Con Paolo, alla scoperta del centro del Vangelo

SAMZ ci invita ad andare a Cristo ispirandoci a Paolo.
Ma perché proprio Paolo? Quale forza è la sua, che colpì tanto SAMZ e che attraverso i secoli ancora oggi può risuonare nei percorsi di tanti cristiani?

A prima vista i testi di Paolo appaiono difficili, ed è sempre stato così, non solo per gli uomini del nostro tempo, tanto distanti da lui per cultura e linguaggio, ma addirittura per i suoi stessi contemporanei. San Paolo, nelle lettere, sovente deve tornare a spiegarsi, dato che l’annuncio fatto precedentemente all’interno delle sue comunità a volte genera interpretazioni sbagliate. La Scrittura stessa contiene poi un richiamo esplicito circa la difficoltà nel comprendere gli scritti dell’apostolo: «Così vi ha scritto anche il nostro carissimo fratello Paolo, secondo la sapienza che gli è stata data, come in tutte le lettere, nelle quali egli parla di queste cose. In esse vi sono alcuni punti difficili da comprendere, che gli ignoranti e gli incerti travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina». (2Pt 3,15b-16).

Paolo scrive agli inizi dell’avventura cristiana, le sue lettere sono le prime pagine del Nuovo Testamento, scritte prima dei vangeli e solo 20/25 anni dopo la morte di Gesù. Siamo in un tempo in cui le comunità cristiane stanno nascendo e si va formando l’identità stessa del cristianesimo. Conseguentemente Paolo si concentra, nel suo annuncio, attorno al fulcro della “buona notizia” del Vangelo, messaggio che risulta sempre nuovo e sorprendente perché per essere accolto richiede conversione del cuore e della mente (Rm 12,2: «Non conformatevi alla mentalità di questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto»). Proprio per questo contenuto di perenne novità, tanto per i cristiani di ieri come di oggi, gli scritti dell’apostolo risultano spesso ostici e tuttavia molto importanti e di grande fascino. È bello perciò, seguendo il consiglio di SAMZ, avvicinarci all’apostoloPaolo lasciandoci provocare dal suo invito alla conversione, per scoprirlo pienamente e cogliere quel nucleo originale del Vangelo che deve stare a fondamento del nostro essere cristiani.

Stefano Maria

Afghanistan, il mantenimento della pace

Tra i carabinieri in missione in Afghanistan c’è anche un ex-alunno del Collegio San Francesco di Lodi. Dopo averlo aiutato a sostenere una mamma di Herat che ha partorito 4 gemelli gli abbiamo chiesto di scriverci qualche riflessione sulla sua missione che pubblicheremo a puntate sul nostro blog. Per motivi di sicurezza non pubblichiamo il nome dell’autore.

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Il mantenimento della pace mondiale dovrebbe essere, e son sicuro che lo è, un motivo d’orgoglio per l’identità nazionale; ciò possiamo comprenderlo dallo sforzo notevole che la nostra nazione ha espresso in particolar modo in questi ultimi anni.

Per la maggior parte degli italiani, il mantenimento della pace evoca immagini positive ed eroiche dei soldati che operano in ambienti difficili e spesso tragiche: un soldato che protegge un bambino durante uno scontro a fuoco; un pilota che vola in condizioni disperate al fine di portare rifornimenti i posti inaccessibili; un medico che benda le ferite di un rifugiato in difficoltà; un soldato di pattuglia nella terra di nessuno tra mille insidie e pericoli di attacchi; un ufficiale che scopre fosse comuni dopo un genocidio. Per noi soldati italiani, il mantenimento della pace è il cercare di proteggere le persone in pericolo di vita, offrendo la speranza in situazioni quasi disperate, e portando la pace e un po’ di giustizia per le comunità devastate dalla guerra in terre lontane. Si tratta di sacrificio e di un servizio mondiale.

