CADERE

Nelle nostre vite può accadere di tutto e tutti ovviamente speriamo in avvenimenti felici e opportunità che ci permettono di avere una vita facile e di cui vantarci con gli amici davanti a una tazza di caffè o a una buona pizza e birra. Ma è tutta speranza e apparenza perché la realtà dei fatti è che ognuno di noi cade per motivi diversi e ci ritroviamo a dover affrontare eventi che segneranno a vita il nostro percorso.
Riuscire ad alzarsi e “sopravvivere” ai traumi che comportano molte volte queste cadute, sia fisiche che psicologiche, è faticoso e non sempre si riesce a dimenticare o a perdonare il motivo di tale sofferenza ma la perseveranza e il lavorare su se stessi sono molte volte l’inizio della guarigione.
Una delle cadute peggiori che una persona deve affrontare è la violenza, che sia su donne uomini o bambini.
Le vittime di violenza perdono la speranza, si chiudono in se stesse domandandosi “perché proprio io?” oppure “dov’è Dio?”. In queste situazioni si tende a percorrere due strade: il rifiuto e il disprezzo nella fede o la scoperta di amore che va al di sopra di quello carnale; quello di Dio.
Il rifiuto verso Dio è dovuto alla sofferenza e alla sensazione di abbandono che si prova nelle situazioni dolorose; mentre la scoperta della fede è un’ancora alla quale le persone si attaccano con tutta la loro forza per riuscire a superare tutto quello che hanno passato. Come hanno fatto dei giovani ragazzi di Kinshasa, che davanti al Papa hanno avuto la forza di raccontare le loro drammatiche esperienze per dare esempio ad altre persone che hanno affrontato o stanno ancora affrontando tali torture.
Credo che in ogni caso il primo passo verso l’inizio di una nuova vita debba partire dall’accettare e perdonare. Non per forza dal perdonare il proprio carnefice, ma dal perdonare e dall’accettare noi stessi per come siamo; le nostre debolezze e le nostre forze che ci aiutano a proseguire il nostro percorso di vita.
Martina C. – Bologna 3 les

490 anni!

«È proprio dei grandi cuori mettersi al servizio degli altri senza ricompensa e combattere non in vista della paga»

Era il 18 febbraio 1533 quando a Bologna Papa Clemente VII concedeva, al cremonese Sant’Antonio Maria Zaccaria, il Breve di Approvazione dei Chierici Regolari di S. Paolo, che i milanesi chiameranno poi Barnabiti dal nome della loro prima sede, la chiesa milanese di S. Barnaba. È uno dei più antichi ordini di chierici regolari nella storia della Chiesa e ad esso partecipano anche l’istituto religioso delle Suore Angeliche di San Paolo, congregazione parallela a quella maschile dei Barnabiti, e i Laici di S. Paolo. L’Ordine ha quindi anticipato e, in un certo senso, anche preannunciato la Riforma cattolica nei confronti della Riforma protestante in Europa.
I primi gruppi erano assiduamente dediti a poveri, ammalati e ai giovani. Nei decenni successivi, la continua ricerca della santità e il notevole altruismo con il quale i gruppi barnabitici erano conosciuti, ha coinvolto ed affascinato le aristocrazie, nonché il ceto medio borghese, delle cittadine lombarde. Ad oggi, son passati 490 anni da quel giorno e si può affermare con certezza che “qualcosina” è stato fatto. Ad esempio, il prefetto dell’Archivio Segreto del Vaticano è il barnabita padre Sergio Pagano. Preferisco però soffermarmi maggiormente su ciò che i Chierici Regolari lasciano a chi li conosce da vicino piuttosto che sulle figure politiche-religiose.
I Barnabiti si trovano difatti in tutto il mondo, anche dove l’intolleranza religiosa e la violenza sono la normalità per gli abitanti del posto: dalle Americhe (USA, Messico, Brasile, Argentina e Cile) fino all’Asia (Filippine, India, Indonesia e Afghanistan) passando per l’Africa (RD Congo e Ruanda e Tanzania) con numerose comunità nonché case religiose. Come allora, la missione dei Padri è quella di prendersi cura della gioventù negli oratori e nelle scuole. Contribuiscono infatti alla formazione umana, insegnando ai ragazzi non soltanto conoscenze teoriche, ma anche valori spirituali e cristiani. E questo perché la scuola, come voleva il Fondatore, è vista da sempre come uno strumento prezioso di evangelizzazione e promozione umana.
Come ha rilasciato in molte interviste padre Pasquale Riillo, si può pensare che parte del successo, e aggiungerei anche dell’umiltà, di Parini, Manzoni e Montale sia avvenuto sì grazie alla loro genialità, ma anche per una educazione basata sulle nozioni scolastiche, ma quasi sicuramente anche su valori come il rispetto, l’educazione e la disciplina, fondamentali per la vita di tutti i giorni.
Insieme a mio fratello ho avuto la fortuna di essere cresciuto in un ambiente barnabitico. In realtà, è una situazione che si ripete da diverse generazioni perché molti nostri parenti hanno studiato dai Barnabiti presso il Collegio San Francesco di Lodi. Ai tempi di padre Fiore e padre Mancini, quando mia madre e mio zio erano dei giovani adolescenti, il Collegio registrava molti iscritti ed era molto rinomato nell’ambiente Lombardo. Erano circa 700 alunni, per lo più convittori e cioè studenti che vivevano nella struttura ecclesiastica, che frequentavano. Il ricordo che si portano dietro di quegli anni è molto positivo, spesso ci raccontano di storie che succedevano a scuola oppure nel convitto e nei chiostri. Ne accadevano di ogni colore, erano altri tempi e tutti ci ridevano sopra per quello che veniva commesso. Questo faceva sì che si creasse anche uno spirito di appartenenza e di grande famiglia allargata, oggi parleremmo di teambuilding, tra gli studenti che prima di essere compagni di scuola o di camera erano amici nella vita quotidiana. Per Lodi giravano sempre insieme, tutta la città li riconosceva ed era un po’ come quello che adesso vediamo nelle serie tv ambientate nei college americani. Molti di loro sono rimasti tutt’ora amici, altri invece si sono persi, ma quando ci sono gli incontri degli ex alunni, si riconoscono e ridono ancora insieme raccontandosi le vicende del SanFra. Le generazioni successive, come la mia o quella di mio fratello, non hanno potuto purtroppo godere gli anni migliori per via della crisi religiosa che ha colpito la Chiesa e di conseguenza anche il Collegio. Gli iscritti sono drasticamente calati per diversi motivi sui quali non mi voglio tanto soffermare, ma tra i quali possiamo annoverare un corpo docente laico che non ha la stessa passione e grinta posseduta dai sacerdoti, un disinteresse generale verso la cultura e anche una società meno religiosa. Tutto questo porta una famiglia a non investire tanto economicamente in una scuola paritaria e per una educazione ecclesiastica. Nonostante ciò, posso lo stesso dire che i principi e i sani valori non si sono persi con il tempo e, seppur in un numero più ristretto, le persone cercano e portano ancora avanti le opere apostoliche dei Barnabiti. Il volontariato, ricordiamo l’affermazione con la quale
«È proprio dei grandi cuori mettersi al servizio degli altri senza ricompensa e combattere non in vista della paga», così Sant’Antonio Maria Zaccaria ha voluto spiegare la visione del suo Ordine. Qui attinge anche l’attuale volontariato zaccariano che grazie al dialogo tra vecchie e nuove leve i Padri riescono ad avere iniziative più smart per raccogliere fondi e raggiungere lo stesso tutte le classi della società attuale. Ne è un esempio l’iniziativa pasquale che trovate sul nostro Blog www.giovanibarnabiti.it, con la quale attraverso l’offerta di colombe artigianali si cerca di raccogliere dei fondi per il progetto “dona un futuro” per bambini di Merida in Messico, attività estiva dei giovani volontari zaccariani con i Padri e i giovani del posto.
I tempi cambiano e di conseguenza anche le persone devono evolversi e adattarsi. Posso affermare, con il consenso anche di alcuni miei ex compagni nonché amici, che i padri si sono adattati bene e riescono a tenere unite le persone sotto un unico grande tetto senza distinzioni tra gli Ordini o tra le città di provenienza. Quando ci si vede sembra di conoscersi da molto tempo e nessun altro istituto lo può insegnare, anzi tantissimi compagni di classe finita la scuola non si cercano più. Qui addirittura studenti di diverse età e diverse strutture barnabitiche chiacchierano insieme come se nulla fosse. Pensate, sembra scontato, ma con l’avvento di Internet la comunità giovanile è ancora più unita e coesa anche al di fuori dei propri confini nazionali. Come se prima di essere italiani, brasiliani o indiani fossimo barnabiti; penso fosse stata proprio questa la volontà del Fondatore.
Marco C. – Milano

