Ragazzi come?

Quest’estate mi sono accorto come non mai che i nuovi adolescenti sono molto differenti da me e dai miei coetanei. È come se la mia generazione avesse avuto un’altra educazione, forse più severa, più libera o forse una giovinezza senza filtri tecnologici.
Non so ancora di preciso a cosa sia dovuto questo fatto, ma sono certo che i ragazzi della mia generazione o di quelle precedenti portavano molto più rispetto sia ai loro coetanei sia alle persone più anziane. Non so se questo sia dato da una società più rispettosa, con ancora dei valori etici, morali e religiosi oppure da un fatto legato ad una fase di passaggio. Sta di fatto però che prima ai ragazzini difficilmente si ripetevano le cose. Ora vedo, ad esempio, che il barista riprende dei giovani al tavolo del suo locale perché appoggiano i piedi sulle sedie e questi anziché scusarsi, o comunque toglierli, lo deridono come se le sedie fossero di loro proprietà soltanto perché pagano la consumazione. Penso che gran parte della colpa sia di una società perbenista che fa sì che la persona si senta e cresca in una botte di ferro tale per cui niente e nessuno possa mettergli i piedi in testa. È la società di oggi che tende a far crescere un figlio così; si è diventati troppo buoni per paura di sbagliare o perché “non è corretto punire un bambino”. Ma siamo sicuri che la maniera con la quale si educavano i figli una volta erano scorretti? Se un bambino sbaglia, bisogna fargli capire l’errore e attraverso una punizione più o meno severa lui potrà apprenderlo meglio. È lo stesso metodo che vediamo negli sport, con lo Stato e nella dinamica: a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria; quindi, a ogni errore corrisponde una punizione. A furia di far passare come normalità la mancanza di “no” o di punizioni, il bambino crescerà sicuro di sé e delle sue azioni, o meglio, sicuro di essere sempre più bravo degli altri mancandogli spesso di rispetto. Non è un caso se un mio carissimo amico, un uomo di una notevole stazza, mi ha confessato di vedere sempre più incivili nel suo locale che spingono la gente senza chiedere né “permesso” né “mi scusi”. Quante volte si sente di docenti aggredite verbalmente o peggio fisicamente per il solo fatto di aver messo una nota o un brutto voto dopo un’interrogazione? Pazzesco, roba che mette i brividi solo a sentirla. Purtroppo, anche i genitori stessi spesso intervengono in favore dei propri figli e questo li rende ancora più forti, consci del fatto di avere un ulteriore scudo.
Altro punto interessante che manifesta l’ignoranza delle nuove leve penso siano i Social. Essi hanno influito parecchio nelle loro vite; soprattutto il fatto di vivere con e dentro di essi, ha reso i giovani delle persone molto superficiali e disattente. Io stesso mi ci metto dentro. Nel senso che non abbiamo più la pazienza di aspettare che una cosa arrivi perché siamo abituati a un click per ottenere ogni tipo di informazione. Non è un caso che le App sono studiate per far sì che le persone stiano più a lungo con l’App aperta e quindi si cerca di creare contenuti sempre più brevi. Legato al discorso internet, se già con la mia generazione i giovani sognavano un successo come calciatore o velina, questa generazione pensa di poter avere successo senza bisogno di impegnarsi e gran parte di essa sogna di poter diventare un influencer senza però sapere che la percentuale di successo è minore rispetto al diventare uno sportivo di professione. Infine, ancora più grave, c’è il fatto che veramente si pensi di poter guadagnare bei soldi vendendo la propria immagine e il proprio corpo senza pudore. E in effetti, quanto costa farsi 1 foto da inviare ad uno sconosciuto? Forse 5 secondi. Ma qui è normale che un ragazzo lo pensi, bisogna prima educarlo e fargli capire cosa c’è dietro quello che lui vede. Non voglio giudicare e neanche fare confronti tra generazioni perché non ha letteralmente senso. Però, oggi dare un telefonino ad un bambino è un grosso azzardo. È un gesto che può portare a molti rischi, tra cui il fatto di dare la possibilità al giovane di entrare e conoscere in un mondo 2.0 dentro il quale tu genitore hai difficilmente accesso. Da qui, vediamo giovani che conoscono il sesso, la droga e l’alcol. Insomma, ragazzi che crescono in fretta e forse anche troppo. E sempre da qui che poi possiamo vedere ragazzi sempre più ignoranti che prediligono programmi trash a programmi di cultura. Sono abituati fin da subito a vedere queste cose, abituati a vedere video spazzatura e abituati al nulla. Ricordiamoci che tutto, se usato nella maniera corretta è di grande aiuto. Penso quindi che le cose debbano essere date a tempo debito, con una profonda ed attenta formazione. È infatti una critica anche e soprattutto alla generazione nata tra il ’70 e ’80, la generazione che in Italia ha vissuto nella ricchezza del boom economico e che quindi ha una visione della vita sicuramente positiva e rosea. Vivendo quindi lo splendore del nostro Paese, possono forse sottostimare o non comprendere a pieno i rischi che ci sono, soprattutto con le nuove tecnologie.
“Ma ai miei tempi la vita era migliore!”? So che ci sono adolescenti molto in gamba, con la testa sulle spalle e la voglia di spaccare il mondo. Come so che esistono adulti maleducati che vivono portando rispetto solo per sé stessi. La mia speranza rimane quella di una società più spensierata, ma al contempo stesso con principi etici e religiosi solidi e coerenti cosicché i giovani possano magari farsi un’idea della vita traendo vantaggio dai lati positivi dei loro predecessori.
Marco C. – Milano

