Gregorio e Paolo santi

Domenica 25 gennaio,

la chiesa greco-melkita fa memoria del nostro santo padre Gregorio il teologo, occasione gradita per fare i nostri migliori auguri a Sua Beatitudine Gregorios e per chiedere al Santo di intercedere per lui, affinchè, per molti anni ancora continui a pascere il gregge della sua chiesa Melkita oggi, più che mai martoriato in ogni dove si trovi, Siria, Iraq, Libano, Giordania, Egitto e ovunque sia disperso in diaspora al di fuori della sua terra e lontano dalle sue case.

Preghiamo dunque il santo teologo arcivescovo di Costantinopoli non solo perché protegga e conservi il nostro Patriarca, ma l’intera Chiesa, così dicendo:

Con la tua lingua teologa hai sciolto le complicazioni dei retori, o glorioso, e hai abbigliato la Chiesa con la tunica dell’ortodossia, tessuta dall’alto; di questa rivestita, essa acclama insieme a noi, tuoi figli: Gioisci, padre, eccelso intelletto della teologia.

Chiediamogli di aiutare la Chiesa, a conclusione di questa speciale settimana di preghiera per l’unità dei Cristiani, a sapersi allontanare dai cammini di indifferenza, diffidenza e odio che mantengono ancora vive le divisioni e così facendo si spartiscono quella bella tunica d’ortodossia tessuta dall’alto!

Chiediamogli la saggezza suprema del cuore e dell’intelletto necessaria a superare tali ostacoli e a sapersi riconoscere UNA, specialmente in questi tempi in cui la morte gratuita, la persecuzione, la tortura e il dolore non fa differenza tra cattolico e ortodosso. Che abbia almeno la saggezza di offrire tale e tanto dolore per l’unità, affinché il Cristo accettando tali voti ricomponga egli stesso la sua tunica e ci raduni in unità!

Buona preghiera anche ai padri Barnabiti per la festa della Conversione di san Paolo loro patrono.

In comunione,

la Chiesa greco-melkita di Roma.

Barnabiti in Afghanistan

Pubblichiamo la cronaca del cambio della “guardia” barnabitica nella missione afghana a Kabul

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 Padre Giuseppe Moretti ascolta la professione di fede e il giuramento di fedeltà di padre Giovanni Scalese

La presenza dei Barnabiti in Afghanistan data dal 1933. Essendo stata l’Italia il primo paese a riconoscere l’indipendenza dell’Afghanistan (1919), il governo afghano volle in qualche modo “sdebitarsi” permettendo, all’interno della legazione italiana, l’erezione di una cappella e la presenza di un cappellano a servizio della piccola comunità cattolica locale. Fu lo stesso Pontefice Pio XI a volere per tale incarico un barnabita. Primo cappellano dell’Ambasciata italiana a Kabul fu il Padre Egidio Caspani (1933-1947). Gli succedettero i Padri Giovanni Bernasconi (1947-1957), Raffaele Nannetti (1957-1966), Angelo Panigati (1966-1990) e Giuseppe Moretti (1990-1994). Quest’ultimo fu costretto a lasciare il paese nel 1994, a causa della guerra civile scoppiata in Afghanistan dopo il ritiro delle truppe sovietiche (1989) e la caduta del regime comunista (1992). Nel 1996 i Talebani presero il potere e instaurarono l’Emirato Islamico, che durò fino al 2001, quando ci fu l’intervento della coalizione militare internazionale con l’operazione “Enduring Freedom”.

Venutasi a creare una nuova situazione politica con la formazione del governo di Hamid Karzai, la Santa Sede, volendo provvedere in maniera più adeguata alla cura pastorale dei cattolici in Afghanistan, in data 16 maggio 2002, decise di costituire il territorio della Repubblica Afghana in “Missione sui juris” (= non dipendente da alcuna altra giurisdizione ecclesiastica), affidandola all’Ordine dei Barnabiti. Come primo Superiore ecclesiastico o Ordinario della Missione fu scelto lo stesso Padre Moretti, che fece immediato ritorno a Kabul e riprese la sua attività pastorale a favore della comunità cattolica in Afghanistan.

