Maggio o dicembre?

È il 6 maggio o il 6 dicembre?
Come ogni mattina anche oggi mi sono alzato per spegnere quella dannata sveglia sul cellulare, che a malincuore mi costringe sempre a scendere dal letto per far placare quel rumore a dir poco insopportabile. Ho sbloccato la schermata, ho letto i messaggi arrivati nella notte, ho aperto Instagram e in prima pagina è apparsa una foto, tutta bianca, postata da roccaraso.net, una pagina che durante l’inverno informa i turisti, sciatori, riguardo la situazione degli impianti dell’Aremogna. Mi si sono sgranati gli occhi alla vista del comprensorio tutto innevato e mi son chiesto: “Ma è il 6 maggio o il 6 dicembre?”
Ebbene sì, oggi è il 6 maggio 2019 e da quando sono nato non ho mai visto una cosa simile. Ma perché succede tutto questo?
Oggi viviamo una situazione di squilibrio ambientale, la quale sta portando via le stagioni da noi considerate di passaggio, quelle forse più belle e amate da tanti poeti: l’autunno e la primavera. Tutto ciò è causato da una cosa più importante di tutte le altre, ovvero l’impronta sconfinata che l’uomo ha impresso su questo meraviglioso pianeta. Non ce ne rendiamo più conto ormai, ma quella di oggi è forse la segnalazione più esplicita che la terra ci sta dando; ci sta invitando a cambiare rotta: a ridurre gli sprechi, a inquinare il meno possibile e a rispettare la natura. Non ci vuole tanto, basta solo un po’ di buon senso e di civiltà, che tanto manca a queste basse latitudini, per non condurci a disastri ambientali che coinvolgono spesso la vita di noi cittadini stessi. Come se a volte, la natura inconsciamente volesse punirci per vendicarsi dal male che le facciamo.
Poche settimane fa era Pasqua ed il giorno di Pasquetta proprio nella mia città, Napoli si è assistito a scene di inciviltà inaudite: ai piedi del vulcano Vesuvio proprio nel giorno di Pasquetta decine e decine di gitanti, criminali, si sono addentrati nel Parco Nazionale e hanno lasciato il deliro: tavoli rovesciati, sedie distrutte, barbecue, addirittura hanno abbandonato un motorino. Insomma, una discarica a cielo aperto, e nessuno fa niente… Magari andranno gli enti a pulire, ma il prossimo anno si ripresenterà lo stesso problema, perché è troppo facile lamentarci dei governanti che non fanno il proprio dovere. Ma noi cittadini non siamo da meno: se la carta non la butti per terra, ma nel cestino non ci sarà bisogno dello spazzino che te le raccoglie. E qui il punto cruciale; è l’essere umano di qualsiasi etnia che deve accorgersi e comprendere fin in fondo che per il bene di tutti bisogna rispettare l’ambiente, il nostro mondo.
Le chiavi della svolta sono in mano a noi giovani che ci stiamo impegnando, chi più chi meno, per affrontare questo grande problema che tocca tutti noi. In Svezia per esempio una bambina di nome Greta ha dato inizio a un ciclo di manifestazioni del venerdì, proprio per sensibilizzare il mondo e i potenti di questo pianeta, a favore di un’economia “green”, pulita.
Nel mio piccolo ho sempre cercato di essere un buon cittadino. Da anni vado in bicicletta e ho attraversato paesi, città, ma soprattutto montagne; le salite quelle mitiche per il ciclismo. La bici mi fa vivere con i miei occhi lo spettacolo della natura; lontano dalle industrie e dai centri urbani, disperso tra le montagne, ho ritrovato me stesso, la mia essenza di uomo. Ho visto dal vivo ambienti che tutti possono vedere su National Geographic, ma ho provato emozioni che non riesco neanche a spiegare. In salita sentivo il cuore battermi nelle orecchie, e le gambe bruciare, ma la voglia di arrivare in cima per godermi il panorama, mi ha spinto sempre più in alto.
E ora il mio appello a voi lettori.
Siate rispettosi di ciò che la natura vi ha donato, per permettere ai nostri figli, nipoti e 10, 100 generazioni future di vivere a in un mondo bello come è ancor oggi. E un ultimo consiglio: dimenticate qualche volta, la macchina, il bus e la moto ma salite su quel giocattolo con due ruote e due pedali; non ve ne pentirete!

