Carcere come basilica

“Il carcere è diventato una basilica”. Sono le parole pronunciate da Papa Francesco dopo aver aperto la Porta Santa nel carcere di Rebibbia.
Una frase che porta con sé un significato profondo e dirompente. Trasformare un luogo spesso percepito come simbolo di esclusione, sofferenza e punizione in uno spazio sacro e comunitario ribalta la prospettiva comune, ricordandoci che la presenza di Dio non conosce barriere. Con questo gesto, il Papa ha voluto ricordarci che dietro ogni sbarra si nascondono storie, dolori e speranze. E proprio rivolgendosi ai detenuti, Papa Francesco ha ricordato che “ognuno di noi può scivolare”, sottolineando quanto sia importante non perdere mai la speranza e quanto abbiamo il dovere di proteggere sempre la dignità umana, anche in situazioni di errore o fragilità.
Ed è proprio la speranza il cuore di questo Anno Santo: con il motto “Pellegrini di speranza”, il Giubileo si fa portavoce di un messaggio universale di misericordia e riscatto, che abbraccia ogni persona, senza esclusioni.
Eppure, pronunciare la parola “speranza” per chi ha vissuto il 2024 dietro le sbarre può sembrare un lusso irraggiungibile.
Voltaire scriveva che “il grado di civiltà di un Paese si misura osservando le sue prigioni” e, leggendo il XX rapporto dell’Associazione Antigone sulle condizioni di detenzione, forse dovremmo interrogarci tutti quanti sul nostro grado di civiltà, come comunità e come Stato.
I numeri della vergogna ci dicono che oggi il tasso di sovraffollamento è pari al 132,6%, con oltre 62 mila detenuti stipati in strutture che possono ospitarne poco meno di 47 mila. Strutture spesso vecchie e fatiscenti, alcune delle quali non garantiscono il funzionamento del riscaldamento (10,3%) e dell’acqua calda (48,3%). Strutture che disumanizzano, che trasformano le carceri in luoghi di degrado e sofferenza.
Ma i dati si fanno ancora più angosciosi se si guardano i numeri dei decessi di detenuti nel 2024: 246 morti totali, di cui 90 suicidi , i numeri più alti che siano mai stati registrati. Record drammatici, che pesano come un macigno sulla nostra coscienza collettiva. Giovani, molti sotto i trent’anni, che hanno trovato nella morte l’unica via di fuga. Persone con un nome, una storia, un dolore, che dimostrano, sotto questo fronte, il nostro fallimento come società.
Il riconoscimento e la garanzia della dignità umana per tutti i detenuti è un tema che è stato trattato anche dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo messaggio di fine anno; il Presidente, dicendo “I detenuti devono poter respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti alla illegalità e al crimine” (alla faccia di chi, invece, nel non far respirare i criminali prova “un’intima gioia”), ci ha voluto ricordare quanto sancito dalla nostra Costituzione, all’articolo 27: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Questo principio non è solo giuridico: è un imperativo morale. Garantire condizioni dignitose nelle carceri non è una concessione, è un obbligo. Guardando indietro al 2024, l’immagine che ci restituisce questo specchio è di cui vergognarsi. Ma la vergogna può essere un punto di partenza, un impulso al cambiamento.
E il 2025, con il suo messaggio di speranza, ci offre l’opportunità di cambiare. Ma il cambiamento richiede coraggio. Coraggio per affrontare il problema del sovraffollamento, per migliorare le condizioni di vita nelle carceri, per investire in percorsi di rieducazione che diano una reale possibilità di riscatto.
La speranza, per chi vive dietro le sbarre, non è un lusso: è un diritto. E per tutti noi è un dovere trattare con dignità chi ha sbagliato, che non è solo un atto di misericordia, ma una vera e propria prova di forza, oltre che un segno di civiltà.
Che questo Anno della Speranza ci insegni a guardare alle carceri non come luoghi di vendetta, ma come spazi di cambiamento e di vita nuova. Perché un Paese che abbandona i più vulnerabili tradisce se stesso. Ma un Paese che offre a tutti una possibilità di riscatto è un Paese che può rinascere.
Che il 2025, nel segno della “basilica” di Rebibbia, sia l’anno in cui il silenzio delle carceri si trasforma in voce di speranza. Per i detenuti, per le loro famiglie, per tutti noi.
Per gentile concessione di AC – Roma
Riccardo S. – Lodi

