Il fallimento degli aiuti umanitari

Nonostante tutti gli aiuti e risorse messe in atto in Africa questa detiene ancora tutti i primati negativi. Perché? Dov’è l’errore che come un bias, errore sistematico, in un analisi statistica altera completamente il risultato?

Tutti sono d’accordo nell’affermare che il modello assistenziale non può rappresentare la strada giusta per liberare questi popoli dal loro stato di indigenza. D’altro canto dobbiamo fare attenzione a non cascare nello scontato del “prevenire è meglio che curare” oppure del “a chi ti chiede un pesce, insegna a pescare”, la famosa acquisizione del know-how.

La maggior parte delle dichiarazioni rilasciate da enti che si occupano dei PVS (paesi in via di sviluppo) si basano su una logica del genere, trasferire conoscenza e gli strumenti adatti. Però anche le strategie educative hanno avuto uno scarso risultato e un basso impatto sulla popolazione dei PVS.

Perché questo insuccesso?

Intanto possiamo sottolineare la mancanza di idee e soluzioni innovative: ci si concentra sempre e solo su assistenza sanitaria, sviluppo agricolo e industriale. Proviamo invece a sostituire l’aggettivo “scontato” con “svuotato”, infatti il nostro bias sembra essere legato a un vuoto concettuale, a una mancanza di contenuto antropologico, che possiamo riscontrare anche nel come la realtà viene letta, in base a degli indicatori di salute, benessere e sviluppo, con lo scopo di rendere la realtà misurabile, ma questo approccio è ben lontano dallo scoprire vere soluzioni al problema.

La strada da intraprendere è quella della riscoperta di senso, rispetto ad un numero o a una statistica, al di là della causa materialistica in sé. Si rende necessario trasmettere alle popolazioni dei PVS dei valori antropologici che indichino il perché e per chi migliorare, come scrive Vicktor Frankl, prigioniero nei campi di concentramento: «si può anche vivere senza saperne il perché, ma non si potrà mai vivere senza sapere per chi».

Fino a oggi negli aiuti umanitari a prevalso il “come”. Ma lo sviluppo in quanto fenomeno umano è immediatamente, un fenomeno morale: noi occidentali soffriamo di un vuoto antropologico, e di conseguenza non riusciamo a trasmettere a queste popolazioni un modello autorevole di uomo e di umanità. Infatti anche nei programmi per il personale dei PVS è rarissimo trovare corsi che si concentrino sull’importanza della promozione umana, perché e per chi apprendere?

Come in un organismo, quando una componente è deficitaria altre vanno incontro ad iperplasia. In questo caso vediamo come la ricerca biomedica ha fatto enormi passi avanti, la salute, è uno dei settori prominenti sul mercato. Ma nonostante ciò le nuove tecnologie, farmaci e macchinari più all’avanguardia rimangono a disposizione di un élite, e così è come avere un giardino dell’Eden chiuso, accessibile a pochi mentre intorno la maggior parte della popolazione si nutre di erbacce. La dichiarazione di Alma ATA (1978) lanciava come slogan “salute per tutti entro il 2000”, Primary Health Care, ovviamente questo obiettivo che sembrava già allora irraggiungibile non è stato raggiunto, ma anzi sembriamo andare verso l’esatto opposto. Così la saluta diventa il primo paradigma dell’ingiustizia sociale. C’è comunque da dire che l’UE ha intrapreso una strategia di lotta con le cosiddette Poverty Related Deseases (PRDs: AIDS, tubercolosi, malaria) cercando di finanziare economicamente le ricerche su metodi di guarigione per quelle malattie più diffuse dei PVS. Per affrontare il problema della salute nei PVS si è cercato soprattutto di trasferire conoscenze e competenze alla popolazione locale, cercando quindi oltre ad un modo per risolvere il problema salute, anche un modo per risolvere il gap professionalizzante esistente.

Ma, come già sottolineato, ci sono chiari segni della deriva puramente tecnicistica del trasferimento di tali conoscenze, ritornando sempre all’annosa questione: “perché e per chi mi do da fare?”. Dunque possiamo concludere che il primo passo non può essere soltanto operativo. Bisogna concentrarsi sul fine, e sulla ricerca di uno scopo che sta dopotutto dietro ad ogni grande scoperta e sviluppo di un popolo. L’etica può aiutarci anche nel direzionare gli investimenti economici, il problema è che molto spesso il dove orientare gli sforzi non è una decisione che può essere presa liberamente ma segue delle logiche di mercato, molto lontana dal porsi obiettivi umanitari. Per esempio è inutile spendere innumerevoli somme per un centro oncologico quando ci sono molti bambini che muoiono per mal nutrizione.