Più sensibili al Signore

Dal 22 al 23 Luglio una quarantina di giovani adulti parigini hanno soggiornato nei locali della parrocchia Divina Provvidenza di Firenze in occasione del loro pellegrinaggio.
Partiti da Parigi, in arrivo da Torino e diretti verso Roma attraversando Assisi sulle tracce di San Francesco, questi giovani raccontano quel che intravedono come lo sbocciare di una rinnovata forma di fede.
È cosa ardua raccontare con chiarezza l’esperienza che è stata il pellegrinaggio in Italia dell’estate 2022. Di certo la maggior parte di noi aveva già vissuto vari ritiri di due o tre giorni con i compagni della propria parrocchia (siamo i giovani di due parrocchie parigine, ove studiamo la parola del Signore per via del programma EVEN*), ma mai ci era capitato trascorrere undici giorni con sconosciuti nell’ambito della fede e della religione. Tutti aspettavamo il giorno, una volta tornati alle nostre quotidianità, in cui ci saremmo accorti di aver scordato il pellegrinaggio; come se quei pochi giorni trascorsi in comunione con i nostri padri e compagni in direzione di Dio non fossero mai esistiti. Tutti pensavamo di vivere quell’impressione caratteristica del ritorno a casa, quando le vacanze di tre giorni fa sembrano già distanti di parecchi mesi.
Sono trascorsi già più di un mese e mezzo e questo giorno non è ancora arrivato. Anche per questo abbiamo messo tanto tempo a scrivere questa testimonianza. Fosse quel giorno arrivato, sarebbe stato più semplice capire cosa abbiamo vissuto.
Alcuni di noi lo descrivono come se il nostro passaggio in Italia fosse stato solo ieri. Altri, come me, hanno l’impressione di non essere mai completamente tornati. Quel che ci mette tutti d’accordo è che siamo diventati molto più sensibili alla presenza del Signore ai nostri fianchi e che la preghiera fa ormai completamente parte delle nostre giornate. Da quando siamo tornati alcuni vanno “finalmente” a messa, altri ci vanno più volte a settimana o partecipano a tempi di adorazione. Tanti di noi desiderano trovare il tempo di pregare le lodi e/o i vespri ogni giorno.
Credo che questo significhi che la conversazione con il Signore è diventata più semplice e più diretta. Anche per coloro di noi che dicono non credere, o quelli che come Ornella Vanoni hanno appena avuto il coraggio di dire “proviamo anche con Dio, non si sa mai”. Perché i pensieri e le emozioni di ognuno di noi sono stati così forti in quei dieci giorni, che in un certo senso sono diventati dei nuovi punti di riferimento. Quindi anche per i nostri compagni che non credono o che addirittura si sono allontanati dalla chiesa, il nuovo punto di riferimento nella loro vita spirituale è un tempo segnato dalla persona di Cristo grazie al pellegrinaggio.
Sembra che per tanti, le parole di una suora alcantarina, incontrata ad Assisi, hanno avuto molto effetto. Le trascrivo qui affinché possano risuonare anche nel vostro cuore. Questa suora ci insegnò a pregare chiedendo: «Signore, chi sono io? E chi sei tu? Signore, cosa vuoi che faccia?».