Il Vangelo della creazione

La nostra analisi dell’Enciclica “Laudato Sì” (3^ puntata) ci porta al suo secondo capitolo, quello destinato a una disamina delle “convinzioni di fede” che sostengono, per i cristiani, la necessità di sviluppare una nuova ecologia e di raggiungere il pieno sviluppo umano. Attraverso una breve esposizione ermeneutica del rapporto fra esseri umani e Mondo per come è presentato nei racconti biblici, l’obbiettivo è mostrare come i cristiani siano chiamati al rispetto dell’ambiente, non solo in quanto persone abitanti di questa terra, ma in quanto i loro doveri verso la natura, il creato e il Creatore sono parte della loro stessa fede.
Papa Francesco parte dalla consapevolezza che nel dibattito politico, la visione ecologica della religione viene rilegata all’ambito dell’irrazionale. Tuttavia, invita a uno sguardo più ampio e omnicomprensivo, che tenga conto di come scienza e religione possano fornire approcci diversi alla realtà, entrando in dialogo l’una con l’altra.
Dal racconto della Creazione, ad esempio, emerge l’immenso valore della vita della persona umana, creata per amore di Dio, a sua immagine e somiglianza, mostrando come l’impegno per la difesa della dignità degli uomini e delle donne sia profondamente radicato nel messaggio biblico.
L’esistenza umana, secondo il libro della Genesi, si basa su tre relazioni fondamentali: quella con Dio, quella con il prossimo e quella con la natura. Il Peccato rompe queste relazioni e trasforma queste relazioni da armoniose a conflittuali. L’uomo e la donna, però, sono chiamati a “coltivare e custodire” la Terra che è stata data loro da Dio, e hanno quindi una grande responsabilità nel rispettare le leggi della Natura, dal momento che tutte le creature hanno un valore in se stesse.
Tale valore intrinseco non è, però, divinizzazione: il pensiero ebraico-cristiano, infatti demitizza la natura, continuando ad ammirarla nel suo splendore e immensità, senza per attribuirle un carattere divino. A maggior ragione, quindi, è necessario l’impegno umano nei suoi confronti e l’assunzione di responsabilità nel riconoscere la fragilità di un mondo di cui gli esseri umani sono chiamati a prendersi cura, orientando coltivando e limitando il potere che esercitano.
Allo stesso tempo, questa visione non deve indurre a pensare gli esseri viventi come subordinati all’arbitrio e dominio dell’essere umano. L’immagine della natura come oggetto di profitto e interesse, infatti, porta a diseguaglianze, ingiustizie e violenza, a situazioni in cui “il vincitore prende tutto”, e si contrappone radicalmente all’ideale di armonia, giustizia e pace proposto da Gesù e dal cristianesimo. “Lo scopo finale delle altre creature non siamo noi. Invece tutte avanzano (…) verso la meta comune che è Dio”. (LSì 83).
Il Papa sottolinea come tramite la dinamica relazione fra essere umano e natura, questo impara a conoscere se stesso, scoprendo che, oltre alla rivelazione contenuta nelle Sacre Scritture, il divino si manifesta anche nello “sfolgorare del sole e nel calore della notte”, in un processo di scoperta del sé in relazione alle altre creature, in cui si esplora la propria sacralità esplorando quella del mondo. In questo modo, quindi, comprendiamo il profondo significato di ogni creatura, poiché le differenze e le peculiarità di ognuna significano che nessuna può bastare a se stessa e che esse esistono solo in dipendenza le une dalle altre, al servizio le une delle altre. La prospettiva è quindi quella in cui l’uomo ha comunque un suo valore peculiare che però, proprio per questo, implica che abbia una grande responsabilità.
L’ultima parte di questo secondo capitolo si concentra su quella che viene definita la “destinazione sociale dei beni”. La terra, infatti, è un bene comune i cui frutti devono andare a beneficio di tutti, e questo per i credenti diventa una questione di fede. La prospettiva ecologica del cristianesimo deve quindi tenere conto della dimensione sociale e dei diritti fondamentali delle persone. Riprendendo le parole di Giovanni Paolo II, papa Francesco spiega come la proprietà privata per la Chiesa sia legittima ma subordinata alla sua funzione sociale che è intrinsecamente parte dei beni che Dio ha creato per tutti, con una destinazione generale. (LSì 93). A questo seguono le riflessioni dei vescovi del Paraguay sul diritto di ogni contadino a possedere della terra per il proprio sostentamento e il diritto a un’istruzione e aiuti finanziari, e dei vescovi della Nuova Zelanda che si interrogano perché davvero il comandamento del “non uccidere” sia rispettato quando il 20% della popolazione mondiale consuma tante risorse da privare tutti gli altri di ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere.
Infine, si ricorda come Gesù stesso nei racconti biblici mostri spesso l’importanza e il valore della natura, nella sua relazione con Dio, contemplandone la bellezza e la presenza del Padre, vivendo in perfetta armonia con la natura stessa. La comprensione della realtà per il cristianesimo, infine, trova il suo completamento nel mistero di Cristo, che si fa carne, inserendosi come parte del cosmo creato, operando fin da principio con e nella realtà naturale, senza lederne l’autonomia.
Giulia C. -Bologna