Non è tanto la formazione tecnologica del personale assegnato ai PVS quanto la loro formazione umanitaria che conta. Se scoppia un epidemia è inutile che un medico se ne stia nel suo ospedale con tutte le sue attrezzature e farmaci a disposizione aspettando che la gente vada da lui e non lui da loro. La Primary Health Care di cui si occupa la sanità pubblica si fa andando tra la gente e analizzando le necessità e i rischi che un certo popolo corre. Per quanto riguarda la formazione etica è importante che chi opera nel settore biomedico venga istruita da un punto di vista etico poiché è di importanza fondamentale per uno sviluppo corretto e sano dell’umanità.

Chiara Lagravinese – Roma

Voucher e lavoro nero

VOUCHER: LA “LEGALIZZAZIONE” DEL LAVORO NERO

Il Jobs Act ha fallito. Lo dicono i dati che giungono del Ministero del Lavoro: quello che era l’obiettivo della riforma, ovvero incentivare il numero di assunzioni a tempo indeterminato per far fronte al problema del precariato, si è rivelato uno dei più grandi flop della politica italiana degli ultimi tempi: paradossalmente, l’intervento del governo ha favorito il “lavoro accessorio”, (saltuario per intenderci), non riconducibile ad alcuna forma contrattuale e retribuito attraverso i “buoni lavoro”, più comunemente chiamati “voucher”; nati per combattere il lavoro nero e regolarizzare il lavoro occasionale, questi sono diventati sinonimo di “busta paga” per milioni di Italiani. “Dal 2008 al 2015 i percettori di voucher sono passati da 24mila a 1,4 milioni e nei primi cinque mesi del 2016 i contratti a tempo indeterminato – quello a tutele crescenti su cui puntava il Jobs Act – sono calati del 34% rispetto ai primi cinque mesi dell’anno precedente” (Linkiesta – dati Inps). Il valore economico di un voucher è di 10 euro nominali: 7,50 euro netti sono il compenso in favore del lavoratore per un’ora di prestazione lavorativa, mentre i restanti 2,50 euro garantiscono una copertura (minima) previdenziale e assicurativa. Attratti dai costi fiscali bassi e dalla soppressione dei diritti del lavoratore quali disoccupazione, malattia, tredicesima, tfr, i datori di lavoro stanno abusando di questo strumento. “Per gli esperti, il numero dei voucher venduti è eccessivamente alto rispetto al lavoro accessorio concretamente svolto in Italia, il che suggerisce che venga pagato con i voucher anche il lavoro che non è accessorio e che richiederebbe un inquadramento in altre categorie contrattuali: lavoro a termine, lavoro a tempo indeterminato, lavoro a tempo parziale determinato/indeterminato, e via dicendo”- scrive Tommaso Dilonardo in “Quale uso per il voucher lavoro”, Il Sole 24Ore. Un lavoratore può essere tranquillamente retribuito a voucher, nonostante la sua prestazione lavorativa rispetti gli orari e le mansioni di un normale dipendente: l’unica condizione da rispettare infatti, è che non vengano superate le soglie economiche previste dalla normativa (somme massime che un lavoratore occasionale può incassare e che un committente può spendere)… facile, se una parte del lavoro effettivo non viene conteggiata nel voucher emesso, ma retribuita a nero. Il voucher ha così preso il posto delle assunzioni, nonché legalizzato il lavoro nero. È un sistema che presenta molte falle e mal si concilia con la flessibilità richiesta dal mercato del lavoro, di cui vanno riviste le priorità!