un momento di preghiera davanti alla Croce

In undici giorni abbiamo potuto visitare parti di Torino, approfittare di Firenze, vivere l’atmosfera e l’energia del santuario di La Verna e dell’Eremo delle Carceri, pregare nelle chiese di San Damiano così come nella Porziuncola, fare il bagno in vari laghi (eravamo pur sempre in estate!), visitare San Clemente a Roma tra tante altre cose, e anche fare sosta a Milano e celebrare una messa presso Sant’Ambrogio.
Di certo i nostri due giovani sacerdoti non avrebbero potuto gestire tutta l’organizzazione necessaria a tale programma senza trascurare le anime dei giovani accompagnati. Così hanno chiesto ad alcuni di noi di assisterli in tutte le faccende materiali. Questo servizio dei nostri compagni è stato per loro fonte di tanta gioia (dico “loro” i nostri compagni, non i preti!), mentre per noi è stato anche un modo di accorgerci, tramite le loro assenze, la loro fatica ma soprattutto i loro sorrisi, che più si dà e più si riceve.
Così vorremmo ringraziare una volta ancora la vostra parrocchia della Divina Provvidenza, specialmente Giordana e il Padre Giannicola, che ci hanno accolti con grande gentilezza, in condizioni che erano tra le più confortevoli del nostro tragitto. Per di più ci sono stati regalati portachiavi con la vostra Madonna della Provvidenza che continuano ad accompagnarci. Anche se siamo rimasti poco tempo, anche se agli inizi del nostro percorso italiano, la vostra ospitalità continua ancora a guidarci verso Gesù.

Roberto Fecarotta – Paris

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*EVEN: Ecole du Verbe Eternel et Nouveau; si tratta di un percorso spirituale destinato a giovani adulti che hanno voglia di approfondire la loro fede, e di lasciare la Parola di Dio convertire il loro cuore. «EVEN», in ebraico, significa «pietra».

Svegli alle 8

Perché mai l’8 / 08 alle 8.00 del mattino essere svegli (per forza o per davvero non saprei) a Mil8 (Milot la missione dei Barnabiti in Albania)?
Amici e colleghi e … a quest’ora ancora dormono o sono in questo o quel luogo ameno dove il caldo c’è ma non insidia come qui, dove cornetti/brioches e cappuccini imperversano e, nonostante ciò, alcuni giovani italiani e albanesi sono svegli per… (udite, udite anzi leggete, leggete) per giocare.
Sì, per giocare. Termine e concetto forse desueto, ma questi giovani sono qui per giocare, perché il gioco, libero, senza smartphone (o quasi) con qualche regola da raggirare (altrimenti che gioco sarebbe?) è sempre importante per crescere e far crescere.
In questa società mondiale dove bambini e adolescenti sono sempre più fagocitati dal gioco virtuale e dalle relazioni virtuali post(?)Covid; scommettere su un giocare reale, sbucciarsi ancora le ginocchia, tradurre le regole dall’italiano all’albanese; affrontare ragazzini esuberanti (per usare un eufemismo) che vogliono boicottare i giochi solo per dirci: “Ci siamo anche noi!”; scoprire quali sono i giochi migliori da proporre e realizzare secondo le loro esigenze e non le nostre idee; in questa società mondiale fagocitata dal virtuale, il gioco è la carta più bella da giocare per costruire il futuro. (Permettetemi una digressione geopolitica: per costruire la pace, nonostante questa terza guerra mondiale a pezzi!)
Venire a Mil8 richiede di “consumare” i giorni delle proprie ferie, di far finta di non essere stanchi del lavoro a Roma o Milano o Cremona o Firenze o…; diciamolo con franchezza, richiede un po’ tanta incoscienza! Quella incoscienza che spesso i barnabiti predicano in nome di sant’Antonio Maria Zaccaria! Una incoscienza zaccariana che questi nostri giovani realizzano anche se non conoscono a memoria gli Scritti di SAMZ.
Svegli alle 8 dell’8/08 a Mil8 perché il buon giorno si vede dal mattino.
Svegli alle 8 per svegliare noi adulti, per dirci che nonostante tutto qui e in altre parti dell’Albania o del mondo ci sono ancora persone che credono nella possibilità di fare il bene perché prima di tutto raccolgono bene per se stessi. Perché tutti abbiamo bisogno di bene.
In questi due anni questi giovani hanno lavorato molto da remoto per tenere viva la propria passione per Mil8, per la nostra missione, per la propria amicizia nata con i primi KampiVeror 15 anni fa; per capitalizzare le esperienze, le sfide, gli errori, per ricordare che il bene va sempre coltivato; per essere credibili verso tutti coloro che hanno offerto soldi e strutture per far funzionare la “macchina”, non potendo essere qui concretamente (grazie davvero a tutti gli sponsor di questa estate).
Questi due anni da remoto non potevano restare “remoti”, avevano bisogno di concretezza, del campo da gioco di Mil8, nonostante tante difficoltà. Per questo ai nostri giovani italiani e di Milot e FusheMilot e Gallate non costa fatica essere svegli alle 8 anche questo 8/08 a Mil8!
Sicuramente o quasi questo sarà l’utlimo KampiVeror a Milot perché la missione tra qualche mese chiuderà: ognuno elabori le proprie riflessioni e conseguenze. Abbiate almeno il coraggio e la pietas di ringraziare questi giovani svegli alle 8 dell’8/08 a Mil8!
Sicuramente questi giovani già svegli alle 8 di questo 8/08 a Mil8 sapranno elaborare altre sorprese e sollecitare noi adulti e barnabiti a continuare a giocare nella vigna del Signore. Prendiamoci le nostre responsabilità!
Grazie giovani zaccariani già svegli alle 8 del 8/08 a Mil8!
Faleminderit, Zoti ju bekoftë
Giannicola Maria Simone prete