Spirito olimpico a Parigi 2024

I Giochi Olimpici di Parigi 2024 si sono conclusi qualche giorno fa, pronti per lasciare spazio alle Paralimpiadi, al via il 28 agosto. Tanti saranno i momenti da ricordare di questa edizione olimpica, dalle grandiose imprese sportive delle atlete e degli atleti in gara, alle polemiche più o meno strumentali che hanno accompagnato giorno per giorno lo svolgimento delle competizioni, proprio a ricordarci che, neanche di fronte alle Olimpiadi, l’evento universale per eccellenza, riusciamo ad abbandonare le nostre fiere convinzioni e le bandiere ideologiche.
Eppure, in questo marasma di eventi mediatici, un fatto è passato piuttosto in sordina rispetto alle notizie che più hanno suscitato clamore e dibattito in queste giornate parigine.
Mi riferisco a quello che ai più, sarà parso come un normalissimo selfie scattato dopo la finale del torneo di Ping Pong a squadre miste, vinto dalla squadra Cinese. In effetti, parrebbe non esserci niente di strano nella simpatica foto, scattata come stabilito dal Comitato Olimpico Francese, per celebrare con leggerezza e simpatia, le brillanti prestazioni degli atleti medagliati nelle varie discipline. Eppure, a ben guardare, qualcosa di particolare c’è. Sul gradino più alto del podio, come detto, la coppia cinese composta da Wang Chuqin e Sun Yingsha; a vincere l’argento, due atleti Nord Coreani, Ri Jong Sik e Kim Kum Yong. Già questa sarebbe di per sé una notizia, data l’assenza della Corea del Nord alle ultime olimpiadi, svoltesi a Tokio nel 2021, a causa della necessità di “proteggere gli atleti dalla crisi sanitaria mondiale causata dalla COVID-19” secondo le dichiarazioni ufficiali del governo Nord Coreano, e, soprattutto, per la totale chiusura del Paese asiatico che, da ormai 76 anni, vive sotto la stretta morsa di una delle più feroci dittature ancora esistenti, totalmente isolato dal resto del mondo. Ad alimentare ancora di più il clamore, però, è la nazionalità degli atleti saliti sul terzo gradino del podio: Lim Jonghoon e Shin Yubin sono infatti due atleti Sud Coreani, paese storico nemico della Corea del Nord fin dallo scoppio della Guerra di Corea nel 1950. Da allora, i rapporti fra i due paesi sono assolutamente inesistenti e il confine fra le due Coree, il celebre 38° Parallelo, è uno dei confini più militarizzati e pericolosi del mondo.
Si tratta, quindi, di un’immagine storica, non solo, e forse non tanto, per la valenza sportiva del risultato ottenuto dagli atleti, quanto, soprattutto, per la sua valenza simbolica e, in parte politica. Ping Pong Diplomacy, potrebbe pensare qualcuno, rievocando termini di Nixoniana memoria, forse esageratamente. La foto scattata, infatti, potrebbe non avere alcuna valenza all’atto pratico, né rappresentare alcun tipo di cambiamento nelle politiche dittatoriali attuate in patria dal leader Nord Coreano Kim Jong Un. Come hanno sottolineato analisti e commentatori, infatti, niente nel comportamento dei due atleti Nord Coreani ha fatto intuire una graduale apertura: dei due non si sa praticamente niente, non hanno partecipato a competizioni internazionali, numerosi dubbi sono sorti sul dove si allenino e dove effettivamente vivano e nel corso dei giochi sono sempre parsi schivi e riservati, senza mai rilasciare alcun tipo di intervista.
Forse non sarà l’inizio di una nuova era per la Corea del Nord né di un radicale cambiamento nei rapporti di quest’ultima con il resto del mondo. Sicuramente però, in un’Olimpiade segnata da continue polemiche, proteste e divisioni, in cui la competizione sportiva ha spesso lasciato il posto a tensioni di entità molto più politica, da questo selfie dal podio del torneo di Ping Pong misto arriva una delle pagine più belle, e sicuramente inaspettate, di questi Giochi Olimpici, capace di realizzare, almeno per il tempo di un clic, quella famosa tregua olimpica spesso invocata ma mai realmente attuata.
Giulia C. – Amsterdam

PREPARIAMOCI ALLA COP30

Una lettura critica dell’Enciclica “Laudato Sì”.

In vista della partenza dei nostri giovani volontari per la missione dei Barnabiti a Belem, in Brasile, e in preparazione alla COP 30, uno dei principali forum di incontro a livello internazionale per discutere di clima e cambiamento climatico, che si terrà nel 2025 proprio a Belem, come Blog dei Giovani Barnabiti abbiamo deciso di dare il nostro contributo scrivendo alcuni articoli su questo tema.
In particolare, mi occuperò di redigere una breve sintesi e analisi di uno dei testi di riferimento principali per noi cristiani riguardo l’ecologia e la questione ambientale: l’enciclica di Papa Francesco “Laudato Sì”, pubblicata nel 2015, che affronta il tema dei rapporti dei cristiani con il creato, con un particolare focus sul dramma del cambiamento climatico e della necessità di pendersi cura dell’ambiente e delle persone che lo abitano.
Il nome “Laudato Sì” deriva dal celebre Cantico delle Creature di San Francesco d’Assisi, datato attorno al 1224, opera di fondamentale importanza non solo per la sua valenza artistica e per il profondo contenuto religioso, ma anche perché considerato il testo poetico più antico della letteratura italiana di cui si conosca con certezza l’autore.
«(…) San Francesco d’Assisi (…) ci ricordava che la nostra casa comune è anche come una sorella con la quale condividiamo l’esistenza e come una madre bella che ci accoglie tra le sue braccia», scrive Papa Francesco nelle righe introduttive dell’enciclica. Tuttavia, nonostante la Terra sia per tutti noi come una madre benevola e accogliente e una sorella premurosa, con la nostra noncuranza e cattiveria la stiamo rovinando, consumando, abusando dei beni che Dio ha posto in lei. La brutalità e la violenza del cuore umano trovano manifestazione nei sintomi di malattia che quotidianamente vediamo nella Terra che abitiamo.
L’obiettivo dell’enciclica di Papa Francesco, quindi, è porre l’attenzione su una tematica che, come esseri umani e come cristiani, dovrebbe essere di primaria importanza, unendoci con forza nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale, che passi attraverso un nuovo modo di leggere il problema, una nuova consapevolezza diffusa nuove forme di educazione e presa di coscienza, ma anche forme di azione attiva da parte dei potenti della terra, nella ricerca non solo di nuovi soluzioni tecniche ma di una nuova solidarietà universale.
L’opera è divisa in diverse parti, in modo tale da fornire uno sguardo molteplice sulla questione: il primo capitolo offre un’analisi di “Quello che sta accadendo alla nostra casa”, descrivendo una serie di effetti, da un punto di vista scientifico seppur dal taglio estremamente divulgativo, grazie all’esposizione di risultati di studi e ricerche a testimonianza non solo dei danni materiali e ambientali che il comportamento umano sta causando alla Terra, ma anche sociali, con l’aumento di povertà e diseguaglianze a livello globale e la degradazione della qualità della vita di ampie fasce di popolazione. La seconda parte offre un’analisi dei testi biblici e religiosi, filosofici e letterari, nei quali sia affrontato il tema del rapporto con il creato. La terza parte dell’opera affronta il tema delle cause antropologiche della crisi climatica, identificando direttamente i colpevoli e le modalità di azione umana che portano al deterioramento dell’ambiente e degli ecosistemi. Nella quarta e quinta parte vengono proposte soluzioni per frenare il collasso ambientale a verso cui stiamo andando incontro, che partano da un radicale ripensamento della nostra condizione di abitanti della Terra, passando da forme di ecologia ambientale economica e sociale fino ad arrivare a quella che viene definita ecologia culturale. Viene sottolineata la necessità di portare avanti con forza il dialogo sull’ambiente nei forum e nei dibattiti internazionali, di cui la Cop 30 che si svolgerà a Belem rappresenta una delle tappe fondamentali, ma anche l’importanza di azioni locali e nazionali, ed infine riflettendo sull’importanza del dialogo fra religione e scienza. L’ultimo pensiero di Papa Francesco, infine, è rivolto all’importanza dell’educazione, spirituale e non solo, dei giovani e delle future generazioni, tesa al raggiungimento di una conversione ecologica come preludio di gioia e pace per l’umanità.