Pasqua Peragine

La scienza della felicità

La radio è sempre viva. Radio3 Rai ancora di più con Fahrenheit, programma condotto da Loredana Lipperini che ultimamente ha parlato nientemeno che di felicità con Susanna Tamaro e Stefano Zamagni (questi emeriti per voi sconosciuti tra poco si riveleranno in tutte le proprie potenzialità).
La scrittrice racconta di come è stato difficile iniziare un’attività con il fine di creare nuovi posti di lavoro, soprattutto perché il problema non risiedeva nell’incompetenza o nell’inadeguatezza delle persone. Tutt’altro. Ciò che rendeva impossibile essere competitivi e addirittura affrontare le piccole incombenze quotidiane era il senso di impotenza difronte al “mostro” della burocrazia. Anche se certamente negli ultimi anni l’Italia ha dato segno di volersi rialzare dalla devastante crisi finanziaria del 2008, solamente le grandi industrie stanno registrando un reale progresso. Di fatto, le piccole aziende famigliari, una realtà molto diffusa in Italia, se non addirittura prevalente nel nostro territorio, vengono sommerse e paralizzate dai vincoli burocratici. Ogni piccola entità, con una limitata disponibilità di risorse, perde tempo cercando di capire, interpretare e uscire dalle valanghe burocratiche di un sistema malato. Sono, dunque, l’immobilismo, l’impotenza e i tecnicismi esagerati che ci conducono verso la via più diretta per l’infelicità.
L’economista Stefano Zamagni, invece, ha espresso la sua personale opinione riguardo al Rapporto Mondiale sulla Felicità, pubblicato per la prima volta nel 2012 e la cui quarta e ultima edizione è stata presentata lo scorso 20 marzo 2016 alla Banca d’Italia. In questo Rapporto l’Italia si troverebbe al cinquantesimo posto nella classifica dei paesi “felici”. Esperti mondiali di economia, psicologia, statistica, sanità, politica e non solo descrivono come i dati relativi al benessere possano aiutare a valutare efficacemente il progresso delle nazioni e classificare 156 paesi in base al loro livello di felicità. Zamagni, come il docente LUMSA Luigino Bruni, sostiene che l’Italia è la patria della felicità, perché mentre nel 1700 in Inghilterra l’economia nasceva come scienza della ricchezza, in Italia prendeva il nome di scienza della pubblica felicità. Nel mondo anglosassone felicità è sinonimo di utilità, come ben insegna il modello tayloristico del 1911. Il mondo latino, al contrario, ritrova la felicità nei rapporti interpersonali: non si può essere felici da soli, perché la felicità è una forma alta di bene comune.
Quando sono stati stabiliti internazionalmente i parametri per lo studio empirico della felicità, noi italiani non siamo riusciti a imporre i nostri indici e sono prevalsi quelli britannici. Termini validi, ma non sufficienti per descrivere esaustivamente i nostri valori. L’economista sostiene che misure prettamente legate al reddito, come quelle attualmente in uso, possono nascondere i fattori di estremo stress e ansia di competizione legati a una società che vive per produrre. Inoltre, la vita all’interno delle scuole e le università non si basa più sulla cooperazione, ma su una competizione sfrenata, un individualismo totale. Certamente la produttività aumenta, ma di pari passo la felicità diminuisce. Stefano Zamagni rimane, però, ottimista e crede che la gente stia cominciando a distinguere l’utilità dalla felicità.
La mancanza di quest’ultima ostacola, inoltre, la creatività e dunque il processo d’innovazione, la componente essenziale del vantaggio competitivo tra le aziende. Proprio per questo, gli americani si sono già dati da fare, ma non solo loro. Il nuovo welfare aziendale è un programma che prevede un orario lavorativo compatibile con la vita familiare; è già presente in un discreto numero di imprese italiane e punta a promuovere una definizione di felicità non più basata sul singolo, ma sulla presa coscienza dell’importanza della comunità.
Mai quanto oggi è indispensabile (ri)trovare la felicità e la fiducia in una comunità, che è tenuta e deve impegnarsi a promuovere il bene comune e a lottare contro l’egoismo, l’odio, la diffidenza e la violenza in ogni sua forma. Sulla scia di Tamaro e Zamagni in questo anno della misericordia forse dobbiamo aggiungere una nuova opera corporale e spirituale coltivare e realizzare la felicità.

Giorgia Lombardini

Salva-banche e “bail in”: facciamo il punto!