Insegnaci a pregare

No, non è una semplice battuta il titolo.
Oggi molti uomini e donne e giovani non pregano più e quando ne avrebbero bisogno non ne sono consapevoli e non sanno come fare.
Allora Salvini con tutte le sue madonne e rosari così come Achille Lauro con il suo autobattesimo sanremese (vedi mio ultimo articolo) ci ricordano che l’uomo e la donna hanno anche una dimensione spirituale da cui non possono fuggire, con la quale devono confrontarsi.
Ho commentato su twitter l’uscita madonnara del sig. Salvini, chiedendo ai cristiani almeno di rifletterci sopra molto attentamente. Ho ricevuto circa 250 riscontri tra like e risposte. Molto pochi arrabbiati, molti di condivisione e approfondimento sia di credenti sia di non credenti, compresi TheManeskin!. Non so se i conservatori non usino twitter o si siano defilati perché questa volta si è superato il limite.
Però un fatto è certo il sig. Salvini sa dove parare, ma la gente non è del tutto stupida e i cristiani non del tutto ingenui.
Sa dove parare perché la gente, ognuno di noi, non può fare a meno della dimensione spirituale dell’esistenza (chiamiamola anche religiosa) e quindi perché non cavalcarla? Il problema è che molti dei credenti (mi fermo in casa mia) forse non sanno più come rispondere all’esigenza spirituale di ogni loro simile, esigenza sopita o no.
Pregare è un’arte che riguarda tutti, scriveva Massimo Recalcati qualche anno fa, anche chi non è credente.
Ma noi non chiediamo più a nessuno di insegnarci a pregare perché non abbiamo più bisogno di pregare e quand’anche ne avessimo bisogno ci rivolgiamo a questa o quella realtà non spirituale o di una dubbia o effimera spiritualità.
Nel vangelo i discepoli chiedono a Gesù di insegnare loro a pregare, ma noi uomini, donne,
giovani di oggi a chi chiediamo di insegnarci a pregare? Ovvero se qualcuno ci chiedesse di insegnare loro a pregare come e cosa gli risponderemmo?
Abbiamo perso l’abitudine di pregare veramente, di conseguenza siamo incapaci di trasmettere il pregare e quindi nessuno più ci chiede di pregare.
La preghiera è quello strumento con cui possiamo entrare nell’intimità della vita, nell’intimità di noi stessi, nell’intimità di Dio. Ci sono molti modi per entrare nelle intimità della vita e di se stessi. Potrebbe bastare così per essere persone equilibrate e serene verso la vita e verso se stessi. In questo modo però la preghiera resta un buon strumento ma chiuso in se stesso, semplice propria azione di buona volontà, incapace di riconoscersi come un dono ricevuto per diventare dono.
Se per ogni uomo buono ciò è rischioso, per un cristiano lo è ancora di più. Il cristiano che è tale perché ha ricevuto “in dono” la fede e il nocciolo della fede, l’Incarnazione di Dio e il dono dello Spirito santo, vivere piegato solo sulle proprie cose buone non è bene. Non pregare, non voler pregare, non sapere pregare conduce anche il cristiano a pensare solo a se stesso, non per cattiveria, ma per maleducazione.
Il fatto stesso che molti di noi adulti non siano stati capaci di trasmettere il bello e il dono della preghiera è un chiaro segno di questa maleducazione. Una maleducazione che ha portato molti nostri giovani anche a pregare, ma spesso a non essere consapevoli di come pregano e di chi pregano. Tra questi adulti maleducanti mi ci metto anche io.
Parlare di questa maleducazione non significa colpevolizzare questo o quello ma cercare di diventare consapevoli di una fatica, di una incapacità che sta creando molti danni. Se la preghiera è il modo proprio di essere cristiani, di essere uomini e donne, di amare, di vivere e morire (come tutta la Bibbia ci insegna) non essere più capaci di insegnare a pregare è un dramma, una colpa profondi.
Insegnare a pregare significa almeno due cose: scoprire ed edificare la propria vita interiore, scoprire ed edificare il proprio essere figli.
In troppi dialoghi con giovani credenti o no, vicini o lontani, troppo scopro l’incapacità di costruire una propria vita interiore e quindi l’incapacità di affrontare in profondità la bellezza del proprio esistere. La mancanza di una vita interiore è l’altra piaga della nostra umanità, connessa al non sapere pregare.
Certo ci sarebbero gli psicologi per aiutare a fare ciò, ma la psicologia, quando è seria, entra nelle dinamiche dell’esistenza per sbrogliarne la matassa però non può rispondere alla domanda di senso e specialmente alla consapevole scoperta dell’essere figli.
Infatti, la preghiera cristiana, conduce a scoprirsi figli non di un Dio sconosciuto ma di un Dio che in Cristo si è rivelato Padre a ognuno di noi e nel dono dello Spirito si fa riconoscere come tale in modo sempre rinnovato, originale e personale.
La preghiera cristiana è sempre rivolta a un Dio che è Padre, Padre e Madre disse papa Luciani, e proprio per questo, nonostante i limiti e gli abusi dell’umanità cristiana, permette al credente di sapere da dove viene, dove è e dove va, permette di trasgredire e proprio per questo di essere libero.
La mia preghiera personale percepisce quanto ho cercato di scrivere; ma non credo di essere molto bravo nell’insegnare a pregare, nel testimoniare una preghiera buona.
Un giorno un alunno mi disse: io non credo, però nel vedere come lei si è inginocchiato e ha fatto un segno della Croce, mi ha fatto percepire che l’uomo non può vivere di sole cose materiali.
Se ciascuno di noi con la propria preghiera riuscisse anche solo a lasciare qualche piccolo segno, a sollecitare qualche domanda nel proprio prossimo non avremmo più bisogno di mercanti della preghiera.
Solo un recupero di una preghiera in armonia con sé, con la vita e con Dio può rispondere a quel bisogno di maturità umana che tutti cercano ma pochi vogliono percorrere, come si dicevano l’un l’altro il credente cardinal Martini e l’ateo filosofo Norberto Bobbio.