Vincenzo Primavera, Napoli

Il sole intorno cui girare

In questo tempo pasquale, sollecitato da alcuni spunti, mi sono fermato a riflettere sull’importanza di avere un centro della vita, una sorta di ago della bilancia che fa si che tutti noi e i nostri “ego” riescano a stare in equilibrio e non cadere senza più riuscire a rialzarsi.
Credo che non esista solo un “sole” intorno al quale girino tutti i pianeti che compongono la nostra vita, ma piuttosto un insieme di soli, che rappresentano ciò che più ci sta a cuore (e a mente); e non tutti i nostri soli sono della stessa grandezza e della stessa importanza, e questi non sono statici ma assolutamente dinamici; sono credenze, valori, persone o cose senza le quali l’universo del nostro io non può essere tenuto insieme.
Ognuno di noi crescendo, facendo esperienze e scoprendo le proprie caratteristiche, deve trovare la propria vocazione, che può essere più di una, può essere scoperta in giovinezza o solo dopo lunghi anni di riflessione, che può essere tanto semplice quanto complicata, tanto concreta quanto astratta.
Ma l’importante è averla o essere in ricerca di essa in quanto questa spinta verso l’esplorazione del nostro io ci da un senso, da un significato a quello che siamo e a quello che vogliamo essere.
Ci permette di non perderci nella confusione, nell’indeterminatezza e nell’incertezza della nostra vita ma saper stare a galla e poi un giorno spiccare il volo.
Ognuno ha la sua missione, chi vuole salvare il mondo cercando di mettere fine alle guerre, chi combattendo la fame, chi prendendosi cura dei malati, dei bambini o degli anziani, chi semplicemente, ma non troppo, donando un sorriso. Non è importante cosa si faccia, ma è importante cosa sta dietro al gesto, ciò che lo comanda, cosa gli dà il via.
Un gesto senza alcun significato è un gesto vuoto, frivolo che non porta a niente e si esaurisce entro se stesso; cosi come le persone che compiono gesti senza significato, senza avere un centro, senza avere una vocazione. Vivere senza significato è come camminare al buio, senza sapere dove tu stia andando, senza avere una meta
Avere un centro, anima la nostra vita, la colora, fa si che siamo guidati da una spinta interiore che ci porta verso la propria realizzazione, verso un noi migliore.
Avere un centro significa avere un rifugio, una guida, un filo di Arianna che ci aiuta a destreggiarsi fra le difficoltà della nostra vita e ci fa mantenere il timone della nostra nave verso la meta che ci poniamo, condotti dalla nostra vocazione dritti verso gli scopi della nostra vita.

Samuele G. Genova

Nativi digitali e salvezza del pianeta

Clima. Il bello dei «nativi digitali» che vogliono salvare il pianeta
Adriano Fabris, docente di Etica della Comunicazione all’UniPisa
Avvenire, sabato 20 aprile 2019