Sono a sfondo finanziario le prime pagine dei quotidiani 2016, i cui titoli segnalano l’entrata in vigore delle nuove norme europee relative al cosiddetto “bail in”. “Bail in” (letteralmente salvataggio interno) indica quel provvedimento atto a disciplinare criteri e procedure in materia di fallimento bancario: la nuova direttiva impone che la crisi degli istituti di credito non sia più un “affare di Stato” e i primi a pagare siano gli azionisti. Un provvedimento che non coglie il pubblico impreparato, dato il clamore delle vicende che il mese scorso hanno visto sull’orlo del crac quattro istituti di credito italiani: 15mila, perlopiù piccoli risparmiatori, le persone coinvolte nell’azzeramento dei titoli subordinati (è quanto imposto dal decreto “Salva-Banche”, per evitarne il fallimento).
I media, nell’ultimo mese, non hanno parlato d’altro: ma cosa sono le obbligazioni subordinate? Si tratta dei titoli di debito che permettono a chi li possiede di diventare creditore dell’istituto emittente, incassando interessi periodici. E fin qui, tutto chiaro. Il problema sorge in caso di problemi finanziari dell’emittente, per cui il rimborso avviene successivamente a quello di altri soggetti (dipendenti, correntisti e possessori di altri titoli), quindi non è detto che ci sia. Pare che i risparmiatori in protesta, non ne fossero al corrente.
“Il problema principale, spiega Giuseppe D’Orta di Aduc, «è che non è stato mai spiegato cosa fosse la subordinazione». Ovvero, venivano venduti come prodotti “sicuri” quando sicuri non lo erano proprio” (Paolucci, La Stampa). “Delle innumerevoli e meritorie cose che si sono potute leggere sui vari aspetti del crac e del salvataggio, dei controlli mancati, dei conflitti d’interesse e degli insider trading presunti, ce n’è una che non riesco a togliermi dalla testa, l’intervista al funzionario della banca che curava i rapporti con Luigino D’Angelo, il pensionato suicida diventato il simbolo tragico di questa epopea. Nero su bianco e non smentita, lì c’è tutta la morale della favola: ebbene sì, ammette il funzionario, i risparmiatori li abbiamo programmaticamente raggirati, perché a nostra volta eravamo ricattati dai vertici della banca; o accettavamo di farlo o rischiavamo il licenziamento, e viceversa, più riuscivamo a raggirarne e più venivamo premiati. C’è bisogno di altre prove per capire com’è andata e come va?” scrive la giornalista Ida Dominijanni (“Banche, credito e colpa”, Internazionale).
Lacune e dubbi in merito alla trasparenza dei dirigenti bancari sulla vendita dei titoli in questione, sembrano assumere un ruolo determinante nell’indagine ai colpevoli di questo disastro. Dunque, appare scontato, ma forse non lo è, dire che tutti (banche, autorità, e media) debbano impegnarsi per fornire un’informazione limpida e corretta ai risparmiatori, come primo passo per evitare l’insorgere di situazioni simili. A tutto ciò si aggiunga: “Responsabilizzare il risparmiatore! L’imperativo categorico ripetuto dall’alto degli amboni più diversi da economisti ed esperti di varia natura, che sembra assumere il tratto di un mantra destinato ad accompagnarci in questo inizio di anno. Si auspica un’educazione alla finanza da impartire ai ragazzi fin dalla scuola dell’obbligo per poter liberare preventivamente financo il cittadino qualunque dal rischio di finire in qualche trabocchetto finanziario” (Pietro Cafaro, Avvenire).
Nel frattempo, il Governo italiano lavora ai possibili interventi per aiutare i clienti delle quattro banche salvate dal decreto, i quali hanno visto azzerare il proprio capitale nel giro di poche ore: si pensa a un fondo di solidarietà da 100 milioni di euro (finanziato in parte dallo Stato e in parte dalle banche), gestito da un arbitrato ad hoc, con il compito di valutare caso per caso le operazioni di risarcimento da mettere in atto. La speranza è di arrivare a una modifica del decreto che dia una qualche aspettativa di recupero ai risparmiatori coinvolti, poiché siamo di fronte a una crisi di fiducia nel sistema bancario italiano che è ai minimi storici e potrebbe rivelarsi una crepa, nello scenario economico e politico, ben più profonda di quanto non appaia.

Pasqua Peragine

Un’economia solidale

Questi anni di crisi hanno evidenziato i limiti del modello economico vigente e reso necessario un intervento radicale all’interno dell’esperienza socio-economica dei nostri tempi. L’idea di economia può essere osservata attraverso la lente di mille sfaccettature diverse, ma quella che forse più la riassume la definirebbe come la scienza dei rapporti tra soggetti che diventano in essa economici, cioè gli individui e le loro attività. Pare purtroppo che il cinismo della società moderna abbia trasformato i soggetti in oggetti, riducendo l’economia a pura contabilità e distruggendo le risorse umane; in una realtà in cui l’interesse personale sovrasta l’interesse della collettività, della società non rimane che il mercato, che pur fatica a funzionare.