Trattandosi di un ufficio ecclesiastico in tutto equiparato a quello di un Vescovo diocesano, il Superiore della Missione è invitato a presentare le dimissioni al compimento del 75° anno d’età (can. 401, § 1). Norma scrupolosamente osservata dal Padre Moretti in occasione del suo 75° compleanno, nel 2013. A questo punto la Santa Sede doveva provvedere alla nomina di un successore. La Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli, con decreto del 4 novembre 2014, nominava il Padre Giovanni Scalese nuovo Superiore della Missione.

Padre Scalese, originario di Roma (nato e cresciuto nella Parrocchia di San Carlo ai Catinari), può contare su una esperienza piuttosto variegata, che va dall’attività pastorale all’insegnamento, dalla gestione scolastica alla formazione, dal servizio missionario al governo della Congregazione. Le tappe del suo ministero sacerdotale sono state, a varie riprese, Firenze (Collegio alla Querce), Bologna (Parrocchia di San Paolo Maggiore e Collegio San Luigi), Roma (Curia generalizia), Tagaytay (Filippine), Bangalore (India), Napoli (Istituto Bianchi). Dopo aver sbrigato tutte le pratiche burocratiche (il Superiore della Missione gode di status diplomatico in qualità di Addetto d’Ambasciata) e aver preso le opportune precauzioni sanitarie, Padre Scalese è partito per Kabul il 7 gennaio 2015, il giorno dopo l’Epifania.

Domenica 11 gennaio, festa del Battesimo del Signore, nella Chiesa-madre della Madonna della Divina Provvidenza, alle 17.30, si è svolto il rito della “presa di possesso” della Missione. Erano presenti numerosi fedeli, tra cui le tre comunità religiose femminili di Kabul (le “pioniere” Piccole Sorelle di Gesù, le Missionarie della Carità di Madre Teresa e la comunità intercongregazionale “Pro Bambini di Kabul”). Il nuovo Superiore è giunto alla porta della Chiesa, dove era ad attenderlo il Padre Moretti, che gli ha presentato il Crocifisso da baciare e l’aspersorio con cui è stata benedetta l’assemblea. Dopo qualche istante di adorazione silenziosa, Padre Scalese ha emesso la professione di fede e il giuramento di fedeltà previsti dal diritto canonico (can. 833). Mentre i fedeli cantavano il canto d’ingresso della Messa, il nuovo Superiore ha assunto le vesti liturgiche e si è recato all’altare per dare inizio alla celebrazione. Dopo il saluto iniziale, ha preso possesso della sede presidenziale e il Padre Moretti gli ha imposto la mitra. È quindi seguita la lettura del decreto di nomina e il saluto dei fedeli. La Messa è poi proseguita con il canto del “Gloria”, la liturgia della parola (con letture in spagnolo, italiano e inglese) e la liturgia eucaristica. Nella sua omelia, Padre Scalese ha messo in rapporto il proprio insediamento con la festa liturgica del Battesimo del Signore, ha ringraziato i superiori ecclesiastici per la fiducia accordatagli, ha ringraziato Padre Moretti per il servizio ultradecennale prestato alla Missione, si è raccomandato alle preghiere dei presenti, ha invocato la benedizione di Dio sulla comunità e l’Afghanistan.

Padre Moretti ha lasciato Kabul il 14 gennaio per far rientro in Italia (dimorerà a Roma, presso la Casa generalizia). Padre Scalese è rimasto a Kabul con il suo piccolo gregge e con la speranza che la situazione politica dell’Afghanistan si evolva in senso positivo, in modo che la Missione possa crescere e assumere a poco a poco i connotati di una vera Chiesa locale.