I Barnabiti e i giovani dopo la Covid

Ai confratelli Barnabiti,
Il 125° anniversario della canonizzazione di S. Antonio Maria Zaccaria, grazie agli insegnamenti di alcuni nostri padri illustri ci ha introdotti nel cuore vivo del nostro Fondatore per capire come diventare testimoni del Cristo qui e ora, non nel secolo XVI!
Unitamente alla preparazione culturale e spirituale abbiamo cercato di raggiungervi per riflettere sui giovani, perché i giovani sono il nostro futuro. Purtroppo molto pochi di voi hanno dato delle risposte: troppo impegnati o troppo disinteressati a pensare il proprio servizio pastorale ai giovani? Forse paura di pensare, pregare e proporre insieme?
Il servizio ai giovani dovrebbe essere ancora il modo di caratterizzare il nostro essere pastori barnabiti eppure c’è un deficit di riflessione condivisa che deve farci pensare.
Mai come nel passato la pandemia di Covid ha toccato tutte, tutte le nostre realtà: mai come nel presente dobbiamo cercare insieme delle risposte, delle strade nuove, perché non si può semplicemente partire da dove ci siamo fermati.
Certo non si può in soli pochi due anni trovare risposte e strade nuove, però si possono cercare, sondare, proporre. Anche perché come avete rilevato nelle risposte, i danni della Covid ci sono stati: paura, restare con se stessi, poca fiducia negli adulti, maggiore uso degli smartphone, fatica di relazione. Il recupero quasi totale delle attività quotidiane ha lasciato molti … a casa e gli altri – specialmente adolescenti – con dell’amaro in bocca. In Europa poi la situazione della guerra in Ucraina sta continuando questo dramma.
Di fronte alla denuncia dell’Arcivescovo di Milano, Mario Del Pini: «I giovani non avvertono più la Chiesa come una interlocutrice per le loro domande, la Chiesa vive ciò come una sconfitta: abbiamo perso una scommessa.»; ma anche alla speranza dell’Arcivescovo di Hong Kong, Stephen Chow: «C’è bisogno di visione. E c’è bisogno di capire il presente e il contesto. Non guardare i muri, guardare il futuro.»: non possiamo agire da soli.
Muovendo da questi presupposti: sconfitta e visione vogliamo cercare di lasciarci muovere dal vigore zaccariano degli inizi che, nonostante la vita breve del Fondatore, non è stato invano: muovendoci con piede continuato nel cammino che la vocazione di ognuno di noi è chiamato a vivere. I confratelli che hanno risposto sottolineano il bisogno dei giovani di essere ascoltati, di essere presi con attenzione e serietà; mi viene da chiedervi: come ascoltiamo i giovani? Dalle Filippine al Brasile tutti chiedono di incrementare un rinnovato stile missionario.
Questo nuovo stile missionario è riconosciuto come proprio del nostro carisma, ma va pensato e ripensato e pregato insieme, con uno spirito e metodo sinodale che si fa testimonianza di vita specialmente perché le nostre forze sono diminuite.
Forse dovremmo ragionare di più sulle due parole: sconfitta e visione e in questo farci aiutare dalle sconfitte e dalle visioni del nostro Antonio Maria e dei suoi primi collaboratori e collaboratrici. È questa anche la linea che ha indicato il recente Sinodo dei Giovani che non è archiviato.
Grazie ai padri Giovanni Giovenzana di Eupilio, Giorgio Viganò di Cremona, Giuseppe di Nardo di Bari, Michael Sandalo di Silangan, Junior Cavalcante di Belem, Ferdinand Mushagalusa di Moucron e Carlo Giove di Napoli, Pascal Balumebaciza Pilipili di Buenos Aires.

p. Fabien M. Muvuny, p. Giannicola M. Simone, Ufficio di Pastorale Giovanile dei PP. Barnabiti. 27 maggio 2022

4 chiacchiere con Francesco Costa sull’informazione per il 9 compleanno del nostro blog

Chiacchierata con Francesco Costa, vice direttore de ilPost.it per il 9 compleanno del nostro Blog

Celebrare un compleanno non significa soltanto contare gli anni; vuol dire anche dare senso e significato a quegli anni. Quelli passati e quelli che verranno. A ogni compleanno della nostra esistenza si fanno bilanci e propositi, si tirano somme e si progetta il futuro. E come per ogni compleanno che si rispetti, festeggiamo il nono anno di vita del nostro blog www.GiovaniBarnabiti.it, e della sua costola cartacea IlGiovaniBarnabiti, regalandoci una preziosa intervista a Francesco Costa, vicedirettore del Post.it, programmando impegni e coltivando sogni e speranze di dare voce al futuro.