Giulia C. – Firenze – Bologna – AMS

UMA COMUNIDADE NA FLORESTA

La prossima missione dei volontari di BarnabitiAPS si svolgerà nell’Área Missionária do Seminário de Benevides a circa 80 km da Belem, la capitale del Pará (Nord Brasile), per questo
INTRODUÇÃO
As comunidades que cercam o Seminário Mãe da Divina Providência, lar do aspirantado e postulantado dos Barnabitas no Brasil, são frutos do trabalho pastoral missionário dos seminaristas desde a fundação da casa, em 1994. Desta forma, a influência da espiritualidade da Ordem ajudou a nomear duas dessas comunidades: Comunidade Santo Antônio Maria Zaccaria e Comunidade Nossa Senhora Mãe da Divina Providência. A terceira comunidade, Nossa Senhora do Brasil, é fruto de uma devoção popular presente na região. Este presente relatório tem como objetivo descrever de maneira breve a realidade de cada uma das comunidades, apresentando dados quantitativos e qualitativos.
COMUNIDADE NOSSA SENHORA DA DIVINA PROVIDÊNCIA
Do ponto de vista geográfico, esta comunidade é a menos extensa, porém é seguro afirmar que é a que possui maior participação dos moradores locais. Segundo a própria coordenadora, estima-se que participem ativamente pelo menos 20 famílias das atividades pastorais. Não possui grupo jovens e conta com a participação de 10 jovens com faixa etária entre 13 e 25 anos. No que tange as crianças, até 12 anos de idade, estima-se que exista em torno de 20 crianças engajadas nas atividades de catequese de primeira Eucaristia e Iniciação à Vida Cristã. O cronograma semanal conta com a novena de Nossa Senhora do Perpétuo Socorro, realizada as terças-feiras, Grupo de Oração Terço dos Homens (GOTH), realizado às quartas-feiras, Adoração ao Santíssimo Sacramento, realizada às quintas-feiras e a catequese/crisma realizada todo sábado. Mensalmente se celebra 3 missas (todas presididas por padres barnabitas), sendo elas nos 2° e 4° domingos (geralmente às 19:30) e na 3ª quarta-feira de cada mês. De acordo com a coordenação, a maior carência é a animação da juventude local que pouco participa da dinâmica da comunidade. A capela conta com um salão, onde os eventos são realizados.

COMUNIDADE SANTO ANTONIO MARIA ZACCARIA
Possui uma área relativamente extensa, porém a participação local vem sendo baixa. Felizmente, no presente momento, este panorama tem mudado. Do ponto de vista qualitativo, possui 23 famílias ativas e engajadas pastoralmente. Não possui grupo jovens e conta com aproximadamente 12 jovens com faixa etária entre 13 e 25 anos. No que tange as crianças, até 12 anos de idade, estima-se que exista em torno de 20 crianças engajadas nas atividades de catequese de primeira Eucaristia e Iniciação à Vida Cristã. No cronograma semanal consta um terço diário, realizado na residência das famílias que compõem a comunidade. Além disso têm-se apenas as missas, realizadas nos dois primeiros domingos de cada mês, bem como da 4° quarta-feira. De acordo com a coordenação a principal carência é o trabalho com a juventude, pouco engajada. Os pastoralistas relatam extrema dificuldade de executar seus projetos pois encontram uma comunidade dividida, com disputas de poder, que se encontra centralizado. Este cenário contribui para que as pessoas se afastem e não participem mais ativamente, mesmo professando a fé católica. Participantes locais relatam que se sentem excluídos. Esta comunidade também é a que possui moradores mais carentes financeiramente e possui um pequeno salão para eventos locais.