Guardians of the creation

Cari amici buon giorno,
comincia una nuova sezione The planet where I’m living – Il pianeta dove vivo, di Nicolais Legrais, della nostra comunità giovanile del Belgio nella quale cerchiamo di meglio capire che fare per salvaguardare il nostro pianeta.

“We are guardians of the creation, of God’s plan in line with the nature, guardians of the other, of the environment. Do not allow signs of destruction and death accompany the march of our world!”. Thus spoke our Francis pope his early pontificate. He invites everyone to reflect on his relationship to the world, its relationship to life.
Are we still in good agreement with Life in our actions, our lifestyles? The earth is suffering from many ills: war, pollution, deforestation, starvation. For many of these ills, the man is responsible, each is. Nowadays, we tend to see the environment as a source of profit than a living millenary universe.
Of course, there are many organizations and local and national initiatives that tend to want to give some meaning to human actions, respect for creation, we must support it! But unfortunately the balance still leans too much in the red. Can is it to answer the call of the pope, reverse this negative trend by being humble enough to revise our way of life, in agreement with what nature has to offer and the fulfillment of mutual beliefs.
And don’t forget, the earth is not our ancestors who we ready but our children who lend it to us.
Nicolais Legrais

La questione meridionale

1861-2015. Un secolo e mezzo di storia (e poco più) non è bastato ad archiviare la fantomatica “questione meridionale” che, dagli albori dell’Unità d’Italia, è sempre stata al centro del dibattito storico e politico, fino ai giorni nostri. Certamente Garibaldi non pensò che tutti i problemi dell’Italia si sarebbero risolti con un gesto eroico, ma nemmeno immaginava che il gap economico tra Nord e Sud della penisola sarebbe, di lì a poco, divenuto una voragine.

Il ritardo del Mezzogiorno, sia chiaro, non è frutto della casualità, ma di precise causalità; gli errori della classe politica dirigente giocarono (e giocano ancora) un ruolo determinante: quei settori dell’economia caratteristici del meridione non furono salvaguardati e i finanziamenti statali mai si mossero in direzione-Sud perché le piccole aziende a conduzione familiare non sono mai state considerate una risorsa per l’economia nazionale, a differenza della grandi industrie del Nord. Pertanto, si è assistito a uno sviluppo disomogeneo dell’Italia, che ha finito col dipingere il Sud come fardello dell’economia, più che come potenziale risorsa.

Secondo l’analisi del giornalista Andrea Atzori, non si è compreso che “per il Sud, la vocazione non era quella della grande produzione industriale, ma quella dell’eccellenza, nella ricerca e applicazione scientifica e tecnologica”; a oggi, in virtù del fatto che “la sfida nei confronti dei grandi giganti dell’economia, se non si vuole rimanere emarginati per sempre, passa dalla valorizzazione delle risorse umane”, il Sud sembra addirittura essere avvantaggiato rispetto al Nord. Le popolazioni meridionali sono ricche di valori che non si possono dimenticare: un’etica del lavoro intesa come “fatica”, sacrificio, una concezione della famiglia quale centro di affetti, di fecondità e di trasmissione di valori nonché di una religiosità popolare considerata importante veicolo di formazione (cfr. Chiesa Italiana e Mezzogiorno).

Dunque, la soluzione alla questione meridionale è davvero così difficile? Difficile è pensare che l’unica risposta al problema sia dover modificare l’assetto strutturale della Repubblica – questa la proposta avanzata da alcune forze politiche: “non saranno le nuove forme di Stato, in senso federalista, inventate dai giuristi, che cambieranno il destino del Paese, anzi, serviranno solo a lasciare i problemi irrisolti, e ad aggravarli, continuando ad aumentare il solco che separa le due parti di esso”, sostiene Atzori. La risposta è semplice e risiede nel Mezzogiorno stesso, fonte di risorse mai valorizzate.