Adam Smith diceva: “la società non può sussistere fra coloro che sono sempre disposti a danneggiarsi e a farsi torto l’uno con l’altro”; sfogliare i libri di un passato non più tanto recente forse non è una cattiva idea: sembra che abbiamo dimenticato, o peggio, distorto il pensiero che è alla base della scienza economica. Certo, la teoria del libero mercato va rivista, cosi come anche il ruolo dei governi al suo interno. In una società come quella di oggi in cui politica ed economia si intrecciano in una spirale inscindibile, il governo sembra essere diventato il problema, più che la soluzione alla crisi. In un mondo dominato da materialismo e individualismo non c’è spazio per una comunità di soggetti che interagiscano tra loro in armonia, senza che i potenti tessano a loro piacimento la trama della storia. “Senza volerlo, gli economisti hanno offerto una giustificazione a questa mancanza di responsabilità morale. Una lettura superficiale dei suoi scritti ha instillato l’idea che Adam Smith avesse escluso ogni scrupolo morale da parte di chi operava sui mercati. Dopo tutto, se la ricerca dell’interesse personale conduce, come una mano invisibile, al benessere della società, tutto quello che bisogna fare è assicurarsi di star perseguendo al meglio l’interesse personale. Ed è proprio quello che sembrano aver fatto gli operatori del settore finanziario. Ma ovviamente, la ricerca dell’interesse personale, l’ingordigia, non ha condotto al benessere della società” – per citare l’economista Joseph Stiglitz (v. “Freefall”), premio Nobel per l’economia nel 2001. L’individualismo esasperato ha finito col minare il “lubrificante che fa funzionare la società”: la fiducia.

“Gli storici dell’economia – continua Stiglitz – hanno sottolineato il ruolo della fiducia nello sviluppo del commercio e delle attività bancarie. Se certe comunità si sono sviluppate a livello globale nei settori commerciale e finanziario è proprio perché i suoi membri avevano fiducia gli uni negli altri. La grande lezione di questa crisi è che, nonostante tutti i cambiamenti degli ultimi secoli, il nostro complesso settore finanziario continua a fondarsi sulla fiducia: quando viene meno, il sistema finanziario si blocca”. Per riacquistare la fiducia reciproca bisognerebbe innanzitutto tornare a essere comunità, cominciare a capire che il nostro interesse è anche quello degli altri: chiamasi solidarietà! Potente arma in grado di creare suolo fertile per la condivisione di ideali e valori, in un mondo che attorno ad essi sta solo facendo terra bruciata; come il miraggio di un’oasi nel deserto, nutro la speranza che un’economia solidale possa fiorire in mezzo a una tale distesa di aridità, che da troppo tempo attende una stagione delle piogge.

Pasqua Peragine

Inflazione: arma a doppio taglio

Ultimamente sta molto a cuore ai politici e agli economisti (quelli che operano a livello europeo, in verità) il tema dell’inflazione (o, meglio, della deflazione, visto il periodo che si sta attraversando!), attendendo che si realizzi l’obiettivo fissato di un’inflazione pari al 2% annuo da parte della Banca Centrale Europea (da ora “BCE”).

L’inflazione, in poche e, economicamente parlando, “volgari” parole, è la variazione percentuale del livello generale dei prezzi nell’unità di tempo (solitamente annuale o, talvolta, trimestrale).

A rigor di logica, se per ogni euro che si spende, dovesse corrispondere un euro che si guadagna, all’aumento generale dei prezzi, non dovrebbero esserci troppi problemi, poiché, all’aumento generale dei prezzi, dovrebbe anche corrispondere un aumento generale dei redditi; questo fenomeno è abbastanza percepibile per i cosiddetti “imprenditori”, i quali guadagnano in base alla quantità che vendono e a “a quanto”: se, quindi, il livello generale dei prezzi si alza, possiamo presumere che anche il loro redditi, “a nominale”, si alzano. Ma cosa significano “nominale” e “reale”? Per “valore nominale”, in questo caso della moneta, intendiamo il valore teorico, cartaceo, ciò che “in teoria la moneta vale”; se, ad esempio, siamo abituati a comprare, con 1€, un kg di pane, il “valore nominale di 1€ è un kg di pane: se però durante l’anno vi è un tasso di inflazione pari al 3%, il valore nominale rimane 1€, mentre il “valore reale” diventa 1,03€, che sarà il nuovo prezzo per un kg di pane. Per quanto riguarda, invece, il reddito dei cosiddetti “dipendenti”, molti di loro hanno un contratto di lavoro indicizzato al tasso di inflazione (in tal caso, la loro retribuzione cresce di pari passo con il tasso di inflazione), soprattutto per i contratti “a tempo indeterminato”. Ma quindi l’inflazione non è un problema? Non proprio; poiché ad aumentare sono tutti i prezzi (si parla a tal proposito di “aumento generale dei prezzi”), la moneta perde valore.