SQUID GAME 2: BISOGNO DEL CERTO O DELL’INCERTO

Dopo un’attesa di 3 anni Hwang Dong-hyuk, insieme a Netflix, fa uscire la seconda stagione di una delle serie tv più iconiche degli ultimi anni: Squid Game.
Il successo mondiale è stato clamoroso e per diversi aspetti ricorda tanto quello avuto dalla Casa di Carta (vedi la divisa simbolica o le canzoni). È risaputo infatti come la società statunitense di streaming sia abile a cavalcare l’onda del momento sfruttando al meglio tutte le sue munizioni, spesso snaturandole.
Per chi non lo sapesse, la prima stagione ci mostra come la vita di Gi-Hun Seon sia alla deriva: sommerso dai debiti, un matrimonio fallito e una madre profondamente delusa che deve sopperire all’incapacità del figlio di guadagnarsi da vivere. Con i creditori alle calcagna, Gi-Hun Seon decide di accettare l’invito per partecipare a un gioco nel quale si possono vincere tanti soldi. Così si ritrova invischiato, insieme a numerosi disperati, in una competizione strutturata in una serie di giochi che ricordano l’infanzia. Inizialmente ricorda molto una Battle Royale, ma il fattore che la distingue è quel mood di nichilismo derivato da una profonda consapevolezza della propria situazione sociale che caratterizza i protagonisti della serie: non importa se chi perde muore, i protagonisti arrivano a scegliere di continuare il gioco di loro spontanea volontà anche quando gli si presenta la possibilità di interromperlo.
La seconda stagione ripercorre lo stesso credo della prima. La caratterizzazione dei personaggi, che va a creare una vicenda profondamente umana e al tempo stesso anche politica, fa sì che lo spettatore riesca a immedesimarsi creando continue situazioni di pathos.
Squid Game attraverso una serie di giochi mortali si rifà al dramma vissuto da migliaia di persone più di 40 anni fa. In Corea, qualche decennio dopo la Guerra di inizio anni ’50 e a ridosso dei giochi Asiatici del 1986 e Olimpici del 1988, furono istituiti una serie di centri di assistenza sociale per reprimere il vagabondaggio e purificare le città da quella che al tempo era considerata feccia. Migliaia erano i detenuti (con altrettanti deceduti) e la polizia veniva ricompensata per questa pulizia collettiva. La serie vuole quindi far emergere una non troppo velata critica sociale.
Al giorno d’oggi la società è sempre più composta da spazzatura (pensiamo alle pubblicità, ai social, all’ignoranza in televisione o sui giornali), persone superficiali, disposte a tutto pur di prevalere sulle altre, egoiste e disposte a tutto. È un campanello d’allarme sulla società di oggi. La serie lo denota chiaramente fino ad arrivare all’apice: la morte che non è solo una conseguenza, ma sottolinea l’assurdità della condizione umana.
Molto significativo è stato quando migliaia di persone povere, potendo scegliere un solo regalo, hanno preferito giocare d’azzardo piuttosto che mangiare. A seguito di questa scena, su internet sono diventati virali molti esperimenti di questo tipo e purtroppo anche nella vita reale ci sono state un sacco di persone senza nulla, drogate o tossiche che hanno preferito farsi regalare un gratta e vinci piuttosto che un pasto. Questo è lo specchio di una società malata dove, e lo si vede soprattutto nelle grosse metropoli, moltissime persone sono irrazionali e ragionano di pancia senza ponderare le loro scelte. È lo specchio dell’assurdità della società. Veramente ci possono essere persone che al giorno d’oggi si alterano fino a preferire l’incerto al certo nonostante abbiano bisogno del certo?