La questione meridionale resta aperta ma non per questo irrisolvibile: occorre elaborare una politica economica nazionale che miri al superamento dell’arretratezza del Sud come punto di partenza per la crescita unitaria del Paese; e tutto ciò sarà possibile solo se pregiudizi e presunzioni di superiorità, che sono la causa principale delle tensioni tra Nord e Sud, saranno superati per far spazio a una mentalità più aperta, tesa a creare sinergia tra le due realtà, così come la Chiesa sostenne nel non lontano 1989: “il Paese non crescerà se non insieme”.

Pasqua Peragine

Per tutti i fratelli

All’indomani della festa del nostro santo Padre Antonio il Grande,
celebriamo la memoria dei nostri padri e arcivescovi Atanasio e Cirillo,
pregando loro così dicendo:

Avete brillato per le opere della retta fede,
avete respinto ogni fede errata,
e siete così risultati vincitori carichi di trofei.
Avete arricchito l’universo con la pietà,
avete largamente adornato la Chiesa
e avete perciò giustamente trovato il Cristo Dio
pronto a donare a tutti,
per le vostre preghiere,
la grande misericordia.

Non dimentichiamo mai i nostri fratelli orientali che al modo di questi santi padri, combattono per respingere la fede errata e mantenere quella nel nostro unico Dio.

Il nostro pregare per tutti i fratelli cristiani orientali, sia cattolici che ortodossi, uniti non solo dalla medesima fede, anche dalla medesima persecuzione, sarà doppiamente gradito al Signore perché è anche preghiera ecumenica, in questa speciale settimana che la Chiesa dedica alla preghiera per il ristabilimento dell’unità!

Dunque preghiamo che non debba essere solo il mal comune a farci accorgere che siamo figli dello stesso Dio!

Bande à part

Molti anni fa, quando le major cinematografiche non avevano ancora pieno controllo verticale sulle sale in Francia, quando la voce francofona del quasi trentasettenne Gainsbourg riempiva attraverso la radio le case europee con Coleur café, usciva contemporaneamente al cinéma il settimo lungometraggio di Jean-Luc Godard, Bande à part.

Era il 1964 e il cinema francese stava vivendo una rivoluzione che ancora oggi paralizza i registi di tutto il mondo: da quel momento la Nouvelle vague avrebbe cambiato il cinema. Ne avrebbe cambiato le forme, i costumi, i modi.

Un triangolo amoroso degno di Truffaut riempie le scene del film, andando a scandagliare quei tratti che rendono i protagonisti personaggi godardiani a tutto tondo, animali selvaggi ancora incorrotti, impacciati quando delinquono e quando cercano di nascondere i loro veri sentimenti. Annoiati come bimbi alle lezioni d’inglese, corridori provetti a bruciapelo tra le sale del Louvre, ballerini affermati nei bar sulle note di un rythm & blues, in una delle sequenze forse più epiche del cinema francese; Odile, Franz e Arthur sfrecciano per le strade della periferia est parigina a bordo della loro SIMCA lasciando che la luna si mangi stancamente il sole, in cielo, e che un’altra noiosa giornata finisca.

Come dessert, una rapina organizzata nella casa dove vive la ragazza con la vanesia quanto misteriosa tutrice. Il tutto seguiti dalla silenziosa Arriflex 2 C, pilotata magistralmente da Raoul Coutard, che li pedina senza essere mai invadente, li accarezza quasi, riuscendo a restituirci i loro palpiti minimi. Perfino il respiro. Fino all’ultimo.

Ispirato all’estetica popolare dei b-movies americani degli anni ’50, Bande à part è un dramma risolto in cadenze di commedia burlesca, un perfetto heist movie dove il crimine e l’amore la fanno da padrone, idoli indiscussi di una storia cinematografica, in quell’anno ormai quasi centenaria.