E reddito cosa significa? Da una parte è ciò che un individuo percepisce in forma monetaria attraverso il proprio lavoro, dall’altra, la quota di reddito che l’individuo decide di non spendere e, quindi, di risparmiare (è pur sempre il suo reddito!). Se un individuo decide di detenere come risparmio sul proprio conto corrente 100 €, percependo dalla banca un “guadagno” (rappresentato dagli interessi a favore in conto corrente) annuo sulla propria giacenza dell’1,5%, a fine anno vedrebbe il proprio risparmio passare da 100 euro a 101,5 €.

Se però durante quello stesso anno il tasso di inflazione è del 2%? Per capire affidiamoci a un semplice passaggio algebrico: 100 – 2 + 1,5 = 99,5 €; in sostanza, come si è dimostrato, il risparmiatore ha perso denaro, certo non tangibilmente; a termine nominale ha in conto corrente 101,5 €, ma in termini reali, ossia sottraendo il tasso di inflazione, ha perso potere d’acquisto: ha perso denaro.

Ma “da cosa è generata l’inflazione”?

Tra le diverse cause, quella più studiata e riscontrabile nella storia dell’economia è l’aumento di quantità di moneta all’interno di un’economia.

Secondo tale teoria, infatti, l’inflazione è generata da un aumento eccessivo della quantità di moneta rispetto all’aumento della produzione di merci. La moneta immessa nel sistema economico, finendo nelle mani degli individui, prima o poi verrà da costoro spesa nell’acquisto di merci. Se la produzione di queste non può essere espansa perché il sistema economico è in una situazione di piena occupazione (cioè gli impianti e i macchinari sono pienamente utilizzati e non vi sono lavoratori disoccupati), si avrà una domanda di merci superiore all’offerta e un conseguente aumento dei prezzi delle stesse, cioè del livello generale dei prezzi.

L’inflazione può anche essere definita una “lama a doppio taglio”, poiché una moderata inflazione, che cammina di pari passo con l’espansione dell’economia (grazie alla domanda di beni e servizi che supera l’offerta e, di conseguenza, fa alzare moderatamente il livello generale dei prezzi) è considerata positivamente e contribuisce al buon funzionamento di un’economia; è stato, a questo proposito, utilizzato l’aggettivo “moderata” (inflazione): un’inflazione eccessiva può, infatti, portare a danni irreparabili.

Ricorderete tutti cosa avvenne durante la lontana seconda guerra mondiale in Germania: Hitler, che versava in gravi difficoltà finanziare, decise di sovvenzionare la propria guerra stampando la moneta necessaria. In quella sede, si ebbe una conferma tangibile che immettendo troppa moneta in un mercato si genera effettivamente troppa inflazione, in troppo poco tempo: il prezzo di una birra raddoppiava nel tempo in cui questa veniva bevuta (motivo per cui i furbi tedeschi ne acquistavano subito due).

Detto ciò, sembra quasi che il responsabile della BCE stenti a stampare e immettere moneta nel mercato per paura di raggiungere un’iperinflazione simile a quella tedesca della seconda guerra mondiale, generando però, di contro, una progressiva deflazione, che in termini reali vuol dire recessione dell’economia, depressione e crisi.

La diversificazione

La diversità in tutte le sue forme è il requisito fondamentale alla base del progresso. L’esperienza e lo studio hanno reso evidente quanto la sua applicazione favorisca lo sviluppo in svariati e molteplici campi. In biologia viene definita differenziamento e indica la maturazione di una cellula da una forma primitiva a una forma complessa. In petrografia la differenziazione magmatica rappresenta una variazione del magma tale da originare rocce eruttive di diverso genere.

In ambito finanziario, invece, tale concetto viene espresso con il termine diversification e spiega come investire in una collezione di assets (portfolio e/o beni), i cui ritorni non sempre muovono nella stessa direzione, implichi una diminuzione del rischio complessivo rispetto ad un investimento su un singolo asset (bene). Tra le varie funzioni degli intermediari finanziari vi è quella di promuovere il risk sharing (la condivisione del rischio) per aiutare ogni individuo a diversificare e dunque diminuire la quantità di rischio a cui viene esposto. Un chiaro esempio fondato sul concetto di diversificazione è il mutual fund (fondo comune): i piccoli investitori che comprano azioni individualmente sono limitati nell’acquisizione di sufficienti titoli in un numero adeguato di aziende per poter trarne benefici, il mutual fund dunque acquisisce fondi vendendo titoli a molti individui e usa il ricavato per comprare portfolio diversificati di azioni e bond. Inoltre, il mutual fund rappresenta una via low-cost per la diversificazione in titoli stranieri.