Marco C. – Milano

CALL FOR ARTIST

Torre de’ Picenardi, un piccolo ma vivace borgo vicino a Cremona, Sabato 1 febbraio
si è conclusa la mostra “Fotografare la felicità” presso il cinema teatro SOMS, realtà
sociale organizzata e curata da alcuni giovani locali.
La mostra, realizzata dal nostro volontario Andrea Bianchini con contributi di Giuseppe
della Morte e Fabio Cambielli, in collaborazione con il gruppo di volontari del comune
del cremasco, aveva l’obiettivo di promuovere le nostre missioni attraverso le
fotografie delle avventure vissute negli anni passati. Non solo mostrare delle
fotografie, ma far percepire la bellezza della felicità attraverso uno scatto.
Andrea ha raffigurato alcune scene degli incontri dei bambini, dei giovani e degli adulti
con i nostri giovani volontari nelle missioni in Albania (2015-2022), Messico (2023) e
Brasile (2024).
La mostra, in particolare, riportava come soggetti i volti delle persone incontrate in
questi anni, esponendo non solo i lati positivi ma anche le difficoltà raccolte con
stupore e attenzione durate il nostro percorso.
La mostra si è chiusa a Torre de’ Picenardi ma le fotografie continueranno a viaggiare
in altri luoghi d’Italia perché altri possano entrare in contatto con la realtà dei Barnabiti
sempre aperte ai nostri giovani.
Michele, Marta e Arturo

Ieri, la giornata della memoria.

Pare che per presunti ovvi motivi la “giornata della memoria” di ieri sia passata un po’ in sordina, in qualche angolo della prima pagina, rispetto gli anni passati.
Con la sola pretesa di opinioni personali, per quanto ho cercato di ragionare, credo che non ci si possa esimere dal tenere viva la memoria.
Capisco non sia facile ragionare su questa necessaria giornata in questo tempo in cui si denuncia Israele, l’Israele attuale, per i misfatti nei confronti dei palestinesi. Non posso però mischiare la “memoria” con la situazione attuale di Israele, perché la ferita di Israele (anche per quanti non sostengono l’attuale governo) subita il 7 ottobre è troppo grande nonostante la sproporzione della ferita inferta al popolo palestinese.
80 anni fa è accaduto un fatto, un fatto che non si può dimenticare perché è storia della nostra umanità, è storia per formare l’umanità. Non è facile ricordare, spesso non si vuole ricordare, sembra inutile ricordare. Ricordare per conoscere e imparare, non per piaggeria o per fare un piacere a… Ricordare e conoscere per continuare a vivere con rispetto della vita anche e specialmente quando la vita sembra essere in pericolo. Non è mai stato facile celebrare questa giornata “imposta” dall’alto, ma nata dalla storia di chi l’ha vissuta. La storia di chi l’ha vissuta credo sia il motivo principale per cui rispettare questa giornata. Il venire meno dei testimoni diretti di questa tragedia sia ancora di più il motivo principale per cui celebrare questa Memoria.
Non è facile dilatare questa memoria oltre il 27 gennaio, ma si deve. Lo si deve per le generazioni successive, lo si deve per combattere l’antisemitismo, lo si deve per mantenere viva la memoria di tutte le tragedie del passato (penso solo agli Armeni) e del futuro.
Lo si deve per combattere l’indifferenza di chi ieri abitava e viveva come su nulla fosse accanto ad Auschwitz, di chi pensava di non essere direttamente responsabile, l’indifferenza di chi oggi pensa ci siano questioni più importanti.
Ho approfittato ieri nell’ascoltare e leggere alcune riflessioni in più, è vero, ne evidenzio solo due:
«Fanni (morta a 102 anni, sposa di Mik ucciso a 34 anni) si sarà chiesta tante volte, dove fosse finito il Dio in cui credeva durante quegli anni. Ma non si servì mai di quella domanda per giustificarne l’inesistenza, perché conosceva la risposta: «Ero dove era l’amore, ero dove era il dolore. Ero dove era tuo marito, ero dove eri tu. Sono dove siete voi. E lì sarò sempre». (CorSera)
«Bisognerebbe spiegare ai bambini che agli ebrei venivano invertite le mani e che può succedere anche a loro.
Mi è stato chiesto come parlerò a mio figlio della Shoah. Gli farò leggere In quelle tenebre di Gitta Sereny e gli farò vedere Bastardi senza gloria: bisogna sempre conoscere quello che è stato per saperlo riconoscere se te lo trovi davanti, e sapere cosa fare nel caso qualcuno volesse invertirti le mani». (LaSt).
Giannicola M. Simone