Bande à part è una infinita, eterna preparazione all’inevitabile epilogo: ma anche un esorcismo, un giocare a scacchi con il Fato e la Morte. Se il percorso è stabilito a priori in fase di sceneggiatura, lo stile cerca di sovvertirlo e di mandare in stallo la storia stessa.

La pellicola incanta per questo strano gioco, per questa sfida che Godard pone a sé stesso, per il duello tutto interno al film tra il bisogno di una storia chiusa e prestabilita e la sua aspirazione a uno stile e a una regia totalmente aperta.

Arthur, Franz e Odile parlano e si parlano addosso incessantemente, più di Lei e Lui in Hiroshima mon amour e, forse, è per questo che a metà film sentono il bisogno di sperimentare un minuto di silenzio, che la cinepresa registra in tempo reale, esulando i suoni e accludendo lo sguardo incredulo dello spettatore. Ma subito dopo la parola riprende il suo potere e contende più di prima, come nelle migliori pellicole di Rohmer, il primato all’immagine.

È un film leggero, girato sulle punte. Danzante come la fotografia di Bresson e tagliente come quella di Capa, Bande à part riesce a sovvertire le regole del gioco cinematografico classico, presentando un soggetto innovativo (benché non originale), forte di una fotografia morbida ma greve, disegnando dei personaggi goffi e immaturi, amati e accarezzati dal regista ma impossibili da salvare.

La sapienza è Dio che si dona

Fino a ora abbiamo considerato come la sapienza sia capace di coinvolgere profondamente l’uomo, a partire dal suo centro, il cuore, ed estendendosi a tutta la sua esperienza vitale. Ma una qualità di tale importanza per la vita umana, è data a tutti o appartiene solo a chi è capace di svilupparla?
A differenza della sapienza intesa come conoscenza e abilità di sottile ragionamento, accessibile solo a chi è particolarmente dotato e ha la possibilità di sottoporsi a un lungo periodo di formazione, la sapienza biblica è un dono di Dio e quindi accessibile a tutti, come testimoniano tanti passi biblici, tra i quali i libri della Sapienza 6,12, e dei Proverbi 1,20-21 e 8,2-3, dove “donna sapienza” grida a tutti nelle piazze e non parla nel segreto solo per pochi eletti.
Come ogni dono divino, va però accettato nella libertà, cosa possibile solo se si coltiva una relazione con Dio nella preghiera. Così ci insegna un testo molto suggestivo, sempre dal libro della Sapienza (9,17), che contiene una bellissima preghiera in cui Salomone chiede il dono della sapienza, unica mediatrice tra Dio e l’uomo, capace di portare alla conoscenza della volontà di Dio.
La sapienza è dunque la via privilegiata con la quale Dio si apre all’uomo. Essa non è solo dono di Dio ma è Dio stesso che si dona. Non stupisce quindi che il nuovo testamento rilegga la sapienza come il Signore Gesù che viene nel mondo e si dona agli uomini.
Pensando infine al nostro san Paolo e, specificamente, a 1Corinzi 2,6, la Sapienza che porta alla perfezione e che “non è di questo mondo” è “Cristo crocifisso, scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro, Giudei o Greci, che sono chiamati, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio” (1Cor 1,23b-24).

Stefano Maria

Lacrime e gemiti per una terra fertile

Chiediamo a Dio che voglia salvarci e renderci più coerenti
come cristiani e come uomini, per intercessione del nostro
santo padre Teodosio e dei nostri fratelli siriani e iracheni
morti per non aver voluto rinunciare alla fede.

Che le loro lacrime e gemiti dal profondo delle loro anime e
dignità, vogliano rendere fertile l’arido deserto di fede che
avanza in questi giorni e facciano fruttare il centuplo le fatiche
di quanti resistono per continuare a vivere da uomini liberi e
da cristiani convinti e innamorati di Cristo.