Queste nozioni di coraggio e di servizio in passato non sono state percepite dalla nostra comunità che oggi è finalmente conscia e le ha fatte proprie. Il sostegno del popolo italiano per questo ruolo delle forze armate di mantenimento della pace è forte ed è diventata parte integrante dell’identità nazionale. Si tratta di una parte di ciò per la quale l’Italia si è resa celebre come nazione, e come popolo. I nostri soldati hanno sempre avuto un ruolo positivo, straordinario durante i loro impegni internazionali. Questo fattore ci è stato riconosciuto da tutti i paesi del mondo. Purtroppo anche il numero dei fratelli italiani che hanno dato la vita è elevato e a volte poco ricordato.

Da diversi anni partecipo alle missioni internazionali per conto del mio paese. Ho cominciato nel 1993 in Cambogia dove l’Italia partecipò alla missione UNTAC con l’invio di 75 Carabinieri quali osservatori per conto della Civil Police dell’ONU dislocati nei vari distretti di quella terra martoriata dal regime di Pol Pot al fine di permettere al quel popolo di poter scegliere il proprio futuro attraverso libere elezioni. Da giovane Carabiniere qual’ero allora, fu un’esperienza tremendamente ricca di emozioni forti che hanno lasciato il segno nella mia vita. Laggiù l’ambiente era difficile e le carenze organizzative dell’ONU spaventose. Siamo stati mandati in province sperdute del territorio cambogiano, assediati dalle zanzare senz’acqua né luce; scarsi sistemi di comunicazione, internet e telefoni cellulari non erano nenache stati inventati! Per non parlare dell’alloggio. Ma la voglia di far bene di aiutare i cambogiani ha sopraffatto le mille difficoltà.

I visi di quelle centinaia di bambini sempre sorridenti che ci accoglievano come fossimo dei babbo natale… si è stampata nella memoria! “Bye Bye UNTAT”, dicevano nell’accoglierci e noi cercavamo nelle tasche un qualsiasi cosa da poter regalare, anche una semplice bottiglia d’acqua.

Dopo la Cambogia, via via ci sono state altre missioni fino ad arrivare al 2009 quando per la prima volta vengo chiamato per l’Afghanistan. Una terra che solo a pronunciarne il nome faceva paura! Ora sono al secondo “giro” al termine del quale avrò trascorso piu’ di due anni in questa terra.

Sono lontano dagli affetti: i miei piccoli gioielli, i miei bambini, la mia amata moglie che con immensa forza e coraggio manda avanti “la baracca” come si usa ancor dire dalle mie parti. Un po’ di malinconia mi assale, ma dura poco: il sorriso dei colleghi e la riconoscenza degli afghani mi da coraggio. (Continua)

La diversificazione

La diversità in tutte le sue forme è il requisito fondamentale alla base del progresso. L’esperienza e lo studio hanno reso evidente quanto la sua applicazione favorisca lo sviluppo in svariati e molteplici campi. In biologia viene definita differenziamento e indica la maturazione di una cellula da una forma primitiva a una forma complessa. In petrografia la differenziazione magmatica rappresenta una variazione del magma tale da originare rocce eruttive di diverso genere.

In ambito finanziario, invece, tale concetto viene espresso con il termine diversification e spiega come investire in una collezione di assets (portfolio e/o beni), i cui ritorni non sempre muovono nella stessa direzione, implichi una diminuzione del rischio complessivo rispetto ad un investimento su un singolo asset (bene). Tra le varie funzioni degli intermediari finanziari vi è quella di promuovere il risk sharing (la condivisione del rischio) per aiutare ogni individuo a diversificare e dunque diminuire la quantità di rischio a cui viene esposto. Un chiaro esempio fondato sul concetto di diversificazione è il mutual fund (fondo comune): i piccoli investitori che comprano azioni individualmente sono limitati nell’acquisizione di sufficienti titoli in un numero adeguato di aziende per poter trarne benefici, il mutual fund dunque acquisisce fondi vendendo titoli a molti individui e usa il ricavato per comprare portfolio diversificati di azioni e bond. Inoltre, il mutual fund rappresenta una via low-cost per la diversificazione in titoli stranieri.