Il sabato santo del cristianesimo

C’è un grande scrivere e leggere su come pensare e ri-pensare la Chiesa oggi, in questa situazione di scristianizzazione e indifferenza verso la questione Dio, indifferenza che è più drammatica delle riflessioni ateistiche.
Tutte le analisi che la Chiesa pensante sta producendo in questi ultimi anni sono sicuramente stimolanti. Non che prima non pensasse e/o producesse, però ultimamente le riflessioni giocano sul fatto dell’indifferenza verso le cose di Dio.
Quando parlo con i giovani dico sempre loro che sono bravi, buoni e sanamente egoisti, ma non hanno più il senso del mistero o del sacro, quindi le loro doti restano doti e non diventano virtù. La scristianizzazione li tocca in prima persona. Se poi si cerca di riflettere su ciò l’impresa è più che ardua, forse impossibile. Usano un altro linguaggio. Ma la riflessione è difficile anche con gli adulti.
Come poter ripensare la fede, come poter superare (per usare la bella sintesi di papa Francesco) il si è sempre fatto così?
Se il giubileo di Paolo Vi e Giovanni Paolo II si sono aperti in tempi felici e stimolanti il germogliare di cose nuove, questo giubileo si apre in un mondo a pezzi: forse per questo la scelta della virtù della speranza come stella polare del pellegrinaggio giubilare.
Molti non hanno la consapevolezza del non dovere sempre fare così, molti ritengono che si debba continuare a fare sempre così, perché è più rassicurante, ma anche perché non è facile capire cosa si dovrebbe fare di nuovo.
L’evolversi della Tradizione nel passato è avvenuto in modo chiaro o lo si è scoperto solo dopo? Perché il problema oggi è proprio capire come far crescere la Tradizione. Uso coscientemente “crescere la Tradizione” perché sappiamo che la Tradizione è tale solo quando è capace di crescere, altrimenti muore.
I fedeli laici, ma non solo loro, possono anche leggere questo o quel documento, ma poi si fermano, perché non c’è la forza e il tempo di affrontare “il crescere della Tradizione”. Sanno che la maggior parte dei propri figli frequenta un mondo non cristiano, sanno che la maggior parte dei propri figli non frequenta la messa domenicale, sanno… ma non sanno come reagire.
La realtà che si deve affrontare, talvolta combattere, la realtà dalla quale si può trarre anche del bene è una realtà troppo grande e troppo disinteressata per i fondamentali della fede e quindi ci si ferma. Non in modo apatico o scoraggiato, semplicemente ci si ferma, forse come ci si fermò in Quel sabato santo.
Probabilmente dobbiamo imparare a vivere con maggiore cura il sabato santo della fede di oggi, se vogliamo che si possa risorgere con il Risorto.
San Giovanni Crisostomo scriveva: I magi non si misero in cammino perché avevano visto la stella ma videro la stella perché si erano messi in cammino.