Santo padre Teodosio ascoltaci e intercedi presso Cristo Dio,
tu che
con lo scorrere delle tue lacrime, hai reso fertile la sterilità del deserto;
e con gemiti dal profondo, hai fatto fruttare al centuplo le tue fatiche,
e sei divenuto un astro che risplende su tutta la terra per i prodigi,
o santo padre nostro Teodosio.

Intercedi presso il Cristo Dio per la salvezza delle anime nostre.
E noi preghiamo incessantemente
Perché la giustizia e la pace si incontrino
e la verità e la misericordia si abbraccino.

Gesù bambino o Gesù uomo?

Ci piace di più un Dio Gesù bambino o un Dio Gesù uomo?
Abbiamo di più l’idea di un Dio che resta bambino o di un Dio che diventa uomo?
A ben pensarci spesso preferiamo un Dio Gesù bambino, che tra poco riporremo nelle soffitte o nelle cantine delle nostre case, bambino che non disturba se non con un poco di tenerezza, perché i problemi della vita sono parecchi e non è Gesù non serve per risolverli.

Eppure la fede cristiana non si fonda su un Dio Gesù bambino, ma su un Dio Gesù uomo!

Il vero Natale del Signore non è quello del bambino, ma quello dell’Epifania, della manifestazione di Dio Gesù al mondo, di Dio Gesù ai benpensanti e ai peccatori, la festa di oggi, di Dio Gesù alla vita di tutti i giorni, le nozze di Cana. Il vero Natale di Gesù che la festa del battesimo di Gesù ci vuole rivelare è il Natale che chiede di accadere nella nostra vita quotidiana ogni giorno, in ogni momento del nostro esistere quotidiano.
Il battesimo che Gesù riceve al Giordano non è un optional, ma è una vera e propria scelta di Dio per noi! Nel momento in cui Dio ha scelto di incarnarsi, ha scelto non solo di nascere e poi starsene da qualche parte, ma di incarnarsi per vivere da uomo, per redimere l’uomo. Questa redenzione, che troverà il suo culmine sulla Croce, però vuole illuminare e sostenere ogni istante della nostra esistenza.
Gesù, chiamato il galileo, viene al Giordano per essere immerso anche lui nelle acque di quel fiume, il fiume che discende. Siamo così posti di fronte a un evento decisivo nella vita sia di Gesù sia del Battista: Gesù, che è un discepolo di Giovanni, che si era messo alla sequela del profeta (“dietro a me”, come precisa Giovanni), ora chiede al Battista di essere come uno di quei peccatori che in fila attendevano l’immersione, chiede di essere immerso in modo che i peccati siano inabissati nell’acqua e dall’acqua possa risorgere quale nuova creatura. Gesù è un uomo libero e maturo, ha coscienza della sua missione, non vuole privilegi, ma vuole compiere, realizzare ciò che Dio gli chiede come cosa giusta: essere solidale con i peccatori che hanno bisogno dell’immersione, essere un uomo credente come tutti gli altri.
Questo non significa evidenziare solo la dimensione negativa dell’uomo, il suo essere peccatore, quanto fargli presente che nella vita di tutti i giorni, segnata dal peccato, quindi dal limite e dalla fatica di tutte le nostre attività, Dio Gesù uomo è con noi.

La festa del battesimo di Gesù ci dice con chiarezza che Dio è con noi ogni momento, non a intermittenza, di tanto in tanto; non solo per ricordarci i nostri peccati; Dio Gesù uomo è con noi sempre! Dio Gesù uomo si immerge nel fiume della nostra vita, con tutti i suoi limiti e pregiudizi, perché noi si possa immergersi nel fiume della sua vita, con tutte le sue opportunità e libertà.