Un altro esempio di come la diversificazione sia uno strumento inalienabile per l’efficienza economica si costruisce nel contrariare il concetto di “grande è meglio”: aumentare le dimensioni di poche banche e eliminarne le più piccole, creando di fatto un’oligarchia a discapito della concorrenza, significherebbe distruggere l’equilibrio sul quale si erge un’economia di libero mercato. Basti ricordare che una delle principali cause della recente crisi finanziaria è da ricollegare all’eccessiva fiducia verso quelle poche banche “troppo grandi per fallire” e troppo potenti per essere regolate. La crescente diversificazione del potere, e dunque del portfolio dei debiti bancari e dei relativi rischi, è fondamentale per la resistenza del sistema finanziario, per la sua capacità di resistere alle crisi e di ridurne le probabilità.

La diversità non è necessariamente causa di impoverimento e divisione, ma opportunità di arricchimento culturale, sociale ed economico.

Il concetto di diversificazione e la conseguente specializzazione che ne deriva, come tutela e sviluppo di un “(eco)sistema”, persiste dunque in ogni ambito ed è brevemente riassunto da una vecchia massima che recita: “You shouldn’t put all your eggs in one basket”.

Giorgia Lombardini

Gregorio e Paolo santi

Domenica 25 gennaio,

la chiesa greco-melkita fa memoria del nostro santo padre Gregorio il teologo, occasione gradita per fare i nostri migliori auguri a Sua Beatitudine Gregorios e per chiedere al Santo di intercedere per lui, affinchè, per molti anni ancora continui a pascere il gregge della sua chiesa Melkita oggi, più che mai martoriato in ogni dove si trovi, Siria, Iraq, Libano, Giordania, Egitto e ovunque sia disperso in diaspora al di fuori della sua terra e lontano dalle sue case.

Preghiamo dunque il santo teologo arcivescovo di Costantinopoli non solo perché protegga e conservi il nostro Patriarca, ma l’intera Chiesa, così dicendo:

Con la tua lingua teologa hai sciolto le complicazioni dei retori, o glorioso, e hai abbigliato la Chiesa con la tunica dell’ortodossia, tessuta dall’alto; di questa rivestita, essa acclama insieme a noi, tuoi figli: Gioisci, padre, eccelso intelletto della teologia.

Chiediamogli di aiutare la Chiesa, a conclusione di questa speciale settimana di preghiera per l’unità dei Cristiani, a sapersi allontanare dai cammini di indifferenza, diffidenza e odio che mantengono ancora vive le divisioni e così facendo si spartiscono quella bella tunica d’ortodossia tessuta dall’alto!

Chiediamogli la saggezza suprema del cuore e dell’intelletto necessaria a superare tali ostacoli e a sapersi riconoscere UNA, specialmente in questi tempi in cui la morte gratuita, la persecuzione, la tortura e il dolore non fa differenza tra cattolico e ortodosso. Che abbia almeno la saggezza di offrire tale e tanto dolore per l’unità, affinché il Cristo accettando tali voti ricomponga egli stesso la sua tunica e ci raduni in unità!

Buona preghiera anche ai padri Barnabiti per la festa della Conversione di san Paolo loro patrono.

In comunione,

la Chiesa greco-melkita di Roma.

Barnabiti in Afghanistan

Pubblichiamo la cronaca del cambio della “guardia” barnabitica nella missione afghana a Kabul

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 Padre Giuseppe Moretti ascolta la professione di fede e il giuramento di fedeltà di padre Giovanni Scalese