COMUNIDADE NOSSA SENHORA DO BRASIL (NOVO BRASIL)
Infelizmente a coordenação da faculdade não conseguiu realizar o levantamento que forneceria os dados quantitativos desta comunidade, porém algumas ponderações podem ser realizadas. De acordo com o relato dos seminaristas, esta comunidade é a mais nova das três, estando ainda em estágio de formação. A população local carece de evangelização. As atividades desenvolvidas são extremamente limitadas e rasa, em virtude do pouco conhecimento do povo. Carece de catequese, liturgia e querigma. Durante a semana não é realizada nenhuma atividade. Tendo destacado tudo isto, é importante ressaltar o imenso potencial desta comunidade, que é muito receptiva e demonstra um grande interesse em aprender e participar ativamente da vida da Igreja. Também aparenta ser a que maior tem participação dos jovens. É um trabalho novo, que precisa de impulsos. Geograficamente possui a área mais extensa de todas as comunidades.
CONCLUSÃO
O presente relatório foi produzido após observação local, relatos pastorais dos seminaristas atuantes nessas respectivas comunidades e do povo de Deus. Espera-se ter correspondido positivamente as expectativas acerca dele. Acaso seja necessário realizar qualquer correção, contactar o autor (Alessandro Negrão Rodrigues)

Anche un leone ferito può riaccendere il bello

Qualche domenica fa nella nostra parrocchia della Divina Provvidenza in Firenze, per chiudere un ciclo di conferenze sulla sfida educativa abbiamo ospitato la professoressa e preside dell’Istituto Tecnico e Alberghiero di Caivano, Eugenia Carfora. Nonostante l’orario desueto, quasi mezzogiorno, la sala era gremita ed evidentemente l’interesse per il tema e per l’ospite era molto alto. Carfora, infatti, è diventata celebre, con il nome di Preside Coraggio, già da diversi anni, grazie alla sua lotta e al suo impegno profuso nel rendere le scuole di Caivano un luogo non solo di aggregazione ma di speranza e riscatto per i ragazzi e le ragazze del Comune del Napoletano.
La Preside ci ha parlato della sua esperienza, del suo modo di percepire l’educazione sollecitandoci a essere vivaci, nel nostro piccolo: infatti, in quanto cristiani la nostra missione passa anche dal valorizzare gli altri e investire per il prossimo.

Chi è la professoressa Carfora?

«Sono da sempre abituata a realizzare i miei tuffi insieme ai ragazzi, nella mia vita non mi sono mai allontanata dal contesto giovanile e dalla scuola. Mi sono sempre impegnata nel sociale: quando ebbi l’occasione di andare a lavorare e Castelvolturno mi sono fatta carico di quei bambini che “venivano al mondo comunque”, figli di quelle donne, molte delle quali sfruttate, che quando avevano figli avevano bisogno della scuola e la ricercavano, mi dicevano che avevano bisogno di aiuto per i loro figli, che per loro era importante che andassero a scuola.

Mi pare che li abbia realizzato una consapevolezza importante.

È stato allora che ho realizzato che non per tutti la scuola è vicina, non per tutti la scuola è scontata. In quel momento ho capito che volevo fare questo nella mia vita: iniziai a occuparmi dei problemi della dispersione scolastica, perché mi resi conto che nessuno ne parlava. Mi accorsi che spesso ci si perdeva dietro la burocrazia, e che fra quello che mi dicevano ai convegni e ai corsi, e quello che poi accadeva nella realtà, c’era un abisso.

Poi venne il concorso del 2007!

Quando ho vinto il concorso da dirigente scolastica, nel 2007, emerse un elenco di scuole in cui c’era troppa dispersione scolastica. Venni, quindi, assegnata alla Raffaele Viviani, nel Parco Verde di Caivano, che era considerata la peggiore scuola d’Italia.
Nel parco Verde vivono poche persone, poco più di 3800. In questo pezzetto di terra il contesto è complesso: ci sono molte case che avrebbero dovuto essere temporanee, ma cui, poi, nessuno ha pensato più. Il problema, a mio parere, non è tanto della gente che ci abita, ma della dirigenza che non viene esercitata e dell’amministrazione che sfrutta la povera gente.
Ci sono due scuole, di cui una delle due è la Viviani. Quando arrivai per la prima volta a vedere la sede, mi trovai davanti a quella che non poteva essere davvero una scuola: un edificio abbandonato, chiuso catenacci davanti ai cancelli, materassi accatastati all’ingresso e una signora con una scopa che puliva il viale. Andai allora in succursale, ma una volta arrivata, non mi presentai come futura preside. Chiesi se ci fosse qualcun con cui poter parlare, mi dissero che erano tutti in ferie. Ovunque c’era disordine e confusione. Chiesi informazioni e mi spiegarono la situazione: nella sede centrale al Parco Verde nessuno voleva andare, c’erano molti studenti iscritti, ma la maggior parte non andava a scuola, i professori facevano tardi e i pochi ragazzi che si presentavano a lezione erano spesso lasciati soli in aula.
La mia sfida educativa, in quel primo periodo, è stata principalmente fare le pulizie, ripulire tutta la scuola e gli ambienti. Finita la parte di pulizia e riordino, sistemati gli spazi, mi aspettavo che i ragazzi sarebbero venuti a scuola, ma così non accadde, e capii che, in realtà, la mia nuova sfida educativa era far venire i ragazzi a scuola con gioia. Una mattina decisi di scendere in strada e andare per le vie a cercare i miei studenti. Camminando vedevo le persone su balconi delle case. Quando mi vedevano a loro volta, molti mi chiamavano, mi invitavano nelle loro case, mi offrivano il caffè: in questi gesti, in quei silenzi, vidi una disperata richiesta di aiuto. I ragazzi continuavano a non venire a scuola e mi chiedevo perché. Capii che questi giovani spesso sono partoriti con atti, non so se di amore, perché nella solitudine ci si incontra e si vivono le pulsioni.
Scoprii qualcosa nel Parco Verde: tutto lì era già predestinato. C’era bisogno di cambiare molte cose, così decisi di introdurre il tempo prolungato per tenere più tempo i ragazzi scuola, la stavo trasformando in un istituto di eccellenza. Volevo anche introdurre la possibilità di crescere i bambini fin dall’infanzia, ampliare i gradi di istruzione per evitare la dispersione scolastica. Il mio progetto, però, è stato bloccato dai colletti bianchi che detenevano il potere nel territorio, che mi hanno costretto ad andare via.
Alla fine, fui spostata in una scuola che, secondo i piani, doveva sparire dalla mappa di Caivano. Si diceva che mancassero le aule, ma io ne trovai 30 vuote, utilizzabili, mentre tutti dicevano che era necessario costruire altre scuole. Ricordo che, in quei mesi, ci fu un ragazzo che venne a dirmi che ero come un leone ferito: soffrivo, ma non ero morta. Anche grazie a queste parole decisi di accettare il posto e buttarmi in questa impresa. Non so se ho svolto bene il mio lavoro di preside, ma sicuramente ho fatto una scelta: per metà sono una preside, per l’altra metà sono ciò che mi passa per la testa. Iniziai a sistemare tutto anche nella nuova scuola, mi sono messa a lavorare con altre persone per creare la bellezza interna, fatta di sacrifici e pulizia. Sfida educativa vuol dire anche prendersi le responsabilità, agire attivamente, senza scorciatoie.