Ma c’è un ultimo aspetto che non possiamo tralasciare.
Giovanni osserva che Gesù esce dalle acque del Giordano “vede squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba”. E anche il Padre fa sentire la sua voce che proclama: “Tu sei mio Figlio, l’amato, in te ho posto la mia gioia” (Sal 2,7; Gen 22,2; Is 42,1), tutto il mio amore. Questa dovrebbe essere la vera domenica epifania della Trinità di Dio, che si manifesta operando: c’è l’unto, il Cristo; c’è chi lo unge, il Padre; e c’è l’unzione dello Spirito santo.
Ecco, questo è il dono che ci è donato in questa festa, al termine di questo tempo di Natale, un Dio Padre, Uomo, Spirito santo che si offre a noi per condividere con noi la vita di ogni giorno e aprirci il regno dei Cieli.

Riflettiamo perciò sul nostro Battesimo, che abbiamo ricevuto in conformità a quello di Gesù. Ogni giorno, quando ci alziamo e diciamo: “Ti adoro, mio Dio … Ti ringrazio di avermi fatto cristiano”, pensando al nostro battesimo dovremmo gioire e dovremmo sentire “la voce di un silenzio trattenuto” (1Re 19,12) che nel cuore ci canta: “Tu sei mio figlio, ti amo, voglio gioire in te!”. Se sentiamo questa voce, la giornata sarà diversa, illuminata da un amore promesso e donato, e anche il sole sarà più luminoso.

Chimes of freedom; freedom is here

Tutti noi abbiamo quotidianamente a che fare con parole che ci piacerebbe non sentire o notizie che fanno passare parte della voglia di vivere. Ecco perché siamo sempre più spesso spinti il più delle volte a munirci di un paio di cuffie in treno o a girare la rotellina del volume in macchina, per allontanarci un po’ dal mondo, ascoltare musica in questi momenti sembra proprio il rimedio migliore.

Ma è buona la musica che ascoltiamo? Trasmette valori positivi o non è altro che parole messe assieme giusto per coprire spazi di una melodia? Figuriamoci poi se è in inglese; quasi mai capiamo al volo e non sempre abbiamo tempo per cercare il testo su Google. Ciò significa normalmente ascoltiamo la musicalità di un brano e, se si tratta di un pezzo orecchiabile, magari quello ci rimane in testa per tutta la giornata: altrimenti passiamo alla successiva traccia. Ma questo, probabilmente, è il bello della musica: non c’è sempre bisogno di capire quello che significa per dire se ci piace o no, perché quando unisce persone di diversi paesi che parlano diverse lingue e regala emozioni a tutti compie già buona parte della sua missione. Così facendo però, il significato, almeno mezza canzone, il testo, resta sconosciuto ai più.

Questo articolo, assieme ad altri che seguiranno, nasce con l’obiettivo di illustrare proprio i testi delle canzoni. Probabilmente non le canzoni del momento, ma quelle che sono passate in qualche modo alla storia. Per cui quello che faremo sarà affiancare ad un brano che appartiene a un genere non del tutto popolare in Italia. La Christian music, ovvero un genere che esiste da tempo e che non va confuso con i canti della domenica a messa. La Christian music, infatti, propone canzoni arrangiate in studi di primo livello di tutto il mondo, accompagnati da strumenti di ogni tipo e che spaziano dal pop al rock alle ballate fino all’hip-pop. Ovviamente, hanno come temi portanti il Vangelo o i valori del Vangelo e, con sorpresa per noi in Italia, genera pure un mercato discografico di una certa rilevanza.

In questo e nei prossimi articoli il confronto avviene tra una canzone laica e una Christian che hanno lo stesso tema di fondo. Oggi partiamo con un argomento a tutti molto caro, la libertà, “freedom” in inglese.

Come primo artista “laico” di questo progetto abbiamo scelto Bob Dylan, così andiamo sul sicuro e la sua canzone “Chimes of freedom” ( Campane di libertà): si tratta della quarta delle undici tracce del suo album “Another side of Bob Dylan”. È il lontano 1964, due anni dopo il suo debutto ufficiale. Si tratta quindi di un disco che possiamo ricollegare alla sua esperienza giovanile, il quarto in tre anni, ma che mostra già un artista maturo, rispetto ai suoi 23 anni di vita. Sono gli inizi di una carriera che è incoronata da MTV come la quinta più rilevante della storia della musica, dietro solo a fenomeni musicali come The Beatles, Michael Jackson, The Rolling Stones e Led Zeppeling.