Sono sempre di più in Italia, in Europa e nel mondo i ragazzi che manifestano per ricordare ai governanti dei rispettivi Paesi, ma anche a tutti noi, che non c’è più molto tempo se vogliamo intervenire davvero sui cambiamenti climatici, invertendone la tendenza. Bisogna fare qualcosa – dicono – e velocemente. Bisogna agire subito, se si vuol lasciare alle future generazioni un ambiente che possa essere abitato allo stesso modo in cui lo stiamo abitando noi. È anche questa una questione di giustizia: di giustizia intergenerazionale. Questi ragazzi sono parte in causa e perciò sono legittimati a intervenire. Ma non possono farsi carico d’interventi efficaci perché non sono loro a poter prendere le decisioni di fondo. Davanti a tali questioni si sentono spesso impotenti. Per questo si fanno sentire. Per questo si rivolgono a noi adulti.
Ma chi sono i ragazzi che manifestano il venerdì? Dobbiamo stare attenti a non riportare le loro azioni agli schemi e alle categorie che siamo abituati ad applicare. Sappiamo bene che è stata Greta Thunberg a ispirare il Global Strike for Future, a rilanciare il tema dell’emergenza ambientale con la sua determinazione e cocciutaggine. Ma a ben vedere non è necessario individuare a tutti i costi un leader, un personaggio da seguire – o da insultare – per far contenti i media, per metterlo sugli altari e poi, subito dopo, trascinarlo nella polvere. È inutile, ad esempio, cercare la “Greta milanese”. I ragazzi non hanno un leader perché non ne hanno bisogno. È la rete a fare da collegamento, non una persona. È un tema condiviso ciò che spinge a partecipare, non una parola d’ordine ripetuta e accolta passivamente. Basta guardare i cartelli portati alle manifestazioni, ironici e pungenti. C’è infatti un altro senso di democrazia che qui s’annuncia: una democrazia che diffida di ogni organizzazione gerarchica, di ogni pretesa d’autorità. Il leaderismo e il populismo, ormai, riguardano solo i vecchi.
Bisogna poi evitare di considerare questi ragazzi come un tutto omogeneo. Non lo sono. Nelle strade si trovano ragazze e ragazzi, con le loro sensibilità diverse e le loro differenti fragilità. Adolescenti e persone un poco più grandi. Vi è chi – ed è la maggioranza – manifesta pacificamente. Vi è qualcun altro che vuole solo saltare la scuola, o fare confusione. Non c’è da stupirsi: accade in tutte le buone famiglie. In realtà, però, questi ragazzi noi non li conosciamo per davvero. Sono, o potrebbero essere, i nostri figli, i nostri nipoti, ma non li conosciamo. Non c’è da allarmarsi, però. È sempre accaduto così. È accaduto anche quando noi avevamo la loro età. Facevamo gruppo con i nostri coetanei, eravamo impermeabili agli occhi dei nostri genitori. Questo era ciò che preoccupava questi ultimi allora; questo è ciò che allarma noi oggi.
Ma in realtà, per capire chi sono i ragazzi scesi in piazza, alcuni indizi già li abbiamo. Sono una generazione abituata a interagire con il mondo e a relazionarsi fra loro e con noi soprattutto attraverso alcuni dispositivi di comunicazione. Non si tratta di “nativi” o di “nati” digitali, comunque vogliamo tradurre la fortunata espressione coniata da Mark Prensky. Essa infatti sembra far riferimento a un’ulteriore attitudine che i nostri ragazzi hanno sviluppato rispetto a noi, esseri vissuti in un’epoca soprattutto televisiva. Questa capacità, tuttavia, è spesso sopravvalutata. Fra i “nativi digitali” vi è certamente chi vive con lo smartphone sempre acceso, e da esso dipende, ma poi non sa gestire un programma Word o non conosce come funziona il sistema tutor nelle autostrade.
In parte, però, chi sono questi ragazzi già lo sappiamo. Siamo noi, infatti, ad averli educati, e non sempre nella maniera più saggia. Li abbiamo protetti, coccolati. Ci siamo posti al loro servizio permanentemente, dando l’idea che il mondo fosse fatto solo per loro. Abbiamo scelto di fare pochi figli per poterli seguire in tutto e per tutto. Li abbiamo posti al centro dell’attenzione. E, così facendo, ci siamo messi nelle condizioni di non poter insegnare loro nulla, o nulla che fosse per loro accettabile. Abbiamo confuso l’autorità cieca, a cui bisogna soltanto ubbidire e che giustamente andava superata, con quell’autorevolezza che, sola, permette di trasmettere valori credibili: e le abbiamo abolite entrambe.
In una parola, i nostri ragazzi li abbiamo in molti casi lasciati a loro stessi. E mentre per noi la baby sitter è stata la televisione, per loro sono stati l’iPad e lo smartphone. Che, per di più, non abbiamo insegnato loro a usare correttamente, così come a noi nessuno ha insegnato a decodificare le immagini trasmesse sullo schermo. Così altri valori sono stati recepiti: quelli veicolati dalle piattaforme. Le piattaforme, lo dice la parola stessa, tutto appiattiscono, tutto mettono sullo stesso piano, tutto rendono omologato. Ci si può rivolgere con il “tu” a tutti, si può manifestare sempre e comunque la propria opinione, non importa che competenza uno abbia su un determinato argomento, semplicemente perché si possiede l’accesso a una rete sociale.
Nel contempo, poi, un’altra etica si è ormai imposta nella mentalità comune: quella per cui qualche cosa vale di più quanto più è condivisa. E poi, in questo contesto, nulla in realtà è propriamente mio. Ogni cosa che è accessibile in rete possiamo farla nostra, possiamo scaricarla, possiamo copiarla. Ciò non fa problema, nella misura in cui noi stessi, senza problemi e senza paure, condividiamo le nostre immagini, i nostri dati, la nostra vita anche con chi se ne vuole solamente appropriare. Nella rete, infatti, tutto è pubblico.
Insieme, però, l’uso delle tecnologie della comunicazione ha creato nuove forme di socialità, nuovi legami. E ciò è davvero la novità del nostro tempo. Non solo ha potenziato i legami già presenti, non solo, in molti casi, ha sostituito vecchi modelli di relazione con nuovi collegamenti. Soprattutto ha fatto sì che si potessero vivere tutti insieme nuove emozioni e nuovi problemi. I nostri ragazzi lo stanno appunto facendo. Rendendosi conto, anche se noi non glielo diciamo, che questo nuovo mondo virtuale ha delle conseguenze sulla realtà di tutti i giorni, e che la realtà è qualcosa di duro, qualcosa che ha le sue leggi e con cui prima o poi bisogna fare i conti. Come accade nel caso dei mutamenti climatici.
È una situazione fatta di luci e di ombre, certo, come tutte le situazioni che caratterizzano l’essere umano. Per questo essa ci pone di fronte a scelte ben precise. I nostri ragazzi se ne sono accorti. E cominciano ad applicare ciò che caratterizza nel profondo la loro vita – l’uso cioè di strumenti che li immettono in sempre nuovi ambienti digitali – al futuro che li attende. Cominciano cioè a rendersi conto che un futuro lo devono avere. Che non basta il tempo reale, rassicurante, che viene offerto dalle tecnologie. Grazie a esse, infatti, è pure possibile fissare un momento speciale in una foto che posso postare su Instagram e condividere con i miei amici. Ma per me e per i miei amici, se vogliamo davvero ancora avere la possibilità di ricordare quest’immagine, un futuro alla fine ci deve essere.
Ce lo ricorda anche Google. Ogni tanto, infatti, sul nostro smartphone ci viene riproposta oggi la foto scattata nello stesso giorno di un anno o due fa. Ma – riflettiamoci – affinché la foto scattata oggi possa essere da noi goduta tra un anno o due, dovremo quanto meno trovarci nelle stesse condizioni in cui siamo oggi. Questo i nostri ragazzi lo hanno capito meglio di noi, e certamente meglio dei nostri governanti. Se ciò non avverrà la tecnologia, invece di essere strumento d’intrattenimento e di condivisione, finirà per trasformarsi solo in un’occasione di rimpianto.