Cosa vuol dire, quindi, sfida educativa?

Credo che si possa fare n paragone fra la Scuola e la Chiesa: la Chiesa cerca di curare le anime, ma non ha la responsabilità di certificare i risultati delle persone, cosa che invece deve fare la Scuola. La Chiesa ha l’obbligo morale di dare una carezza a chi sbaglia e a chi si perde. La Scuola ha mezzi diversi, ma ha scopi, secondo me, comuni: dare alla famiglia umana dei valori, non solo predicandoli, ma praticandoli attivamente. La Scuola si divide in semi e germogli: entrambi cadono nel terreno. Se il terreno è inquinato, va pulito con le nostre mani. Gli educatori devono riuscire ad essere di fianco ai ragazzi e alle ragazze, devono essere modelli, non devono portare nella direzione che vogliono loro ma devono riuscire ad instaurare un colloquio, un ascolto: da questo il concetto di rigenerazione. Per contare bisogna esserci: è importante come ci comportiamo in tutti i giorni, dobbiamo scegliere fin dall’origine cosa fare nella nostra vita, altrimenti si corre il rischio di perdere tutto. Non importa se abbiamo l’approvazione degli altri, perché può venire meno da un momento all’altro. L’importante nella vita è condividere una missione e una visione. Io al Parco Verde ho immaginato di portare la bellezza e ho cercato di rendere visibile all’altro il bello, impegnandoci per superare giudizi e pregiudizi, per evitare di creare un ghetto. Dobbiamo riuscire a far nascere nei giovani la volontà di ricreare il bello e il benessere anche nelle periferie.
È importante che i ragazzi imparino che niente arriva per caso, che è necessario impegnarsi e coltivare i propri talenti, ricordando che niente è dato per scontato. Gli educatori, però, hanno come sfida educativa quella di aiutare i ragazzi a far emergere i propri talenti, investire nei ragazzi là dove gli altri non investono, aiutandoli a scoprire le proprie passioni e ambizioni. I miei studenti sono esemplari in questo, perché senza avere niente, sono riusciti a creare la bellezza: ognuno di noi sta lavorando per ricucire la coesione sociale e la responsabilità in questi luoghi, ma è un percorso lungo, che passa attraverso la responsabilità di tutti, come singoli e come collettività.
Sfida educativa è utilizzare ogni attimo di vita che abbiamo, ricordando che ciò che conta non è l’apparenza ma la sostanza.

Quali ricchezze si sente di trovare nei luoghi in cui lavora quotidianamente? Sono ricchezze che in altri contesti non si riesce a cogliere?

Ci sono tanti sguardi, tante parole. Un semplice saluto, un buongiorno, per me quella è ricchezza. Spesso in città la gente non si saluta più, mentre io nel mio lavoro trovo gente che mi saluta, gente che mi chiede aiuto. Tutto questo mi da la forza di credere ancora nell’umanità e nello stare insieme.

Secondo lei, quanto il benessere economico e sociale incide sulla ricettività degli studenti e su come i ragazzi si approcciano alla scuola?

Io credo che la cosa veramente importante sia stimolare a creare e far emergere il bello e la creatività nei ragazzi, affinché diventino orme e tracce su cui progettare il proprio percorso in futuro. Per questo credo che non sempre il benessere economico sia la vera ricchezza, il vero benessere è tutelare i valori.

L’educazione non riguarda solo i ragazzi e la scuola, ma anche gli adulti. Anche questi dovrebbero essere in qualche modo rieducati all’ascolto e a piccole attenzioni nel modo in cui si rapportano con i giovani?

Gli adulti hanno smesso di essere modelli, e questo è un pericolo, perché se i giovani vedono che i genitori non parlano più, che gli adulti fanno finta di niente e si lamentano e basta, non è più un ruolo di guida positiva. Gli adulti dovrebbero imparare a mettersi accanto e a rimodulare il loro modo di approcciarsi, per evitare di creare un muro fra loro e i giovani. Forse noi adulti dovremmo diventare un po’ invisibili e renderci capaci di ascoltare i giovani, mettendo a disposizione la nostra esperienza.

Cosa la sostiene in queste sue scelte così coraggiose e faticosa?

Quando ti rendi conto che c’è da fare, non ti chiedi se ce la farai. In questi luoghi, la forza emerge senza che tu te ne accorga. Mi immagino la vita come una consegna di testimone, dove creo qualcosa di bello per ciò che verrà in futuro.

Secondo lei quale è il problema principale della scuola?

Ci siamo innamorati di ciò che abbiamo costruito in passato, ma siamo rimasti fermi lì. Dobbiamo trovare il coraggio di far diventare la professione di docente la più bella del mondo, ma io vedo sempre meno persone appassionate. Vorrei una scuola che faccia innamorare i ragazzi della cultura, che li incanti in aula e che li faccia innamorare della materia. Bisogna stimolare la cultura e lasciare spazio ai ragazzi di emergere con le loro idee. Credo che dovrebbero essere introdotte tre discipline fondamentali nella scuola: la filosofia, il diritto e l’economia sana.

C’è stato un momento dove ha capito che ciò che stava facendo si stava davvero concretizzando?

C’è un episodio che vorrei raccontare. C’era una ragazza che non riusciva proprio a stare a scuola, aveva molte difficoltà a studiare. Era già stata non ammessa due anni consecutivi alla classe successiva, però mi ero accorta che ogni cosa che toccava, la faceva brillare, puliva tutto alla perfezione, riordinava gli ambienti e sistemava le cose. Una volta le chiesi cosa le piacesse davvero fare, lei mi rispose che le piaceva fare e pulizie e tenere la casa pulita. Facemmo un accordo: lei mi promise che avrebbe seguito tutte le prime ore di lezione, e io in cambio le promisi che avrebbe potuto ripulire e sistemare tutto il mio ufficio come meglio credeva. In questo modo, riuscii a farle seguire le lezioni a cui non era mai andata.