Qualcuno potrebbe contestarci che sia un regalo troppo “laico” per la nostra testata, ma la tradizione barnabitica è sempre stata attenta all’incontro con il mondo intorno a sé per annunciare, per far conoscere, per imparare.

D’altra parte nella bella chiacchierata con Francesco Costa (Catania, 1984) emerge subito il dato per cui scrivere significa, prima di tutto, andare “oltre il proprio ombelico” per parlare di e con altri. È il primo consiglio che ci ha fornito Costa, in una breve riflessione sulla comunicazione, sul giornalismo odierno, con i suoi punti di forza e di debolezza, sulla scrittura come strumento per comprendere la complessità del reale.

«Scrivere, mettere inchiostro su carta – ha detto Costa – ci costringe a pensare a ciò che scriviamo, quindi a ragionarci, a confrontarci con le persone che abbiamo intorno, ci spinge a essere curiosi. Per questo può essere uno strumento molto utile per comprendere la realtà. Dovremmo provare a utilizzare la scrittura non soltanto per raccontare se stessi, ma anche per raccontare il prossimo. Attraverso la scrittura dovremmo provare ad esplorare mondi sconosciuti, ad andare oltre noi stessi, al di là di un esercizio da diario che definirei ombelicale».

In un mondo così complesso, bombardato di innumerevoli informazioni, dove anche le notizie si prestano a diventare terreno di scontro e non occasione di crescita, invitare i giovani a scrivere significa dare fiducia alle loro capacità, alla loro abilità di analisi e di prospettiva non inferiore a quella degli adulti, sottolinea Costa. E noi concordiamo: tenere aperto un blog, anche senza pretese immense deve essere l’occasione di educare a informazioni sempre fondate e ragionate. Educare all’informazione; rendere consapevole il lettore: è questa la vera sfida nell’attuale ecosistema informazione. “La rapidità dell’informazione – spiega Costa – che comunque considero un vasto arricchimento, ci ha disabituati al fatto che queste stesse informazioni andrebbero maneggiate con cautela, verificate. Non sempre il primo racconto, la prima testimonianza è quella vera. Inevitabilmente la velocità è nemica della precisione. Sono tutti elementi di cui il lettore deve essere consapevole”. Non per smettere di leggerle ma per essere per orientarsi e meglio comprendere.

«Non credo – continua – che i giovani siano più vittime di altri di questa complessità odierna delle informazioni. Anzi mi sembra che nelle abitudini di lettura ci sia nei giovani maggiore curiosità, maggiore voglia di comprendere come funziona la realtà, dunque un vantaggio in più rispetto a chi è più adulto».

Ma quanto la frammentarietà, aggiunta alla velocità dell’attuale ecosistema informazione, ne danneggia la qualità? «C’è sicuramente una crisi industriale – spiega – Meno soldi, meno pubblicità, dunque meno persone, meno tempo da dedicare alle cose, quindi meno qualità. Ma c’è anche – quasi come una conseguenza – una crisi professionale che si spiega con una diversa cultura del lavoro e con un approccio superficiale alle cose. La velocità probabilmente ha aggravato la situazione”.

In considerazione di questo scenario non possiamo che essere ancor più attenti ai giovani, specie a quelli che ancora vogliono – e ci chiedono – di pensare. Ma domandiamo: in che modo?

«Sicuramente coltivando la curiosità rispetto al mondo che ci circonda. Se pensiamo che informarsi sia importante, dobbiamo fare un piccolo investimento anche in termini di tempo: non possiamo pensare che la nostra informazione sia frutto soltanto di una selezione casuale di notizie. Che sia leggere un giornale, ascoltare un podcast, leggere libri: ognuno trovi lo strumento più adatto ai suoi interessi ma decida ogni giorno di fare qualcosa per la propria informazione. Perché sia utile».

Questa riflessione sul cercare il “tempo per” ci porta all’ultima domanda, forse la più impegnativa, come ci dirà il nostro interlocutore.

Il 27 maggio ricordiamo la canonizzazione del nostro Fondatore Antonio Maria Zaccaria (1502-1539), per noi una sorta di padre. Aldilà della dimensione specificamente religiosa che questa data ha per noi Barnabiti, e per le varie realtà legate alla nostra comunità, chiediamo a Francesco Costa, di quale paternità avrebbero bisogno – a suo parere – i giovani di oggi?

«È una domanda molto bella e impegnativa. Di una paternità che possa andare oltre l’idea biologica di paternità. Credo che i giovani abbiano bisogno di una paternità fondata sull’esempio. Mi sembra, da sempre, la cosa migliore che possano fare le persone adulte, quelle che hanno un ruolo di guida di una comunità, qualunque essa sia. Nei rapporti tra adulti e giovani l’esempio mi sembra la chiave fondamentale. Si può insegnare e parlare tantissimo, ma se manca il cuore non si trasmette ciò che si comunica».

Sarebbe stato interessante scambiarci altre idee, ma il tempo del lavoro e la saggezza di non volere il troppo ci hanno indotti ai saluti e a un ringraziamento reciproco per l’arricchente occasione di approfondimento.