Ciao Nonna

Anche se non sei arrivata a quei 100 anni su cui ogni tanto scherzavamo, i tuoi quasi 98 anni sono comunque un traguardo immenso.
Hai vissuto un pezzo di storia, quella che ho amato di più, ma che io ho potuto studiare soltanto sui libri. Tu invece c’eri e hai attraversato quasi tutto il “secolo breve”.
C’eri quando i tedeschi occuparono la tua casa, nella “tua” Talla;
c’eri quando, finalmente, arrivò la liberazione;
c’eri quando si trattò di dire “sì” a un grande partigiano, un combattente per libertà nelle montagne di Grecia e Jugoslavia, che divenne il tuo compagno di vita;
c’eri nella Firenze del dopoguerra, della rinascita, del sindaco “santo”, come donna di cultura che frequentava i salotti di personaggi che avrebbero lasciato un segno e che io ho scoperto solo in seguito: padre Balducci, Mario Gozzini… e tutto quel fermento che era allora la Badia fiesolana.
Ma non sei rimasta ferma al Novecento, hai provato a interpretare il mondo anche in questo scorcio di nuovo millennio, senza smettere mai di leggere e di aggiornarti.
E come ci provavo gusto a provocarti, in quel gioco tra di noi, con le sfide culturali del “2000”: i diritti civili, la sessualità, il mondo secolarizzato. Per me non eri mai abbastanza “moderna”, eppure oggi che misuro la distanza che mi separa da coloro che hanno appena vent’anni meno di me, capisco quanto sia difficile stare al passo di un mondo che cambia e quanto sforzo hai fatto, quante trasformazioni hai vissuto e compreso.
E alla fine, nelle lunghe discussioni politiche che avevamo, pur con approcci che potevano essere differenti, condividevamo sempre lo stesso traguardo, che è quello in cui vinceranno gli ultimi della Terra.
Ciao Nonna!
G.P.