La presenza dei Barnabiti in Afghanistan data dal 1933. Essendo stata l’Italia il primo paese a riconoscere l’indipendenza dell’Afghanistan (1919), il governo afghano volle in qualche modo “sdebitarsi” permettendo, all’interno della legazione italiana, l’erezione di una cappella e la presenza di un cappellano a servizio della piccola comunità cattolica locale. Fu lo stesso Pontefice Pio XI a volere per tale incarico un barnabita. Primo cappellano dell’Ambasciata italiana a Kabul fu il Padre Egidio Caspani (1933-1947). Gli succedettero i Padri Giovanni Bernasconi (1947-1957), Raffaele Nannetti (1957-1966), Angelo Panigati (1966-1990) e Giuseppe Moretti (1990-1994). Quest’ultimo fu costretto a lasciare il paese nel 1994, a causa della guerra civile scoppiata in Afghanistan dopo il ritiro delle truppe sovietiche (1989) e la caduta del regime comunista (1992). Nel 1996 i Talebani presero il potere e instaurarono l’Emirato Islamico, che durò fino al 2001, quando ci fu l’intervento della coalizione militare internazionale con l’operazione “Enduring Freedom”.

Venutasi a creare una nuova situazione politica con la formazione del governo di Hamid Karzai, la Santa Sede, volendo provvedere in maniera più adeguata alla cura pastorale dei cattolici in Afghanistan, in data 16 maggio 2002, decise di costituire il territorio della Repubblica Afghana in “Missione sui juris” (= non dipendente da alcuna altra giurisdizione ecclesiastica), affidandola all’Ordine dei Barnabiti. Come primo Superiore ecclesiastico o Ordinario della Missione fu scelto lo stesso Padre Moretti, che fece immediato ritorno a Kabul e riprese la sua attività pastorale a favore della comunità cattolica in Afghanistan.

Trattandosi di un ufficio ecclesiastico in tutto equiparato a quello di un Vescovo diocesano, il Superiore della Missione è invitato a presentare le dimissioni al compimento del 75° anno d’età (can. 401, § 1). Norma scrupolosamente osservata dal Padre Moretti in occasione del suo 75° compleanno, nel 2013. A questo punto la Santa Sede doveva provvedere alla nomina di un successore. La Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli, con decreto del 4 novembre 2014, nominava il Padre Giovanni Scalese nuovo Superiore della Missione.

Padre Scalese, originario di Roma (nato e cresciuto nella Parrocchia di San Carlo ai Catinari), può contare su una esperienza piuttosto variegata, che va dall’attività pastorale all’insegnamento, dalla gestione scolastica alla formazione, dal servizio missionario al governo della Congregazione. Le tappe del suo ministero sacerdotale sono state, a varie riprese, Firenze (Collegio alla Querce), Bologna (Parrocchia di San Paolo Maggiore e Collegio San Luigi), Roma (Curia generalizia), Tagaytay (Filippine), Bangalore (India), Napoli (Istituto Bianchi). Dopo aver sbrigato tutte le pratiche burocratiche (il Superiore della Missione gode di status diplomatico in qualità di Addetto d’Ambasciata) e aver preso le opportune precauzioni sanitarie, Padre Scalese è partito per Kabul il 7 gennaio 2015, il giorno dopo l’Epifania.

Domenica 11 gennaio, festa del Battesimo del Signore, nella Chiesa-madre della Madonna della Divina Provvidenza, alle 17.30, si è svolto il rito della “presa di possesso” della Missione. Erano presenti numerosi fedeli, tra cui le tre comunità religiose femminili di Kabul (le “pioniere” Piccole Sorelle di Gesù, le Missionarie della Carità di Madre Teresa e la comunità intercongregazionale “Pro Bambini di Kabul”). Il nuovo Superiore è giunto alla porta della Chiesa, dove era ad attenderlo il Padre Moretti, che gli ha presentato il Crocifisso da baciare e l’aspersorio con cui è stata benedetta l’assemblea. Dopo qualche istante di adorazione silenziosa, Padre Scalese ha emesso la professione di fede e il giuramento di fedeltà previsti dal diritto canonico (can. 833). Mentre i fedeli cantavano il canto d’ingresso della Messa, il nuovo Superiore ha assunto le vesti liturgiche e si è recato all’altare per dare inizio alla celebrazione. Dopo il saluto iniziale, ha preso possesso della sede presidenziale e il Padre Moretti gli ha imposto la mitra. È quindi seguita la lettura del decreto di nomina e il saluto dei fedeli. La Messa è poi proseguita con il canto del “Gloria”, la liturgia della parola (con letture in spagnolo, italiano e inglese) e la liturgia eucaristica. Nella sua omelia, Padre Scalese ha messo in rapporto il proprio insediamento con la festa liturgica del Battesimo del Signore, ha ringraziato i superiori ecclesiastici per la fiducia accordatagli, ha ringraziato Padre Moretti per il servizio ultradecennale prestato alla Missione, si è raccomandato alle preghiere dei presenti, ha invocato la benedizione di Dio sulla comunità e l’Afghanistan.