Giulia C. – Firenze

Gioia e speranza della Quaresima 2024

Diciamo che la lettera di papa Francesco per la Quaresima 2024 affronta temi profondi e universali che vanno al di là delle divisioni religiose. Innanzitutto, il richiamo alla libertà come dono divino e la necessità di uscire dalle schiavitù interiori e esteriori risuona in modo potente. Anche se non si condivide la fede cattolica, il concetto di liberazione e di ricerca di una vita piena e autentica è qualcosa a cui molti possono aspirare.
Inoltre, il messaggio mette in luce la responsabilità individuale e collettiva nel riconoscere e rispondere alle sofferenze degli altri. L’invito a non essere indifferenti di fronte alle ingiustizie e alle oppressioni richiama alla nostra comune umanità e alla necessità di solidarietà e compassione. Questo è particolarmente rilevante in un’epoca segnata da conflitti, disuguaglianze e crisi umanitarie su scala globale (ahimè).
La lettera sottolinea anche l’importanza di agire concretamente per il bene degli altri e per la cura del creato. Questo richiamo all’impegno sociale e ambientale ci spinge a considerare le nostre azioni quotidiane e le loro implicazioni sul pianeta e sulla vita degli altri esseri umani. È un appello a una maggiore consapevolezza e responsabilità nell’utilizzo delle risorse e nella gestione dei rapporti interpersonali.
Anche se il mondo può sembrare segnato da divisioni e conflitti, il richiamo alla conversione personale e collettiva verso un modo più autentico e inclusivo di vivere offre una prospettiva luminosa per il futuro. In definitiva, la lettera invita tutti, indipendentemente dalle proprie credenze, a riflettere sulle proprie azioni e a impegnarsi per un mondo migliore fondato sull’amore e sulla giustizia.
Per realizzare questa novità è necessario però liberarci dalle nostre schiavitù, dai nostri idoli. A questo proposito mi pare interessante e utile sottolineare il parallelismo che il papa pone tra il percorso, la vita di Gesù e il percorso dell’Esodo, della liberazione degli ebrei dal Faraone d’Egitto. Gesù è colui che ci insegna a vivere nel deserto, a ri-conoscere noi stessi, a liberarci dal “faraone” che ci opprime.
Il deserto dei 40 giorni di quaresima è il luogo dove operare un maquillage del nostro volto, ma non solo una estetica di facciata, bensì del pensare, dell’amare, del decidere. Nel deserto il credente ri-trova il suo volto nel volto di Gesù, non un volto fotocopia, ma un volto, una storia che ritrova nella storia di Gesù la matrice sulla quale costruire la propria vicenda di uomo e di credente libero.
Non la malinconia. «Si veda piuttosto la gioia sui volti, si senta il profumo della libertà, si sprigioni quell’amore che fa nuove tutte le cose, cominciando dalle più piccole e vicine. In ogni comunità cristiana questo può avvenire.»
Papa Francesco ci racconta quella ventata di speranza che in questo periodo serve a tutti per sperare e per risollevarsi, una ventata che spesso ci dimentichiamo di avere per poter vivere una vita che possa rendere felici e speranzosi gli altri oltre che noi stessi.
Infine, «Nella misura in cui questa Quaresima sarà di conversione, allora, l’umanità smarrita avvertirà un sussulto di creatività.» La creatività è uno dei doni più belli che l’umanità possa avere. È bello capire che la Quaresima può essere il periodo in cui l’umanità smarrita può sempre trovare la strada per fare cose nuove.
Vincenzo, Gianluigi, Andrea

Chiese vuote… di giovani?

Le chiese sono vuote, di giovani (ma non solo).
La colpa è della Chiesa che non parla più di Cristo bensì di sole cose mondane.
I giovani hanno bisogno di Cristo non di cose mondane.
Lasciamo le necessarie cose del mondo al mondo.
I giovani scansano le chiese perché la Chiesa vuole fare da maestra in tutto non sapendo più parlare di Cristo.
Queste sono alcune delle riflessioni che molti credenti fanno alla realtà ecclesiale attuale. In particolare provo a rispondere a Matteo Matzuzi che sabato 18 novembre scriveva su IlFoglio un testo dal titolo Ite Missa Est proprio su questo tema.
Certo, ognuno ha le sue competenze, i propri ambiti di azione, ma i vari ambiti oggi più di ieri sono così interconnessi tra loro e sollecitano delle risposte anche morali.
Già Paolo VI, che non è l’ultimo arrivato, diceva che il credente deve avere su una mano il Vangelo e sull’altra il giornale, perché il vangelo è fatto per il mondo e il cristiano deve conoscere il mondo. Il Vangelo è la lampada da porre in cima al monte perché illumini le città degli uomini. Per illuminare il mondo è necessario conoscerlo.
E poi Dio si è fatto uomo in Gesù non per hobby, bensì “per conoscere” la storia degli uomini, perché gli uomini conoscessero la sua storia.
Non si può dare una fede senza il mondo e viceversa. Forse per troppo tempo si è voluto lasciare il mondo fuori dalle porte delle chiese, come fosse qualcosa di solamente cattivo, maligno e si è persa la capacità di comunicare.
Il problema non è parlare di Cristo, bensì scalfire l’indifferenza all’incontro con la persona Cristo. Questo perché l’apatia, l’indifferenza e l’individualismo della nostra società ormai sono all’apice del ben vivere: se già chiedere di incontrare l’uomo è una sfida, chiedere di incontrare l’uomo Cristo lo è ancora di più.
Non si può non parlare del mondo, perché il mondo tutto è stato ricapitolato in Cristo, perché ogni più piccolo granellino di sabbia o filo d’erba trovano il loro senso in Cristo! Certo il rischio di confondere l’ecologia con l’escatologia è alto, ma sempre è stato così. La sfida è far capire che l’ecologia senza escatologia diventa ideologia.
Forse non tutti sanno che l’escatologia è la conoscenza e l’esperienza del Paradiso; è lasciarsi guidare dalla luce e della realtà del Paradiso per dare direzione, significato e sapore all’ecologia non solo dell’ambiente, ma di ognuno di noi. Si può vivere la storia con tutte le ottime intenzioni ma solo nel presente. Si può vivere la storia con la prospettiva futura che dona continuamente speranza e forza nel presente.
Le chiese sono vuote non perché la Chiesa parla troppo del mondo e poco Cristo, bensì perché non ha ancora ritrovato quella capacità di parlare del mondo come segno della rivelazione di Cristo aperto alla luce di Cristo.
D’altra parte non è proprio il Concilio Vaticano II a scrivere: le gioie e le speranze, i dolori e le angosce degli uomini di oggi sono anche le gioie, le speranze, i dolori e le angosce dei discepoli di Cristo?
«Non so, mi scrive F., se dire le cose del mondo porti a oscurare Gesù, anche perché la religione insegna valori umani assolutamente condivisibili: fratellanza, rispetto… Quindi per forza bisogna trattare le interazioni umane che, diciamo, sono una manifestazione più diretta e visibile della Rivelazione».

