un rischio pernicioso e mortale. Una Chiesa che dovrebbe essere il normale alveo della fantasia rinnovatrice dello Spirito santo rischia in effetti di arenarsi nel “abbiamo sempre fatto così”.
Non è facile uscire da questo ritornello, non credo sempre e solo per accidia pastorale, bensì perché è complesso trovare strade nuove. Meglio, è facile tentare nuove strade e o strategie ma non altrettanto mantenerle perché l’oggetto dei tentativi si stanca facilmente ovvero ha gusti difficili o non si interessa a nulla.
Sicuramente il problema della Chiesa oggi, anche in Italia, è quello di non riuscire ad arrivare ai giovani a tanti più giovani anche se diverse immagini di questi giorni sui nostri Campi Estivi sembrano dimostrare il contrario.
I giovani che collaborano con me hanno letto e commentato l’articolo di don Alberto, lo hanno apprezzato ma ritengono sia una questione non così reale e importante perché la maggior parte dei loro coetanei non è interessata a nulla se non a ciondolare di qua o di là perché è estate, perché devono essere liberi, perché non amano puzza di incenso o di impegno qualsiasi.
Uno dei motivi per cui 40 anni fa decisi di intraprendere la strada della vita consacrata, del sacerdozio, fu proprio quella di far conoscere a tanti miei coetanei la bellezza dell’amicizia con Gesù. Ho cercato strade e strategie anche nuove, ho notato delle costanti e dei cambiamenti tra le generazioni incontrate. Ho cercato di trasmettere ai miei confratelli più giovani il gusto della cura dei giovani e adolescenti più che dei pizzi e merletti. Non devo certo fare una statistica dei risultati ottenuti (è necessaria?). Mi accorgo che non è facile appassionare a Cristo, al vivere in Cristo; non è facile formare a una “evangelizzazione per attrazione” o far “scendere dal divano” i giovani.
Eppure tre settimane fa ho incominciato – dopo anni di sosta – l’oratorio estivo forte della mia formazione milanese ma anche preoccupato per la mancanza di animatori e altri collaboratori: non volevo comunque si perdesse l’occasione di una cura dei bambini e dell’attenzione alle loro famiglie, in vista di una “capitalizzazione” per il futuro. Le cose sono andate bene, anche con un po’ di “copia e incolla”, tranne per i ragazzi 11/13 (ma questo è un altro discorso).
Specialmente con gli animatori ho notato una fedeltà che non mi sarei aspettato (compresa la pausa Coldplay a Milano!!!) e una capacità di coinvolgere loro coetanei a dare un contributo (ciò che non ero riuscito a fare io).
Gli “altri” giovani, anche quelli che al termine delle attività arrivavano a frotte per giocare a basket o… non è stato possibile coinvolgerli, nemmeno in attività alternative come scrivi don Alberto.
È giusto dire che sono contento di poter dare loro almeno un sorriso, un chiamarli per nome, uno spazio accogliente?
È giusto “accontentarsi” degli animatori vecchi e nuovi, come di quelli impegnati nella maturità o i nostalgici ora all’università che percorrono nuove strade? Lavorare con loro richiede molto tempo e pazienza e molta preparazione e non è facile trovarne per altro: è una considerazione comoda?
È corretto che l’età di don Alberto, più giovane della mia, si ponga la preoccupazione che è anche la mia: “abbiamo sempre fatto così”. Non è facile trovare una alternativa, ma con pazienza, comunione tra noi, i giovani e lo Spirito santo, credo che la troveremo.
Antonio Maria Zaccaria è sempre stato preoccupato di riformare se stesso prima degli altri, per riformare gli altri e la Chiesa; Antonio Maria ha sempre considerato l’errore dell’altro come un fatto necessario per crescere e costruire, perché, Antonio Maria prima di tutto ha sempre creduto nella libertà dell’altro per crescere nella libertà di Cristo.
Con questi pensieri grazie a tutti voi celebriamo oggi la festa del nostro Padre e Fondatore.
Giannicola M. Simone prete

Campamento de verano – PP. Barnabitas Mérida – Yucatán. ¡Adelante 2023!

Con este lema comienza oficialmente nuestra aventura junto a los padres Barnabitas de Mérida – Yucatán, México.
Con gusto publicamos las expectativas de cuatro de nuestros voluntarios entre los 9 que vivirán esta oportunidad:

Cuando cumples18 años, el verano representa la libertad, las salidas con los amigos, las primeras vacaciones juntos y yo también me imaginaba que pasaría mi verano así. Luego se me presentó un viaje a México, como voluntario, en una misión de los padres Barnabitas: ¡no tardé en cambiar de opinión! Al principio estaba muy indeciso porque significaba, y sigue significando, hacer solo el primer viaje al extranjero, pero las preocupaciones no se limitan a eso; los diferentes usos y costumbres pueden representar un obstáculo difícil de superar, y ni hablar del idioma -del que conozco pocas palabras-. Sin embargo, creo que todo esto es un “riesgo” que vale la pena correr, porque experiencias de este tipo, a mi edad, ocurren sólo una vez en la vida y espero que sean formativas tanto a nivel personal como en términos de interacción con los demás. También estoy convencido de que ver y poder tocar con mis propias manos las carencias y las dificultades de otras sociedades puede darme una apertura mental que hoy, en un mundo que tiende cada vez más al egoísmo y al bienestar personal, es una característica fundamental poseer Así que a la pregunta del Padre Giannicola “¿por qué elegiste embarcarte en esta aventura?” respondo: para poder mejorar, como persona y como joven, y, a mi manera pequeña, esperando poder dar una mano prestándome a todos los servicios necesarios.
Michele LaD. – Bolonia

En agosto del 2023, a pesar de mi corta edad, estaré a punto de vivir una experiencia destinada a marcarme para el resto de mi vida. La oportunidad de embarcarme en un viaje así siempre ha sido un sueño para mí. De hecho, desde niño, he tenido el compromiso de intentar ayudar a los demás, pero ninguna actividad de voluntariado en la que he participado se puede comparar con esta futura experiencia. Ir a un lugar tan lejano y culturalmente diferente será profundamente educativo, me ayudará a crecer y madurar. Será un viaje inolvidable, en el que mejoraré mi sentido de la empatía y en el que viviré de primera mano las dificultades a las que algunas personas están acostumbradas a vivir. Espero sinceramente poder contribuir a las comunidades que encontraremos, siendo conscientes de las dificultades que podemos encontrar. Finalmente seré capaz de ayudar realmente a alguien, yendo directamente a los lugares que necesitan. Probablemente, emprender un viaje así a los 18 años requiere un poco de valentía e inconsciencia, pero la posibilidad de ser realmente útil en mi vida es un impulso más fuerte que los miedos. En pocas palabras, en unos meses viviré lo que, desde chico, siempre he soñado, y la esperanza es estar a la altura de todo lo que se requerirá de mí.
Arturo M. – Bolonia

Siempre me han fascinado las experiencias de voluntariado, de aquellos que volaban al extranjero para dedicar su tiempo a ayudar a otras personas, a transmitir su cultura y tradición, o simplemente a entretener a los niños pero también a los adultos que cada día están en contacto con una realidad bastante diferente. y complicada comparado con la, pero igualmente fascinante. Este año también tendré la oportunidad de poder vivir una experiencia de este tipo, más precisamente una experiencia de voluntariado en México, en la ciudad de Mérida, con los Padres Barnabitas. Aunque es un camino largo, lleno de compromiso y sacrificio, no dudé ni un momento en confirmar mi presencia para sumarme al proyecto. En el momento en que me llegó la propuesta, sentí dentro de mí el sentido del deber que siempre he tenido con el voluntariado, comprendí que era hora de profundizar y ampliar mi camino, que partía del servicio prestado en el comedor de los pobres de la ciudad de Como, a un viaje al extranjero que me hubiera dejado una huella imborrable. Creo que el objetivo del viaje, junto con otros jóvenes, será diseñar y organizar actividades que puedan estimular a los niños especialmente a nivel social y en el campo del aprendizaje, a través de juegos, canciones y talleres al aire libre. De este viaje espero volver como una persona nueva pero sobre todo enriquecida: estoy segura que el espíritu genuino, especialmente de los niños, me llenará de alegría, haciéndome comprender que la alegría y la alegría de la niñez se encuentran también en las circunstancias más difíciles. Estos son mis propósitos de partir y emprender un viaje en el que pondré todo mi esfuerzo y fuerza, para dar mi aporte y marcar la diferencia en mi vida y la de algunas personas.
Lucrecia S. – Como

¡¡15 días en Mérida (México) participando en actividades de entretenimiento para niños del lugar, junto con un grupo de adolescentes italianos y otros jóvenes de las comunidades locales de los Padres Barnabitas!! Cuando pienso en este extraordinario viaje, me llena una gran emoción, porque sé que esta experiencia cambiará mi vida y dejará una huella imborrable en mi corazón. No puedo evitar pensar en todas esas sonrisas que veré y la energía contagiosa de las personas que conoceré a lo largo de mi viaje. Siento que me enriquecerán, mucho más de lo que yo podré hacer por ellos. Imagino las caras curiosas de los niños mientras comparto con ellos momentos de juego, creatividad y divertido. Me pregunto cuáles son sus historias, sueños y esperanzas. Tengo muchas ganas de sumergirme en su cultura, aprender de sus tradiciones y descubrir nuevas formas de ver el mundo a través de sus ojos. Al mismo tiempo, admito que hay cierta ansiedad que me acompaña, pero creo que es normal sentirme así cuando me aventuro en un territorio desconocido. Saber que tengo la oportunidad de hacer una diferencia en la vida de estos niños me llena de gratitud. Quizás no todo sea fácil, pero tengo fe en mis habilidades y en el apoyo de los demás muchachos que me acompañarán en esta aventura. Mientras me preparo para ir, me concentro en lo que puedo ofrecer y cómo puedo ayudar a crear un impacto positivo. Estoy llena de ilusión y ganas de hacer especiales estos momentos, de compartir amor, alegría y sonrisas con todas las personas que encontraré en estas dos semanas. Así que, con la bolsa llena de ilusión y el corazón abierto, partí rumbo a Mérida, dispuesto a comenzar esta extraordinaria aventura. Espero dejar una impresión duradera y crear recuerdos que llevaré conmigo toda la vida.
Ricardo S. – Lodi