Padre Moretti ha lasciato Kabul il 14 gennaio per far rientro in Italia (dimorerà a Roma, presso la Casa generalizia). Padre Scalese è rimasto a Kabul con il suo piccolo gregge e con la speranza che la situazione politica dell’Afghanistan si evolva in senso positivo, in modo che la Missione possa crescere e assumere a poco a poco i connotati di una vera Chiesa locale.

Guardians of the creation

Cari amici buon giorno,
comincia una nuova sezione The planet where I’m living – Il pianeta dove vivo, di Nicolais Legrais, della nostra comunità giovanile del Belgio nella quale cerchiamo di meglio capire che fare per salvaguardare il nostro pianeta.

“We are guardians of the creation, of God’s plan in line with the nature, guardians of the other, of the environment. Do not allow signs of destruction and death accompany the march of our world!”. Thus spoke our Francis pope his early pontificate. He invites everyone to reflect on his relationship to the world, its relationship to life.
Are we still in good agreement with Life in our actions, our lifestyles? The earth is suffering from many ills: war, pollution, deforestation, starvation. For many of these ills, the man is responsible, each is. Nowadays, we tend to see the environment as a source of profit than a living millenary universe.
Of course, there are many organizations and local and national initiatives that tend to want to give some meaning to human actions, respect for creation, we must support it! But unfortunately the balance still leans too much in the red. Can is it to answer the call of the pope, reverse this negative trend by being humble enough to revise our way of life, in agreement with what nature has to offer and the fulfillment of mutual beliefs.
And don’t forget, the earth is not our ancestors who we ready but our children who lend it to us.
Nicolais Legrais

La questione meridionale

1861-2015. Un secolo e mezzo di storia (e poco più) non è bastato ad archiviare la fantomatica “questione meridionale” che, dagli albori dell’Unità d’Italia, è sempre stata al centro del dibattito storico e politico, fino ai giorni nostri. Certamente Garibaldi non pensò che tutti i problemi dell’Italia si sarebbero risolti con un gesto eroico, ma nemmeno immaginava che il gap economico tra Nord e Sud della penisola sarebbe, di lì a poco, divenuto una voragine.

Il ritardo del Mezzogiorno, sia chiaro, non è frutto della casualità, ma di precise causalità; gli errori della classe politica dirigente giocarono (e giocano ancora) un ruolo determinante: quei settori dell’economia caratteristici del meridione non furono salvaguardati e i finanziamenti statali mai si mossero in direzione-Sud perché le piccole aziende a conduzione familiare non sono mai state considerate una risorsa per l’economia nazionale, a differenza della grandi industrie del Nord. Pertanto, si è assistito a uno sviluppo disomogeneo dell’Italia, che ha finito col dipingere il Sud come fardello dell’economia, più che come potenziale risorsa.

Secondo l’analisi del giornalista Andrea Atzori, non si è compreso che “per il Sud, la vocazione non era quella della grande produzione industriale, ma quella dell’eccellenza, nella ricerca e applicazione scientifica e tecnologica”; a oggi, in virtù del fatto che “la sfida nei confronti dei grandi giganti dell’economia, se non si vuole rimanere emarginati per sempre, passa dalla valorizzazione delle risorse umane”, il Sud sembra addirittura essere avvantaggiato rispetto al Nord. Le popolazioni meridionali sono ricche di valori che non si possono dimenticare: un’etica del lavoro intesa come “fatica”, sacrificio, una concezione della famiglia quale centro di affetti, di fecondità e di trasmissione di valori nonché di una religiosità popolare considerata importante veicolo di formazione (cfr. Chiesa Italiana e Mezzogiorno).