Le riflessioni di Costa sulla necessità di trovare il tempo opportuno per l’approfondimento e la riflessione, l’idea di una paternità fondata sull’esempio, ben si legano a quello “stile zaccariano” annunciato dal nostro Fondatore.  Antonio Maria chiede infatti con forza di andare sempre alla profondità delle cose, di non restare nel campo della superficialità, della tiepidezza. Noi, con umiltà, impegno e costanza, ci proviamo. 

Grazie Francesco Costa e Buon compleanno GiovaniBarnbiti.it

pJgiannic e Raffaella DM

In carcere ho conosciuto Gesù

“Poichè ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi” Mt 25, 31-46

Il carcere può essere, per molti, un luogo oscuro, triste, dimenticato e crudele. Si pensa che lì si trova il peggio della società, coloro che, in molti casi, non meriterebbero neanche di essere chiamati “persone”.

Oggi voglio condividere un po’ della mia esperienza come membro del gruppo Kolbe, che è parte della pastorale penitenziaria della città di Mérida, nello stato dello Yucatán, Messico.

Visitai il carcere per la prima volta 6 anni fa, e devo ammettere che me lo immaginavo giusto come si vede nelle serie TV o nei film. Avevo molti dubbi e anche un poco di paura. Credo che la mia preoccupazione più grande era sapere che avrei dovuto conversare con le persone recluse lì dentro. Posso dire con sicurezza che quella prima visita mi cambiò la vita: ho capito, infatti, che l’amore di Dio trascende luoghi e circostanze. Incontrai un Dio che vive attraverso tutti i fratelli che si trovano nel carcere.

Ho capito che anche nei luoghi più oscuri, Dio è capace di illuminare e spargere il suo amore in ogni momento. Ho conosciuto persone straordinarie, persone che si rialzano tutti i giorni con l’unico obiettivo di cercare essere migliori di ieri, persone che lavorano e si sforzano di andare avanti in mezzo alla monotonia e alla povertà che caratterizzano la vita nel carcere.

Però, non tutto è di colore rosa. Ho incontrato anche tristezza, rabbia, ingiustizia, disperazione e sete di perdono per gli errori commessi in passato.

La pandemia fu, per noi del gruppo apostolico, una sfida e una opportunità di incontrare nuove forme per restare in contatto con questi nostri fratelli carcerati. Insomma, sono passati quasi 2 anni, nei quali non abbiamo potuto visitarli! Gli abbiamo mandato lettere, generi di prima necessità, dolci, messaggi, cartelloni,  abbiamo recitato rosari virtuali pregando per la loro salute, e moltre altre iniziative. Gesù ci regalò la creatività per rimanere vicino a loro nonostante la forzata distanza.

L’anno scorso, in dicembre, ci informarono che finalmente avremmo potuto visitare il carcere. Non posso descrivere la gioia che provai. Fu una visita incredibile, nella quale ho potuto constatare che tutte le preghiere che avevamo offerto per loro avevano dato frutto. Ci ricevettero con gioia e soprattutto con una grande speranza di andare avanti nonostante la pandemia. Fu come reincontrare un vecchio amico.

A partire da gennaio, a causa dell’arrivo della variante Omicron, le visite al carcere furono sospese di nuovo. Pertanto, siamo stati molto incerti sulla possibilità di poter realizzare la tradizionale missione in carcere nella settimana santa. Ma con la benedizione di Dio, sì, ci siamo riusciti!

Questa Settimana Santa abbiamo avuto l’opportunità di visitare il carcere il Giovedì, il Venerdì e il Sabato Santo. Con l’aiuto di tutti i gruppi apostolici che visitano il carcere siamo riusciti a portare ai fratelli privati di libertà più di 1200 pacchi di generi di prima necessità, realizzare le celebrazioni liturgiche tipiche di ogni giorno, conversare, proporre attività e soprattutto portare loro un messaggio di speranza: ricordando che Gesù è vivo e che non si trattiene nel dare misericordia e amore in abbondanza.

Il mio cuore è ricolmo di amore perchè nuovamente sono riuscita a incontrare Gesù in carcere. Prego che continui a benedire tutti i gruppi che con molta allegria e dedizione visitano le carceri di tutto il mondo.

Oggi voglio invitare anche te a darti una opportunità di visitare il carcere! Sono necessari molti giovani come te e me, che trovino il coraggio di portare allegria e speranza alle persone private di libertà. Non temere! Ti prometto che non è come te lo immagini!

Ringrazio anche padre Stefano per il suo appoggio, dedizione e amore a questa missione che gli toccò realizzare. Preghiamo per le vocazioni sacerdotali!

Per concludere, mi piacerebbe lesciare questo messaggio: il carcere non è un luogo dimenticato da Dio, è un luogo che ha bisogno delle nostre preghiere e soprattutto della nostra fede. Fiducia in tutte le persone che lo abitano e che si sforzano di essere migliori per, un giorno, reintegrarsi nella società.

Grazie mille e un saluto dal Messico!

Tere Montzerrat Polanco Núñez – Merida

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Blanco, un cantante a san Pietro

Lunedì 18 aprile, prima della Veglia con il pontefice, piazza San Pietro è stata il centro di un grande momento di festa. Dopo due anni di pandemia, don Michele Falabretti (responsabile dell’Ufficio nazionale della Cei per la pastorale giovanile) ha organizzato un concerto prima del momento di preghiera per il Lunedì dell’Angelo. L’evento, avvenuto in concomitanza con il forte pellegrinaggio dei laici, ha riscosso moltissimo successo sul pubblico giovanile (circa 57000), ma anche in quello adulto. I ragazzi sono stati accompagnati di fatto da numerosi adulti, per lo più educatori, sacerdoti, volontari e famigliari. Inoltre, successivamente all’annuncio che le udienze generali riprenderanno a tenersi nella Piazza, il concerto è segno di un ritorno alla normalità che manca ormai da troppi anni. Averlo organizzato in periodo pasquale è un modo per incoraggiare le persone a credere in Gesù; metaforicamente si può vedere in esso una nuova rinascita proprio come quella che Gesù ha mostrato ai credenti “vincendo le tenebre della morte” riprendendo il Papa.