MORIRE O VIVERE DI PASQUA

Ma tra Tutto e Niente non può esistere grigio. Non c’è compromesso.
Io. Ogni cosa. Si è figli del Tutto, o figli del Niente.
Da una parte, Dio. Dall’altra, il Caos. (Daniele Mencarelli, Sempre tornare)
La vita finisce con la nostra morte o continua in qualche modo?
Abbiamo celebrato la Pasqua da qualche giorno, l’evento che ci immette nell’eternità, nell’immortalità.
Si può credere nell’eternità, in una vita rinnovata, rigenerata, risorta: viva nonostante la morte biologica?
Vivere da risorti, vivere dopo la morte, un argomento che può interessare ma non fa parte del pensare quotidiano.
Ne ho parlato con alcuni studenti del 4 anno. La discussione è stata interessante, anche se difficile, ma ogni tanto se qualche cosa è difficile forse significa che vale. Non può essere che tutto sia sempre molto accessibile e senza ricerca. La vita in sé è difficile, non impossibile, ma difficile da comprendere nella sua totalità: non può essere altrettanto anche per la vita risorta?
La confusione tra risurrezione e reincarnazione è molto presente, far comprendere la differenza abissale non è facile. Il principale dato da evidenziare a questo proposito è che la risurrezione, la vita risorta riguarda tutto il nostro corpo; la reincarnazione riguarda una parte di noi, l’anima che andrebbe vagando alla ricerca di un altro corpo dove dimorare. La risurrezione riguarda l’originale unicità della storia di ognuno; la reincarnazione perde la propria originalità e unicità, l’essenza di sé si perde in altro.
Il bisogno di immortalità è proprio della persona, da sempre l’uomo e la donna vogliono lasciare un segno di sé proprio perché sanno di dover morire.
Andri Snær Magnason ne Il tempo e l’acqua racconta che ognuno di noi porta con sé la memoria consapevole di almeno 8 generazioni prima e dopo, un modo per raccontare il bisogno di immortalità!
Nella fede cristiana l’uomo non è immortale, però la morte non è l’ultima parola: l’uomo è fatto per l’eternità, perché Dio è eterno, perché Cristo ha portato su di sé la morte per rendere l’uomo e la donna eterni. Gesù è l’epilogo della preoccupazione di Dio del prendersi cura dell’uomo. Dio si cura dell’uomo. Dio è immortale, al di là della condizione di debolezza e di fragilità dell’uomo; Dio è capace di chinarsi sull’uomo e di prendersene la responsabilità, di dargli gloria e un compito, di entrare in relazione dialogica con lui. È la sicurezza di questo dialogo che dona vita e apre alla vita per sempre.
Questa parola di vita diventa vita e dona vita attraverso il Battesimo. Proprio nel rito di immersione nell’acqua del Battesimo il credente muore e rinasce. Nel battesimo l’uomo della vita solo naturale muore, si lascia la morte alle spalle, e rinasce con la vita di Cristo, la vita eterna, non nel senso che non morirà (anche Cristo è morto), ma che, come è accaduto al Figlio di Dio, la morte non avrà mai l’ultima parola.
La maggior parte dei giovani di oggi non ha paura della vita, però vive una vita di paura, una vita che non vuole pensare alla morte eppure con la morte diretta o indiretta ci gioca. Probabilmente anche perché non ha più presente il sapore della vita risorta. Forse perché i cristiani per primi faticano a riconoscere e raccontare la Pasqua come l’evento fondamentale e portatore di vita. Se è così l’umanità, i più giovani come possono affrontare la morte?
Il battesimo è il modo di Dio di prendersi cura dell’uomo e della donna facendoli partecipare alla vita di Dio: tutti gli eventi di morte sono per lui episodi «di passaggio», cioè di parto, di rinascita.
Il battesimo inaugura questa possibilità di rinascere sempre, ma è compito del credente renderla sempre più cosciente e attiva, realizzandola nella sua storia in modo unico e originale. Per se stesso e per gli uomini e le donne amate dal Signore che vivono tra le nostre strade.