La notte di Dio

È appena cominciata la notte.
Per qualcuno una notte di incontri o di relazioni o di fumi per non affrontare la vita, per altri di malavita.
Certo le nostre notti oggi sono illuminate a giorno eppure non mancano di portare con se i drammi della vita.
Le notti della tratta delle donne denunciate alla via Crucis di Roma.
Le notte in cui tante persone sono obbligate a vivere dai nostri sistemi di vita.
Penso alla notte di Giuda sospeso tra cielo e terra perché incapace di sciogliere i nodi della propria vita.
Eppure è appena cominciata la notte che avrà un epilogo insolito, inatteso seppure atteso!
Quante sono state le notti di Dio nella Bibbia, ma quest’ultima la più significativa e necessaria.
Una notte non sospesa tra cielo e terra come tante nostre parole incapaci di trovare soluzioni vere alle attese degli uomini.
Una notte, questa che comincia, ben ancorata al cielo grazie alla Croce e ben piantata a terra in quel sepolcro pieno e vuoto allo stesso tempo.
Forse non meditiamo abbastanza su questo fatto: un Dio che nella morte del figlio congiunge il cielo verso cui svetta la Croce e la terra in cui sprofonda il sepolcro.
Ecco il nostro centro: questa croce e questo sepolcro, questo sepolcro che prima di essere stato vuoto, come spesso lo pensiamo, è stato pieno!
Nella Bibbia la geografia non è un optional, ma sempre un luogo teologico: non tra cielo e terra ma con quel cielo e con quella terra!
Cosa faticano le donne a comprendere quella mattina dopo il sabato, alla fine di quella notte in cui ancora non si distingueva il cielo e la terra?
Perché Pietro corre al sepolcro?
Perché quel Sepolcro, dopo quella Croce ha contenuto e sostenuto il corpo di Cristo.
Perché quel corpo non poteva rimanere prigioniero della morte, perché la morte l’aveva vinta per noi!
Abbiamo letto in san Paolo: «Egli morì, e morì per il peccato una volta per tutte; ora invece vive, e vive per Dio. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù.»
Da questo momento la Storia cambia: non mancheranno le guerre, il peccato, l’egoismo, ma queste non saranno l’ultima parola.
Qual è l’ultima parola? Cristo è risorto, è veramente risorto!
Ripetiamolo insieme a voce alta: Cristo è risorto, è veramente risorto!

Il centro dell’universo

Ogni realtà dell’universo, tanto più l’uomo e la donna, ha un centro; senza un centro si perde l’equilibrio, qualunque equilibrio: materiale, morale, spirituale, umano.
Qual è il nostro centro?
Oggi comincia una settimana centrale, anzi due, perché il tutto si compirà la domenica in albis, 8 giorni dopo la Pasqua (come sarebbe bello se tra due domeniche fossimo ancora in tanti come oggi, magari con la veste bianca ricevuta nel giorno del battesimo).

Oggi cominciano le settimane della passione, morte, sepoltura e risurrezione di Gesù.
Oggi comincia quel percorso divino e umano che culminerà nel centro della vita dell’universo giovedì, venerdì, sabato e domenica santi!
La Pasqua è veramente il centro dell’universo, anche per quanti non lo sanno, per quanti sono distratti o indifferenti o contrari: non è una violenza, una prevaricazione, è un dono per la vita dell’universo anche se rimane nascosto.
Senza questa settimana, anche fosse celebrata solo da 12 persone l’universo perderebbe senso.
Credo che la fotografia scelta, quella che ha vinto l’oscar delle fotografie, sia emblematica della perdita di senso.