Per l’occasione, è stato invitato Riccardo Fabbriconi, in arte Blanco, fresco vincitore del Festival di Sanremo 2022 nonché rappresentante, insieme a Mahmood, dell’Italia agli Eurovision Song Contest di Torino (martedì 10 e sabato 14 maggio. Aver scelto un volto noto come Blanco (oltre a lui erano presenti anche Giovanni Scifoni, Michele la Ginestra e Matteo Romano) è indubbiamente una mossa di apertura verso i più giovani che sempre più spesso si fanno condizionare dai grandi abbandonando gli oratori e i centri pastorali. Essendo Blanco la star del momento, scegliere una persona così significa anche da parte della Chiesa cercare di “riallacciare” i rapporti con un mondo giovanile sempre meno religioso e più ateo. Riccardo ha tatuato sul petto un angelo con una corona di spine, simbolo, spiegato dall’artista stesso che rappresenta la sua doppia natura: da una parte “bravo”, ma dall’altra “marcio”. L’angelo fa però intuire come la persona abbia avuto un’educazione religiosa e cristiana quindi avesse a che fare con l’evento organizzato dalla Chiesa. La sua esibizione è avvenuta in mondovisione, nel pomeriggio prima dell’arrivo di Papa Francesco. Tra i suoi brani ha portato Brividi, canzone vincitrice di Sanremo, e Blu Celeste, celebre canzone del suo omonimo album. Quest’ultima è un inno all’amore, l’arma più potente che l’uomo ha a disposizione. In questo caso, purtroppo è rivolto ad una persona che non c’è più e non ritorna.

“Quando il cielo si fa blu, penso solo a te. Chissà come stai lassù ogni notte. È blu celeste”

In tutto il brano l’artista ha sensi di colpa, si sfoga, salvo poi autoassolversi; concetto che si presta all’idea di perdono cristiano. Possiamo quindi affermare quasi sicuramente che la scelta di far cantare Blanco non sia stata dovuta al momento che sta vivendo, ma anche all’abilità di scrittura, profonda e sensibile di Riccardo che in qualche modo, nonostante la giovane età, può essere d’esempio per milioni di persone.

Marco Ciniero, Milano

UN RE CON I PIEDI SCALZI

Gesù non era sicuramente un uomo da pantofole!

Non puoi andare a Gerusalemme in pantofole, non puoi percorrere la via della Croce in pantofole. Forse puoi andare a piedi scalzi, ma in pantofole no!

A piedi scalzi certamente camminava Gesù, era un re con i piedi scalzi, forse per questo le folle mettono dei mantelli sulla sua strada, perché la gente semplice spesso sa cosa deve veramente fare.

A piedi scalzi, per questo Maria, la sua amica Maria cosparse di olio di Nardo i piedi di Gesù, piedi stanchi ma non abbastanza; un gesto che poi Gesù proporrà ai discepoli lavando loro i piedi nell’Ultima Cena.

Prima di andare a Gerusalemme Gesù si era fermato dai suoi amici Maria, Marta e Lazzaro per rinfrancarsi, per condividere i progetti e il cammino. Il valore dell’amicizia.

Gesù va a Gerusalemme con una regalità paradossale, è un re sul dorso di un asino, un re verso il quale religione e politica si oppongono, un re che non mischia Cesare e Dio.

È un re che fa semplicemente la volontà di Dio, che gode della fiducia di Dio perché vive della fiducia. E qui dovremmo domandarci se abbiamo e se offriamo fiducia, in chi riponiamo la nostra fiducia.

Quella di Gesù non è una fiducia passiva, ma attiva, che si sa incontrare i più poveri, dimenticati, oppressi e anche se tacessero i discepoli di fronte a ciò, griderebbero le pietre alle folle che cercano risposte; griderebbero le donne sulla strada della Croce, i due ladroni, le donne con Giuseppe d’Arimatea, quelle donne davanti al sepolcro vuoto.

Anche non vogliamo celebrare questa Santa Settimana da protagonisti: troviamo ogni giorno 10 minuti per rileggere e ascoltare la parola di Dio, per ascoltare la storia intorno a noi, non solo quando dice quello che vogliamo.

Anche noi vogliamo compiere piccoli gesti di pace con i quali lavare i piedi scalzi della nsotra umanità, perché solo così si costruisce la Pace.

«Il peccato del mondo – diceva tempo fa il Card. Martini – non deve essere minimizzato, né ridotto a debolezze personali. Il peccato del mondo è un appello a decidere. Chi si spinge in questa lotta al punto di accettare, come Gesù, svantaggi, ingiurie e sofferenza? Il mondo reclama a gran voce giovani coraggiosi… Io mi aspetto il rinnovamento soprattutto dai giovani… A volte i loro gesti di pace sono solo brace su cui dobbiamo soffiare per accendere il fuoco… Consegniamo ai nostri figli un mondo che non sia rovinato. Facciamo sì che siano radicati nella tradizione, soprattutto nella Bibbia. Leggiamo con loro. Abbiamo profonda fiducia in loro. Non dimentichiamo di dare loro anche dei limiti. Impareranno a sopportare difficoltà e ingiurie se per loro la giustizia conta di più di ogni altra cosa.» (Conversazioni notturne a Gerusalemme). Questo significa camminare con i piedi scalzi di Gesù.