Un altro esempio di come la diversificazione sia uno strumento inalienabile per l’efficienza economica si costruisce nel contrariare il concetto di “grande è meglio”: aumentare le dimensioni di poche banche e eliminarne le più piccole, creando di fatto un’oligarchia a discapito della concorrenza, significherebbe distruggere l’equilibrio sul quale si erge un’economia di libero mercato. Basti ricordare che una delle principali cause della recente crisi finanziaria è da ricollegare all’eccessiva fiducia verso quelle poche banche “troppo grandi per fallire” e troppo potenti per essere regolate. La crescente diversificazione del potere, e dunque del portfolio dei debiti bancari e dei relativi rischi, è fondamentale per la resistenza del sistema finanziario, per la sua capacità di resistere alle crisi e di ridurne le probabilità.

La diversità non è necessariamente causa di impoverimento e divisione, ma opportunità di arricchimento culturale, sociale ed economico.

Il concetto di diversificazione e la conseguente specializzazione che ne deriva, come tutela e sviluppo di un “(eco)sistema”, persiste dunque in ogni ambito ed è brevemente riassunto da una vecchia massima che recita: “You shouldn’t put all your eggs in one basket”.

Giorgia Lombardini

La questione meridionale

1861-2015. Un secolo e mezzo di storia (e poco più) non è bastato ad archiviare la fantomatica “questione meridionale” che, dagli albori dell’Unità d’Italia, è sempre stata al centro del dibattito storico e politico, fino ai giorni nostri. Certamente Garibaldi non pensò che tutti i problemi dell’Italia si sarebbero risolti con un gesto eroico, ma nemmeno immaginava che il gap economico tra Nord e Sud della penisola sarebbe, di lì a poco, divenuto una voragine.

Il ritardo del Mezzogiorno, sia chiaro, non è frutto della casualità, ma di precise causalità; gli errori della classe politica dirigente giocarono (e giocano ancora) un ruolo determinante: quei settori dell’economia caratteristici del meridione non furono salvaguardati e i finanziamenti statali mai si mossero in direzione-Sud perché le piccole aziende a conduzione familiare non sono mai state considerate una risorsa per l’economia nazionale, a differenza della grandi industrie del Nord. Pertanto, si è assistito a uno sviluppo disomogeneo dell’Italia, che ha finito col dipingere il Sud come fardello dell’economia, più che come potenziale risorsa.

Secondo l’analisi del giornalista Andrea Atzori, non si è compreso che “per il Sud, la vocazione non era quella della grande produzione industriale, ma quella dell’eccellenza, nella ricerca e applicazione scientifica e tecnologica”; a oggi, in virtù del fatto che “la sfida nei confronti dei grandi giganti dell’economia, se non si vuole rimanere emarginati per sempre, passa dalla valorizzazione delle risorse umane”, il Sud sembra addirittura essere avvantaggiato rispetto al Nord. Le popolazioni meridionali sono ricche di valori che non si possono dimenticare: un’etica del lavoro intesa come “fatica”, sacrificio, una concezione della famiglia quale centro di affetti, di fecondità e di trasmissione di valori nonché di una religiosità popolare considerata importante veicolo di formazione (cfr. Chiesa Italiana e Mezzogiorno).

Dunque, la soluzione alla questione meridionale è davvero così difficile? Difficile è pensare che l’unica risposta al problema sia dover modificare l’assetto strutturale della Repubblica – questa la proposta avanzata da alcune forze politiche: “non saranno le nuove forme di Stato, in senso federalista, inventate dai giuristi, che cambieranno il destino del Paese, anzi, serviranno solo a lasciare i problemi irrisolti, e ad aggravarli, continuando ad aumentare il solco che separa le due parti di esso”, sostiene Atzori. La risposta è semplice e risiede nel Mezzogiorno stesso, fonte di risorse mai valorizzate.

La questione meridionale resta aperta ma non per questo irrisolvibile: occorre elaborare una politica economica nazionale che miri al superamento dell’arretratezza del Sud come punto di partenza per la crescita unitaria del Paese; e tutto ciò sarà possibile solo se pregiudizi e presunzioni di superiorità, che sono la causa principale delle tensioni tra Nord e Sud, saranno superati per far spazio a una mentalità più aperta, tesa a creare sinergia tra le due realtà, così come la Chiesa sostenne nel non lontano 1989: “il Paese non crescerà se non insieme”.