Dopo questa premessa, è evidente che la prima canzone scelta non ha aspetti apparentemente carenti. “Chimes of freedom” non è sicuramente uno dei più noti successi del “Menestrello” (alias Robert Allen Zimmerman, alias Bob Dylan), ma è stata definita a più riprese come una canzone contro la guerra. “Campane di libertà” è stata ricantata più volte come cover, anche dal Boss, Bruce Springsteen, un altro che non ha mai scritto canzoni facili o disimpegnate. “Chimes of freedom” porta chiaramente un messaggio di speranza, in tempi cupi e di conflitto: siamo all’epoca della guerra in Vietnam, ma possiamo dire che si tratta di una canzone contraria alla guerra in generale, che vede Bob parlare in prima persona come se quella guerra lui stesso l’avesse combattuta davvero. In 7 minuti, lui non è da solo: soffre le pene della guerra assieme ad altri, tant’è che la maggior parte dei verbi sono retti dal pronome noi. Alla fine infatti “[noi] vedemmo al di sopra le lampeggianti campane di libertà”. Non sarà tra le canzoni più famose ma di certo ha qualcosa da insegnare anche a noi, che crediamo di essere lontani dalla guerra. È un messaggio di speranza per “i malati le cui ferite non possono essere lenite”, ma anche per “ogni uomo imprigionato nell’intero universo”. La guerra non è solo dietro la collina, come avrebbe cantato quattordici anni dopo De Gregori in “Generale”, ma è con noi ogni giorno e nella nostra esperienza quotidiana. Non è facile ma per Bob, tutti possono vedere queste “Chimes of freedom”.

Analizzata la canzone “laica”, introduciamo ora la christian song, “Freedom is here” di Reuben Morgan. L’artista è un cosiddetto “worship pastor”, ossia un pastore che con la propria musica contribuisce alla diffusione del Vangelo attraverso incontri di lode a Dio cui partecipano migliaia di persone. È un pastore della chiesa anglicana, ma come un artista “normale” lavora spostandosi per il mondo, tra uno studio di registrazione e l’altro, e tra una tournee e l’altra, tanto da fare di lui uno tra i più acclamati “pastori musicali”. Sarebbe azzardato paragonarlo a Bob Dylan, ma Reuben non ci si allontana tanto se lo si inserisce nel contesto della Christian Music. La sua prima produzione personale risale al 1996; da allora ha partecipato, individualmente o insieme ad altri, in ben 27 dischi.

“La libertà è qui” è del 2009, fa parte dell’album ”Across the earth – Tear down the walls”, registrato in Australia e realizzato insieme ad altri interpreti della Christian Music, che assieme formano la Hillsong United. Il successo del disco fu tale da raggiungere la prima posizione nelle vendite in iTunes Australia e in iTunes Inghilterra. Ciò significa che la canzone, tra le principali tracce del disco, è riuscita a farsi ricordare, nonostante i possibili pregiudizi che potrebbero svilupparsi attorno a tale stile musicale. Oltre al testo, che riguarda la libertà che viene offerta da Dio al cristiano, è interessante ascoltare questa canzone. Per chi non sapesse una parola di inglese infatti, questa potrebbe sembrare tranquillamente una delle canzoni che ripetutamente suonano in radio. E chi lo avrebbe mai detto? Un pastore può fare anche questo. Non siete convinti? Provare per credere. Su Youtube ci sono video che si avvicinano alle ottantamila visualizzazioni che mostrano concerti con migliaia di spettatori presi dalla disperazione quando vedono il loro pastore entrare in scena e cantare questa emozionante e appassionata canzone.

Buon ascolto a tutti!

ElDima