E noi cristiani? Veramente questa passione, morte, sepoltura e risurrezione di Gesù sono il nostro centro oppure ci preoccupa solo avere qualche ramo di ulivo e / o goccia di acqua benedetta per mettere a posto il nostro bisogno di benessere?
Si può celebrare la settimana santa fermandoci alle porte di Gerusalemme oppure si può scegliere di seguire Gesù fino al sepolcro, secondo quanto ci trasmette il vangelo di oggi (Lc 22, 1- 23,56) o la preghiera di san Paolo ai filippesi.
Sicuramente rischieremmo di addormentarci nel Getsemani, di rinnegare Gesù, di non aiutarlo a portare la Croce, di giocarci ai dati i suoi vestiti o di aver paura di guardare il suo corpo trafitto sulla Croce; ma se facciamo nostri l’amicizia con Gesù dei primi discepoli, la cura delle donne per Gesù, la fatica dei primi cristiani che hanno scritto questo Vangelo, la nostra vita, la nostra fede, carità e speranza cresceranno!
In questa settimana dobbiamo avere la volontà e il coraggio di tenere bene davanti agli occhi l’immagine del corpo crocefisso di Gesù non per gusto del macabro, bensì perché solo morendo per Lui, con Lui in Lui possiamo continuare a vivere.

Voglio concludere questa breve riflessione citando un passaggio dell’intervento del papa emerito Benedetto XVI, un intervento che non è contro questo o l’altro papa, ma nel solco della riflessione anche sofferta della Chiesa:
«il Signore ha iniziato con noi una storia d’amore e vuole riassumere in essa l’intera creazione. L’antidoto al male che minaccia noi e il mondo intero ultimamente non può che consistere nel fatto che ci abbandoniamo a questo amore. Questo è il vero antidoto al male. La forza del male nasce dal nostro rifiuto dell’amore a Dio. È redento chi si affida all’amore di Dio. Il nostro non essere redenti poggia sull’incapacità di amare Dio. Imparare ad amare Dio è dunque la strada per la redenzione degli uomini».

Impariamo anche noi ad amare Dio sulla via della Croce, nel sepolcro pieno e poi vuoto, nelle strade della vita.

Santa settimana delle settimane a tutti voi.

La cicogna vista dall’alto

Da poco più di tre settimane sono iniziate le lezioni del secondo semestre del corso di Psicologia che frequento e per la prima volta mi sono imbattuto, io che esco da un Liceo Scientifico, nella studio della Sociologia. La mia docente ha esordito raccontandoci una storia di Karen Blixen una scrittrice danese che in un suo libro “La mia Africa” riporta una breve storia.
“Un uomo viveva in una casupola tonda con una finestra tonda e un giardinetto a triangolo. Non lontano da quella casupola c’era uno stagno pieno di pesci.
Una notte l’uomo fu svegliato da un rumore tremendo e uscì di casa per vedere cosa fosse accaduto. E nel buio si diresse subito verso lo stagno.
Prima l’uomo corse verso Sud, ma inciampò in un gran pietrone nel mezzo della strada; poi, dopo pochi passi, cadde in un fosso; si levò; cadde in un altro fosso, si levò, cadde in un terzo fosso e per la terza volta si rimise in piedi.
Allora capì di essersi sbagliato e rifece di corsa la strada verso Nord. Ma ecco che gli parve di nuovo di sentire il rumore a Sud e si buttò a correre in quella direzione. Prima inciampò in un gran pietrone nel bel mezzo della strada, poi dopo pochi passi, cadde in un fosso, si levò, cadde in un altro fosso, si levò, cadde in un terzo fosso e per la terza volta si rimise in piedi.
Il rumore, ora lo avvertiva distintamente, proveniva dall’argine dello stagno. Si precipitò e vide che avevano fatto un grande buco, da cui usciva tutta l’acqua insieme con i pesci. Si mise subito al lavoro per tappare la falla, e solo quando ebbe finito se ne tornò a letto.
La mattina dopo, affacciandosi alla finestrella tonda, che vide? Con le sue orme aveva disegnato una cicogna!”.
Esistono varie varianti della storia: chi racconta che l’uomo lasciò le tracce nella neve, chi nella sabbia, ma il messaggio di fondo è lo stesso: l’uomo cercando la provenienza del rumore lascia delle tracce che da sole hanno poco, se non alcun, significato ma se viste da un altra prospettiva, se viste dall’alto formavano un disegno perfetto, un disegno della cicogna.
Inizialmente non mi sono soffermato a riflettere sulla storia, troppo preso dal prendere appunti e cercare di stare concentrato sulla materia, ma la sera, dopo essermi coricato mi è venuta in mente e mi sono immaginato che io stesso dopo aver giocato con il mio cane in giardino, uscissi in terrazzo e vedessi un qualche tipo di figura perfetta disegnata nel prato.
Le azioni che facciamo ogni giorno, dunque non sono mere azioni, senza un significato anche se li per li lo sembrano. Le nostre scelte di ogni giorno, guidate dai nostri atteggiamenti, dalle nostre credenze, dai nostri valori non sono fini a se stesse ma sono rivolte a un disegno più grande, alla formazione di una nostra identità, di un nostro io, rivolte alla genesi di un progetto, del nostro progetto di vita.
Ciò che noi siamo, ciò che vorremmo essere un giorno dipende strettamente dalle nostre scelte, dalle nostre decisioni di tutti i giorni. Noi siamo i responsabili del nostro disegno, noi siamo il piede che lascia l’orma nel prato, noi siamo i pittori dell’opera d’arte che deve essere la nostra vita.
E non importa se l’opera d’arte abbia delle sbavature, se in certi punti il tratto sia insicuro o instabile, se in certi momenti si esca fuori dalle righe o si commettano errori.
L’importante è riuscire a vedere il disegno che noi stessi facciamo, il riuscire a trovare il senso in quello che facciamo e in quello che crediamo; l’importante è non essere trascinati dall’indifferenza, dalla sufficienza e dalla superficialità che dominano certi ambiti della nostra realtà ma di essere responsabili, partecipi alla creazione del nostro disegno di vita, della formazione della nostra identità e della nostra persona.
Un giorno quando guarderemo dall’alto della nostra finestra le nostre tracce in giardino dovremmo essere fieri, soddisfatti e felici del disegno che ci apparirà, perché noi stessi siamo i grandi protagonisti della storia della nostra vita.