Dunque, la soluzione alla questione meridionale è davvero così difficile? Difficile è pensare che l’unica risposta al problema sia dover modificare l’assetto strutturale della Repubblica – questa la proposta avanzata da alcune forze politiche: “non saranno le nuove forme di Stato, in senso federalista, inventate dai giuristi, che cambieranno il destino del Paese, anzi, serviranno solo a lasciare i problemi irrisolti, e ad aggravarli, continuando ad aumentare il solco che separa le due parti di esso”, sostiene Atzori. La risposta è semplice e risiede nel Mezzogiorno stesso, fonte di risorse mai valorizzate.

La questione meridionale resta aperta ma non per questo irrisolvibile: occorre elaborare una politica economica nazionale che miri al superamento dell’arretratezza del Sud come punto di partenza per la crescita unitaria del Paese; e tutto ciò sarà possibile solo se pregiudizi e presunzioni di superiorità, che sono la causa principale delle tensioni tra Nord e Sud, saranno superati per far spazio a una mentalità più aperta, tesa a creare sinergia tra le due realtà, così come la Chiesa sostenne nel non lontano 1989: “il Paese non crescerà se non insieme”.

Pasqua Peragine

Per tutti i fratelli

All’indomani della festa del nostro santo Padre Antonio il Grande,
celebriamo la memoria dei nostri padri e arcivescovi Atanasio e Cirillo,
pregando loro così dicendo:

Avete brillato per le opere della retta fede,
avete respinto ogni fede errata,
e siete così risultati vincitori carichi di trofei.
Avete arricchito l’universo con la pietà,
avete largamente adornato la Chiesa
e avete perciò giustamente trovato il Cristo Dio
pronto a donare a tutti,
per le vostre preghiere,
la grande misericordia.

Non dimentichiamo mai i nostri fratelli orientali che al modo di questi santi padri, combattono per respingere la fede errata e mantenere quella nel nostro unico Dio.

Il nostro pregare per tutti i fratelli cristiani orientali, sia cattolici che ortodossi, uniti non solo dalla medesima fede, anche dalla medesima persecuzione, sarà doppiamente gradito al Signore perché è anche preghiera ecumenica, in questa speciale settimana che la Chiesa dedica alla preghiera per il ristabilimento dell’unità!

Dunque preghiamo che non debba essere solo il mal comune a farci accorgere che siamo figli dello stesso Dio!

Bande à part

Molti anni fa, quando le major cinematografiche non avevano ancora pieno controllo verticale sulle sale in Francia, quando la voce francofona del quasi trentasettenne Gainsbourg riempiva attraverso la radio le case europee con Coleur café, usciva contemporaneamente al cinéma il settimo lungometraggio di Jean-Luc Godard, Bande à part.

Era il 1964 e il cinema francese stava vivendo una rivoluzione che ancora oggi paralizza i registi di tutto il mondo: da quel momento la Nouvelle vague avrebbe cambiato il cinema. Ne avrebbe cambiato le forme, i costumi, i modi.

Un triangolo amoroso degno di Truffaut riempie le scene del film, andando a scandagliare quei tratti che rendono i protagonisti personaggi godardiani a tutto tondo, animali selvaggi ancora incorrotti, impacciati quando delinquono e quando cercano di nascondere i loro veri sentimenti. Annoiati come bimbi alle lezioni d’inglese, corridori provetti a bruciapelo tra le sale del Louvre, ballerini affermati nei bar sulle note di un rythm & blues, in una delle sequenze forse più epiche del cinema francese; Odile, Franz e Arthur sfrecciano per le strade della periferia est parigina a bordo della loro SIMCA lasciando che la luna si mangi stancamente il sole, in cielo, e che un’altra noiosa giornata finisca.