ll sano disordine del 2024

Quello che sta accadendo alla nostra terra

Continua la lettura dell’enciclica “Laudato si” di papa Francesco / 2

Il primo capitolo dell’enciclica è dedicato all’esposizione degli effetti del cambiamento climatico: attraverso l’esposizione divulgativa di risultati di ricerche e studi scientifici, l’obbiettivo è quello di dare un contesto all’interno de quale poter poi inquadrare riflessioni di natura più filosofica e teologica. Molta importanza è posta nel sottolineare le inequità prodotte dal cambiamento climatico, andando ad aggravare ulteriormente la situazione di vita in zone della Terra più povere e in gruppi di popolazione più svantaggiati.
Il punto di partenza dell’esposizione è una riflessione sul tema della “rapidaciòn”, l’accelerazione dei cambiamenti dell’umanità e del pianeta, che contrasta con la naturale lentezza dell’evoluzione biologica, e che non sempre è rivolta al raggiungimento del bene comune e allo sviluppo umano.
Il clima, però, è un bene comune, è un “sistema complesso in relazione con molte condizioni essenziali per la vita umana”. Gli stili di vita, i modelli produttivi e di consumo della società contemporanea, basati sulla cultura dello scarto, sia umano sia materiale, sulla produzione di rifiuti e inquinamento, sono perciò individuati come le principali cause dei cambiamenti climatici. La questione delle radici umane del cambiamento climatico, tuttavia, verrà approfondita in un capitolo successivo.
Quali sono, quindi, gli effetti del cambiamento climatico?
Il primo effetto in analisi è quello dell’esaurimento delle risorse naturali, in particolare di acqua potabile, elemento fondamentale e indispensabile per la sopravvivenza umana, animale e del sostentamento degli ecosistemi e necessario nei settori sanitari, agricoli e industriali. La problematica non risiede solo nella costante diminuzione della quantità d’acqua dolce disponibile, specialmente in zone già di per sé vulnerabili, ma anche nella scarsa qualità dell’acqua, soprattutto in zone urbane povere del mondo, causa di numerosi morti al giorno. Altra questione è infine legata alla privatizzazione dell’acqua, che si scontra con la salvaguardia dei diritti umani fondamentali, data l’essenzialità delle fonti idriche nella sopravvivenza umana. La scarsità d’acqua, unita alla sua privatizzazione, porterà inoltre ad un aumento dei costi degli alimenti che dipendono dal suo uso, aggravando ulteriormente le condizioni economiche e sociali di gran parte della popolazione.
Il secondo effetto è quello della perdita della biodiversità, dovuta all’utilizzo intensivo delle risorse forestali e boschive e dal massiccio sfruttamento delle risorse oceaniche. Il danno legato alla perdita di specie animali e di biodiversità è primariamente legato al valore intrinseco di cui esse sono dotate, e non bastano interventi tecnologici volti a mitigare gli effetti di questo sfruttamento e a limitare gli interventi umani che rischino di modificare la fisionomia dei territo ri. L’analisi si sofferma sull’impatto delle politiche di deforestazione e degli interessi economici internazionali sui principali ecosistemi di biodiversità terrestri, tra cui la foresta Amazzonica e il Bacino Fluviale del Congo, e sulle politiche di estrazione di risorse ittiche attuate nei grandi Oceani.
La terza categoria di effetti è legata al deterioramento della qualità della vita umana e alla degradazione sociale, specialmente in contesti urbani caotici, inquinati, privi di spazi verdi pubblici, in condizioni economiche complesse, ponendo l’attenzione ancora una volta sulla questione dell’inequità degli effetti del cambiamento climatico.
Il quarto effetto citato è appunto l crescita delle diseguaglianze: “il deterioramento dell’ambiente e quello della società colpiscono in modo speciale i più deboli del pianeta”, gli esclusi e marginalizzati. Queste persone vengono spesso presentate nel dibattito pubblico come delle appendici, o degli effetti collaterali, il discorso mediatico non vi si sofferma, perché troppo lontani e troppo “scomodi” da poter raccontare, di fatto mettendo le necessità di queste persone all’ultimo posto nella scala di priorità di molti piani di attuazione concreta. Dobbiamo pertanto riconoscere che il vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che ascolti sia il grido della terra sia quello dei più poveri.
L’inequità non è solo una questione microeconomica, a livello individuale, ma assume rilevanza di portata macroeconomica nel momento in cui parliamo di diseguaglianze fra Paesi interi, in particolare articolati sull’asse di diseguaglianza Nord-Sud Globale. Le esportazioni di materie prime, principalmente a vantaggio dei mercati dei paesi del Nord, producono forme di inquinamento nei paesi di estrazione, che spesso vengono anche scelti per lo smaltimento di rifiuti prodotti dalle industrie. Gli effetti del riscaldamento climatico impattano soprattutto paesi già vulnerabili e poveri, che uniscono siccità ad aumento di temperature. Molte multinazionali scelgono paesi del Sud Globale per attuare politiche industriali inquinanti e basate sullo sfruttamento dei lavoratori, che altrimenti non potrebbero attuare nei paesi che apportano le fonti di capitale. Ciò che è importante notare è che il cambiamento climatico ha responsabilità diversificate, dal momento che molti dei paesi in via di sviluppo non hanno spesso possibilità tecniche per adottare modelli di riduzione dell’impatto ambientale ne fondi sufficienti per coprirne i costi di realizzazione. La soluzione proposta nell’Enciclica è quella di apportare risorse economiche per promuovere programmi di sviluppo sostenibile.
A queste problematiche si lega la debolezza delle reazioni e le diversità di opinioni sul tema del cambiamento climatico. Spesso, infatti, la sottomissione della politica agli interessi economici di gruppi di interesse e corporations porta alla manipolazione di informazioni e, soprattutto, alla mancanza di azioni pratiche che possano andare a minare i loro interessi economici di breve periodo. Ai danni ambientai dovuti all’inazione dei governi si lega un’altra questione di primaria importanza, specialmente nel contesto globale contemporaneo, cioè il rischio di escalation di conflitti per la lotta a risorse sempre più scarse. Oggi più che mai appare permeante l’appello del Papa alla necessità di agire politicamente per prevenire nuove guerre e nuove sofferenze.