AZZARDO QUESTO CONOSCIUTO

Cosa ha spinto i calciatori a scommettere? Detta così sembra una domanda retorica ed inutile perché i calciatori hanno tutto: soldi, fama, donne… eppure come se non bastasse hanno voluto provare l’ebbrezza di scommettere. Penso però che il giocatore (in quanto giocatore d’azzardo) non vuole giocare d’azzardo per arricchirsi o perché ha bisogno di soldi facili, bensì perché vuole provare l’emozione di aver battuto il banco. Ovvero quella “persona” che non perde mai. O quasi. Si inizia a giocare da giovani, per noia, passatempo, capriccio e pian pianino, se non si è bravi a dosarsi, diventa una vera e propria ossessione. I ragazzini cominciano a giocare pochi spicci al videogame di un bar e le prime volte, magari, vincono. Successivamente, l’eccitazione della sfida e l’illusione di facili guadagni li spinge a continuare il gioco nelle ricevitorie o addirittura in siti online, rubando prima i dati sensibili ai genitori e poi iscrivendosi alle piattaforme. Una droga che ti prende il cervello e non ti lascia pensare ad altro. Ti rende ridicolo e cieco di vedere comportamenti bizzarri e alquanto superstiziosi. Non riesci a scindere i problemi della vita vera da quello che dovrebbe essere un gioco. È un problema che è in aumento e secondo me questo è dovuto al fatto che al giorno d’oggi i ragazzini vivendo nell’era digitale e avendo sempre in mano uno smartphone o un tablet crescono più in fretta, conoscono più cose e sono più sgamati.
In queste settimane si è parlato tanto, forse troppo, di Fagioli e Tonali che da calciatori hanno scommesso su partite di calcio. Ai professionisti non è negato il gioco d’azzardo purché sia legale, su piattaforme legali (per intenderci quelle che vediamo in tutte le pubblicità e/o sponsor di eventi) e non su eventi sportivi rientranti nelle federazioni quali FIGC, UEFA e FIFA. Inoltre, la grande differenza con il passato è che loro hanno scommesso, fino a quello che sappiamo oggi, solo per proprio interesse personale senza commettere eventuali illeciti sportivi e/o combinare partite. È una finezza particolare che però molti media non tengono a precisare tanto da far passare i due calciatori come coloro che si sono venduti le partite, come successo anni fa.
Detto ciò, cosa ha spinto due calciatori a scommettere ed essere definiti dai giornalisti ludopatici? Come riportato dalla Rai nell’intervista mandata in onda durante “Avanti Popolo” ai dirigenti del Piacenza calcio (squadra in cui sono cresciuti Fagioli e Tonali), gran parte del problema sta nei soldi. I calciatori guadagnano troppo fin da giovane. Infatti, se un calciatore guadagnasse 1.000 – 2.000 euro al mese, tolte le spese delle bollette e altro, non gli rimarrebbero molti soldi da investire in schedine e slot machines. Di certo, se anziché 1.000, la giovane promessa ha una busta paga 10 volte superiore la situazione si complica drasticamente e di conseguenza anche le eventuali, se non quasi certe, perdite che accumulandosi diventano debiti. Poi però c’è anche una sorta di abbandono. I giocatori nelle giovanili sono spesso soli, i loro compagni al di fuori del calcio hanno una vita normale e lo stesso vale per le ragazze che frequentano. Di conseguenza, non hanno modo di vivere una vita normale di un adolescente e questo può portare a stare in casa, su internet e scoprire siti illegali e non dove con poco ci si può registrare e scommettere. Bisognerebbe che questi ragazzi venissero educati dal principio, dai primi stipendi con l’aiuto di tecnici per capire come gestire i guadagni. Anche solo far capire loro che non tutti hanno quella possibilità economica, che, ad esempio, 10.000 euro è quasi metà stipendio annuale medio di una persona. In fin dei conti questi calciatori sono nel bene o nel male ignoranti del settore. Negli USA questa formazione c’è già da qualche anno. In NBA, infatti, girano cifre molto più grosse di quelle calcistiche italiane ed europee, tant’è vero che le squadre sono corse subito a investire nell’educazione finanziaria dei propri giocatori.
Forse, tra tutte le cose che prendiamo dall’America, questa potrebbe veramente salvare molte persone giovani e non solo.
Marco C. – Milano

¡Adelante 2023!