Pasqua Peragine

Chi più ne ha, più ne metta

Molto spesso si legge sui giornali e si sente in televisione di valori percentuali in crescita o in diminuzione; di PIL in crescita o di PIL in diminuzione e questi sono i valori in base ai quali si dovrebbe essere in grado di definire la ricchezza o la povertà di un paese. Certo, questo è indubbiamente vero: più un paese produce, più evidentemente guadagna, più la popolazione sta bene. È però necessario stare attenti a rapportare il valore del PIL al numero di abitanti presenti in quel paese: l’India ha certamente un PIL maggiore rispetto a quello del Lussemburgo, eppure siamo tutti d’accordo che sia più ricca la popolazione del Lussemburgo rispetto a quella indiana; è quindi necessario, a questo punto, affidarci a un parametro un po’ più preciso in questo senso: il PIL pro capite. Così capiamo effettivamente tra quante persone va suddiviso questo “guadagno” rappresentato dal PIL.
Ma è davvero così? Davvero riusciamo a capire quanto guadagna una persona in un paese? Be’, riusciamo sicuramente a capire quanto guadagna in media. Secondo questa analisi, infatti, converrebbe andare in massa in Qatar, un paese che negli ultimi anni ha sbaragliato tutti gli altri in quanto a guadagno per persona! Il Qatar, infatti, vanta il PIL pro capite più alto del mondo, ma è anche vero che in Qatar sono presenti delle condizioni lavorative pessime, che chiamano “la schiavitù del ventunesimo secolo” (una collaboratrice domestica guadagna circa 200 dollari al mese, senza avere giorni liberi). In altre parole, se io ho 100 polli e tu zero, in media abbiamo 50 polli a testa: ma ciò non cambia il fatto che io ne ho 100 e tu ne hai 0. Con questa affermazione si apre un discorso molto complicato, delicato ovvero molto importante: si apre il tema dell’“allocazione del reddito”.
In qualsiasi facoltà di economia di qualsiasi università si studia la politica economia, quella materia che, detto in maniera molto riduttiva, modifica l’andamento dell’economia, in modo coercitivo e non, per raggiungere determinati obiettivi, quali la crescita del PIL, la stabilizzazione del livello generale dei prezzi eccetera. Da ciò si può intuire che la parola d’ordine sia “efficienza”: si parla infatti di “allocazione efficiente” del reddito”. Tuttavia, in nessuna facoltà di economia si studia “politica economica morale o sociale” e, quindi, non si parla nemmeno di “allocazione equa” delle risorse”. Si parla solo di efficienza, di ciò che conviene, di ciò che massimizza i risultati, ma mai di ciò che è giusto, etico, morale.
Il caso del Qatar di cui sopra è emblematico: la sua ricchezza deriva infatti dalla presenza di giacimenti di petrolio e gas naturale che, ovviamente, appartengono a grosse società che ne traggono i benefici maggiori; ma perché non appartengono a tutti? Dopotutto, lo stato è dei propri abitanti, a rigor di logica. Ma, a quanto pare, “a rigor di fatti”, lo stato è solo di pochi abitanti.
Per dirla con Hobbes potremmo definire questo fenomeno con la famosa frase “homo homini lupus” (l’uomo è un lupo per l’uomo), secondo la quale l’agire umano sarebbe spinto soltanto dall’istinto di sopravvivenza e da quello di sopraffazione, negando ogni possibilità di avvicinamento tra uomini in virtù di amore reciproco.
Tutto ciò è però riduttivo, triste e non del tutto vero: non si spiegherebbe altrimenti la dimensione affettiva della famiglia, né gesti eroici di personaggi del calibro di Salvo D’Acquisto, ventiduenne vice brigadiere dei Carabinieri che durante la II guerra mondiale si sacrificò per salvare la vita a 22 persone ingiustamente condannate a morte dalle truppe delle SS naziste. Ciò prova il fatto che una società umana improntata sull’attenzione verso il prossimo è senz’altro possibile; non prova tutta via che sia questo l’atteggiamento che muove l’agire dei più.
Questo egoismo che purtroppo domina la maggior parte degli abitanti del nostro mondo (è bello pensare al mondo come un’unica cosa) è il principale oggetto di studio del Nobel per l’economia Amartya Sen, che definisce questo atteggiamento egoistico come “pensiero calcolante”, ossia la massimizzazione del proprio interesse; Sen suggerisce di affiancare al “pensiero calcolante” il “pensiero pensante”, ossia quello capace di cogliere il senso, la direzione complessiva dell’agire umano.
La conclusione di queste mie riflessioni va verso la spiegazione del titolo, che vuole essere la voce di un mondo che subisce ingiustizie e soprusi; un mondo in cui il più debole viene lasciato indietro; un mondo in cui chi più ha, più avrà, ma che dovrebbe essere un mondo in cui chi più ha, più dovrebbe dare.

Tommaso Carretta
Milano