Giulia C. – Amsterdam

Ragazzi come?

Quest’estate mi sono accorto come non mai che i nuovi adolescenti sono molto differenti da me e dai miei coetanei. È come se la mia generazione avesse avuto un’altra educazione, forse più severa, più libera o forse una giovinezza senza filtri tecnologici.
Non so ancora di preciso a cosa sia dovuto questo fatto, ma sono certo che i ragazzi della mia generazione o di quelle precedenti portavano molto più rispetto sia ai loro coetanei sia alle persone più anziane. Non so se questo sia dato da una società più rispettosa, con ancora dei valori etici, morali e religiosi oppure da un fatto legato ad una fase di passaggio. Sta di fatto però che prima ai ragazzini difficilmente si ripetevano le cose. Ora vedo, ad esempio, che il barista riprende dei giovani al tavolo del suo locale perché appoggiano i piedi sulle sedie e questi anziché scusarsi, o comunque toglierli, lo deridono come se le sedie fossero di loro proprietà soltanto perché pagano la consumazione. Penso che gran parte della colpa sia di una società perbenista che fa sì che la persona si senta e cresca in una botte di ferro tale per cui niente e nessuno possa mettergli i piedi in testa. È la società di oggi che tende a far crescere un figlio così; si è diventati troppo buoni per paura di sbagliare o perché “non è corretto punire un bambino”. Ma siamo sicuri che la maniera con la quale si educavano i figli una volta erano scorretti? Se un bambino sbaglia, bisogna fargli capire l’errore e attraverso una punizione più o meno severa lui potrà apprenderlo meglio. È lo stesso metodo che vediamo negli sport, con lo Stato e nella dinamica: a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria; quindi, a ogni errore corrisponde una punizione. A furia di far passare come normalità la mancanza di “no” o di punizioni, il bambino crescerà sicuro di sé e delle sue azioni, o meglio, sicuro di essere sempre più bravo degli altri mancandogli spesso di rispetto. Non è un caso se un mio carissimo amico, un uomo di una notevole stazza, mi ha confessato di vedere sempre più incivili nel suo locale che spingono la gente senza chiedere né “permesso” né “mi scusi”. Quante volte si sente di docenti aggredite verbalmente o peggio fisicamente per il solo fatto di aver messo una nota o un brutto voto dopo un’interrogazione? Pazzesco, roba che mette i brividi solo a sentirla. Purtroppo, anche i genitori stessi spesso intervengono in favore dei propri figli e questo li rende ancora più forti, consci del fatto di avere un ulteriore scudo.
Altro punto interessante che manifesta l’ignoranza delle nuove leve penso siano i Social. Essi hanno influito parecchio nelle loro vite; soprattutto il fatto di vivere con e dentro di essi, ha reso i giovani delle persone molto superficiali e disattente. Io stesso mi ci metto dentro. Nel senso che non abbiamo più la pazienza di aspettare che una cosa arrivi perché siamo abituati a un click per ottenere ogni tipo di informazione. Non è un caso che le App sono studiate per far sì che le persone stiano più a lungo con l’App aperta e quindi si cerca di creare contenuti sempre più brevi. Legato al discorso internet, se già con la mia generazione i giovani sognavano un successo come calciatore o velina, questa generazione pensa di poter avere successo senza bisogno di impegnarsi e gran parte di essa sogna di poter diventare un influencer senza però sapere che la percentuale di successo è minore rispetto al diventare uno sportivo di professione. Infine, ancora più grave, c’è il fatto che veramente si pensi di poter guadagnare bei soldi vendendo la propria immagine e il proprio corpo senza pudore. E in effetti, quanto costa farsi 1 foto da inviare ad uno sconosciuto? Forse 5 secondi. Ma qui è normale che un ragazzo lo pensi, bisogna prima educarlo e fargli capire cosa c’è dietro quello che lui vede. Non voglio giudicare e neanche fare confronti tra generazioni perché non ha letteralmente senso. Però, oggi dare un telefonino ad un bambino è un grosso azzardo. È un gesto che può portare a molti rischi, tra cui il fatto di dare la possibilità al giovane di entrare e conoscere in un mondo 2.0 dentro il quale tu genitore hai difficilmente accesso. Da qui, vediamo giovani che conoscono il sesso, la droga e l’alcol. Insomma, ragazzi che crescono in fretta e forse anche troppo. E sempre da qui che poi possiamo vedere ragazzi sempre più ignoranti che prediligono programmi trash a programmi di cultura. Sono abituati fin da subito a vedere queste cose, abituati a vedere video spazzatura e abituati al nulla. Ricordiamoci che tutto, se usato nella maniera corretta è di grande aiuto. Penso quindi che le cose debbano essere date a tempo debito, con una profonda ed attenta formazione. È infatti una critica anche e soprattutto alla generazione nata tra il ’70 e ’80, la generazione che in Italia ha vissuto nella ricchezza del boom economico e che quindi ha una visione della vita sicuramente positiva e rosea. Vivendo quindi lo splendore del nostro Paese, possono forse sottostimare o non comprendere a pieno i rischi che ci sono, soprattutto con le nuove tecnologie.
“Ma ai miei tempi la vita era migliore!”? So che ci sono adolescenti molto in gamba, con la testa sulle spalle e la voglia di spaccare il mondo. Come so che esistono adulti maleducati che vivono portando rispetto solo per sé stessi. La mia speranza rimane quella di una società più spensierata, ma al contempo stesso con principi etici e religiosi solidi e coerenti cosicché i giovani possano magari farsi un’idea della vita traendo vantaggio dai lati positivi dei loro predecessori.
Marco C. – Milano