Come dessert, una rapina organizzata nella casa dove vive la ragazza con la vanesia quanto misteriosa tutrice. Il tutto seguiti dalla silenziosa Arriflex 2 C, pilotata magistralmente da Raoul Coutard, che li pedina senza essere mai invadente, li accarezza quasi, riuscendo a restituirci i loro palpiti minimi. Perfino il respiro. Fino all’ultimo.

Ispirato all’estetica popolare dei b-movies americani degli anni ’50, Bande à part è un dramma risolto in cadenze di commedia burlesca, un perfetto heist movie dove il crimine e l’amore la fanno da padrone, idoli indiscussi di una storia cinematografica, in quell’anno ormai quasi centenaria.

Bande à part è una infinita, eterna preparazione all’inevitabile epilogo: ma anche un esorcismo, un giocare a scacchi con il Fato e la Morte. Se il percorso è stabilito a priori in fase di sceneggiatura, lo stile cerca di sovvertirlo e di mandare in stallo la storia stessa.

La pellicola incanta per questo strano gioco, per questa sfida che Godard pone a sé stesso, per il duello tutto interno al film tra il bisogno di una storia chiusa e prestabilita e la sua aspirazione a uno stile e a una regia totalmente aperta.

Arthur, Franz e Odile parlano e si parlano addosso incessantemente, più di Lei e Lui in Hiroshima mon amour e, forse, è per questo che a metà film sentono il bisogno di sperimentare un minuto di silenzio, che la cinepresa registra in tempo reale, esulando i suoni e accludendo lo sguardo incredulo dello spettatore. Ma subito dopo la parola riprende il suo potere e contende più di prima, come nelle migliori pellicole di Rohmer, il primato all’immagine.

È un film leggero, girato sulle punte. Danzante come la fotografia di Bresson e tagliente come quella di Capa, Bande à part riesce a sovvertire le regole del gioco cinematografico classico, presentando un soggetto innovativo (benché non originale), forte di una fotografia morbida ma greve, disegnando dei personaggi goffi e immaturi, amati e accarezzati dal regista ma impossibili da salvare.

La sapienza è Dio che si dona

Fino a ora abbiamo considerato come la sapienza sia capace di coinvolgere profondamente l’uomo, a partire dal suo centro, il cuore, ed estendendosi a tutta la sua esperienza vitale. Ma una qualità di tale importanza per la vita umana, è data a tutti o appartiene solo a chi è capace di svilupparla?
A differenza della sapienza intesa come conoscenza e abilità di sottile ragionamento, accessibile solo a chi è particolarmente dotato e ha la possibilità di sottoporsi a un lungo periodo di formazione, la sapienza biblica è un dono di Dio e quindi accessibile a tutti, come testimoniano tanti passi biblici, tra i quali i libri della Sapienza 6,12, e dei Proverbi 1,20-21 e 8,2-3, dove “donna sapienza” grida a tutti nelle piazze e non parla nel segreto solo per pochi eletti.
Come ogni dono divino, va però accettato nella libertà, cosa possibile solo se si coltiva una relazione con Dio nella preghiera. Così ci insegna un testo molto suggestivo, sempre dal libro della Sapienza (9,17), che contiene una bellissima preghiera in cui Salomone chiede il dono della sapienza, unica mediatrice tra Dio e l’uomo, capace di portare alla conoscenza della volontà di Dio.
La sapienza è dunque la via privilegiata con la quale Dio si apre all’uomo. Essa non è solo dono di Dio ma è Dio stesso che si dona. Non stupisce quindi che il nuovo testamento rilegga la sapienza come il Signore Gesù che viene nel mondo e si dona agli uomini.
Pensando infine al nostro san Paolo e, specificamente, a 1Corinzi 2,6, la Sapienza che porta alla perfezione e che “non è di questo mondo” è “Cristo crocifisso, scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro, Giudei o Greci, che sono chiamati, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio” (1Cor 1,23b-24).

Stefano Maria