Il 15 Maggio scorso padre Giannicola mi chiese di scrivere un pensiero sul viaggio che stavamo per intraprendere verso Mérida (Mexico); mancavano 3 mesi e non riuscivo nemmeno a immaginare ciò a cui sarei andato incontro. Nel testo scrissi che avrei sfruttato l’occasione per diventare una persona migliore e altre “frasi fatte” simili, non potendo veramente concepire quanto questa esperienza mi avrebbe cambiato.
“Il Messico non è un paese, ma uno stato mentale”, così uno dei confratelli Barnabiti, padre Miguel, ci ha descritto il paese in cui egli da qualche anno presta servizio. Noi abbiamo avuto la fortuna di poter verificare quanto realistica sia quella affermazione.
Durante l’esperienza, infatti, siamo riusciti ad abbattere ogni barriera culturale e linguistica che si è posta sul nostro cammino; abbiamo iniziato giocando con i bambini, che sono il futuro e il motore del mondo, e proprio per questo sono i primi a cui bisogna prestare attenzione. Poi il legame si è esteso anche alle famiglie che ci hanno invitato nelle loro case, raccontato le loro storie, fatto assaggiare i piatti tipici e aiutato a comprendere quella che a noi si è presentata come una realtà utopistica.
Difatti ogni persona che abbiamo incontrato a Merida, qualsiasi cosa succedesse, era sempre pronta ad aiutarti e a darti tutto ciò che poteva, anche se, di materiale, non possedeva niente. Questo è il motivo per cui ognuno di loro avrà sempre un posto nel mio cuore.
Prima di partire dissi che ero pronto a migliorare come persona, dando per scontato che il processo sarebbe avvenuto per merito mio. Ad oggi, rientrato a casa, con la volontà e l’intenzione di ritornare il prima possibile, sono invece convinto di essere riuscito a raggiungere questo “obiettivo” soltanto grazie all’amore e alla dedizione che tutte le persone che ho incontrato in questo viaggio hanno messo a mia disposizione. In primis padre Giannicola che si è fatto carico di organizzare e unire i ragazzi italiani con cui sono partito; poi padre Stefano che ci ha fatto conoscere la vita del carcere e padre Miguel tramite il quale abbiamo organizzato il “campamento” che ci ha permesso di conoscere dei bambini stupendi; quindi gli animatori messicani, che sempre hanno fatto di tutto per farci sentire a casa, riuscendo pienamente nel loro intento; infine “mamma” Yanely con marito e i loro 5 figli, che hanno accolto 8 persone in casa sua come se fosse la cosa più comune del mondo, mettendosi al nostro servizio per ogni necessità.
Non so se sarà mai possibile tornare e non so se altre esperienze del genere, una volta fatta la prima, mi cambieranno e colpiranno con lo stesso impatto però, quel che è certo, è che dopo queste due settimane sono pronto a rimettermi in gioco ogni qualvolta sarà possibile pur di aiutare chi vive in condizioni meno fortunate delle mie.
Grazie a tutti coloro che hanno reso possibile e mi hanno accompagnato in questa fantastica esperienza con l’augurio di rivederci ancora per non dimenticare mai quanto passato insieme.
¡Viva Mexico!
Michele L. – Bologna

¡Con todo l’amor del mundo!

È notte, a Mérida (Yucatán).
Alcuni, forse tutti i giovani sono in piscina di don Martin e dona Leila. Un piccolo lusso nella semplicità della periferia.
È l’ultima notte. Domani si riparte, nessuno vorrebbe ripartire. È normale.
Tutti partirono carichi, anche un poco forse molto preoccupati.
Il primo giorno, il caldo aggressivo e l’umidità opprimente, l’acqua che non arriva perché ignari del rubinetto chiuso e la prospettiva di una doccia ogni tre giorni non era peregrina. Ma non si voleva (e non si poteva) tornare indietro!
La Storia va avanti se la facciamo andare avanti. E ognuno di noi la Storia vuole continuarla.
Si è consapevoli di poter fare un pezzo di Storia, perché si è guardata in faccia la realtà, la realtà di se stessi, la realtà degli altri.
La realtà di se stessi, messi alla prova non solo dal caldo e dall’umidità improponibili ma da un mondo nuovo non fatto di 5 stelle o like di Trip Advisor bensì di uomini, donne, bambini, case, strade, fede con altri criteri di esistenza rispetto ai nostri.
Il dormire in otto in due stanze, senza cuscini, con le valigie unico armadio e appoggio. Anche il lavarsi ci mette in gioco, un solo bagno per tutti. L’altro è per la famiglia, papà mamma e 5 figli: tutti splendidi. Si sono ritirati nella loro unica stanza rimasta, sulle loro amache per fare spazio a tutti noi. E poi i criteri di pulizia ben diversi dalle nostre ossessioni igienistiche.
Eppure la vita procede, la voglia di scoprire e lasciarsi scoprire prende la meglio sulle nostre preoccupazioni.
Quale famiglia italiana avrebbe ospitato in casa sua 8 sconosciuti?
Quali persone, le altre famiglie, avrebbero mai fatto a gara per cucinare ogni sera piatti diversi per far conoscere la propria storia? Compresi i litri di Coca Cola?
I bambini, quelli in affido alla Mision de Amistad, quelli della Capilla del Carmén specialmente, che sono i veri protagonisti della storia: cosa avranno pensato dal basso della loro statura media di fronte a noi abbastanza alti per intimorirli?
Bambini tranquilli nell’attesa che ogni gioco venisse spiegato in italiano prima e in spagnolo poi, ma poi scatenati non tanto per vincere, ma per giocare! Un gioco per tutti, grandi e piccoli uniti. E le mamme in retroguardia a godere di questa anomala attività. I papà purtroppo i grandi assenti, chissà perché.
E i giovani? Che si sono prodigati nell’accogliere la nostra proposta, il nostro modo di lavorare e giocare? Anche prendendoci per la gola?
12 giorni fuori dalla nostra storia quotidiana per vivere altre storie, entrare in altre case; scoprire per quel che si può il carcere locale da una parte e bambini e bambine dimenticati dagli adulti, affidati all’associazione Amistad/Friendship.
12 giorni in cui la nostra storia non è più l’unica Storia, perché nel mondo ci sono altre Storie con la “S” maiuscola che ci insegnano le vere nozioni necessarie per vivere in un mondo occidentale che rischia di perdere la Storia, non solo perché ormai senza più figli.

Todo lo que hiciste para nosotros no es comun y por eso siempre sostendrè vuestre familias en el nostro corazon, esperando que para vosotros puede ser lo mismo.

¡Con todo l’amor del mundo!