Samuele Grosso, Genova

vivere il tempo ricevuto 2

Martedì 12 febbraio, nell’Aula Magna del nostro Istituto Alberghiero a Vieste, abbiamo incontrato padre Giannicola Simone con Sofia Rossi e Andrea Bianchini, due giovanissimi associati del gruppo GiovaniBarnabiti sul tema del volontariato.

L’incontro ha avuto inizio con un’affermazione forte e chiara “non è l’essere credenti che porta a fare volontariato”, infatti la maggior parte dei volontari comincia grazie alla sola curiosità. A questa affermazione ne è seguita un’altra altrettanto forte e cioè “fare volontariato significa mettersi a disposizione di chi ha bisogno di aiuto con gratuità”. Sofia poi ha parlato del Dynamo Camp a cui partecipa da qualche anno, definendolo “luogo magico”, infatti la sua caratteristica principale è quella di essere un campo di terapia ricreativa strutturato per assistere gratuitamente ragazzi malati e disabili. Il campo offre molteplici attività finalizzate allo svago di coloro che lo frequentano, come il teatro, laboratori creativi, scuola di circo, sport e giochi. Andrea ha preferito raccontarci delle sue estati albanesi con bambini e ragazzi “avidi” di gioco e compagnia.

Uno degli argomenti centrali dell’incontro, e non poteva essere diversamente, è stato quello dei rifugiati. Chi sono i rifugiati? Generalmente i rifugiati detti anche profughi sono tutti coloro i quali fuggono dal proprio Paese di origine per motivi politici o per la povertà, che trovano ospitalità in un paese straniero per condurre una vita migliore ed essere felici come tutti hanno diritto a essere. Senza rimanere ingarbugliati nelle polemiche che caratterizzano spesso la discussione riguardo a questo argomento, gli intervenuti hanno messo in evidenza la centralità delle personee l’importanza di venire incontro alle loro necessità.

Il volontariato in tutte le sue forme è indiscutibilmente utile in un duplice modo, utile per chi riceve aiuto, e utile per chi lo dà. Infatti se è evidente l’importanza che può avere per chiunque ricevere un supporto in caso di bisogno, sono altrettanto importanti, anche se meno visibili, le conseguenze positive che si ricevono nel dare aiuto.

Alessandra de Feo
Classe II A – IPSSAR “E. Mattei”

 

La Redazione ringrazia gli alunni per la buona partecipazione all’incontro, le loro riflessioni e specialmente per l’ottimo pranzo che ci hanno preparato!