Spirito olimpico a Parigi 2024

I Giochi Olimpici di Parigi 2024 si sono conclusi qualche giorno fa, pronti per lasciare spazio alle Paralimpiadi, al via il 28 agosto. Tanti saranno i momenti da ricordare di questa edizione olimpica, dalle grandiose imprese sportive delle atlete e degli atleti in gara, alle polemiche più o meno strumentali che hanno accompagnato giorno per giorno lo svolgimento delle competizioni, proprio a ricordarci che, neanche di fronte alle Olimpiadi, l’evento universale per eccellenza, riusciamo ad abbandonare le nostre fiere convinzioni e le bandiere ideologiche.
Eppure, in questo marasma di eventi mediatici, un fatto è passato piuttosto in sordina rispetto alle notizie che più hanno suscitato clamore e dibattito in queste giornate parigine.
Mi riferisco a quello che ai più, sarà parso come un normalissimo selfie scattato dopo la finale del torneo di Ping Pong a squadre miste, vinto dalla squadra Cinese. In effetti, parrebbe non esserci niente di strano nella simpatica foto, scattata come stabilito dal Comitato Olimpico Francese, per celebrare con leggerezza e simpatia, le brillanti prestazioni degli atleti medagliati nelle varie discipline. Eppure, a ben guardare, qualcosa di particolare c’è. Sul gradino più alto del podio, come detto, la coppia cinese composta da Wang Chuqin e Sun Yingsha; a vincere l’argento, due atleti Nord Coreani, Ri Jong Sik e Kim Kum Yong. Già questa sarebbe di per sé una notizia, data l’assenza della Corea del Nord alle ultime olimpiadi, svoltesi a Tokio nel 2021, a causa della necessità di “proteggere gli atleti dalla crisi sanitaria mondiale causata dalla COVID-19” secondo le dichiarazioni ufficiali del governo Nord Coreano, e, soprattutto, per la totale chiusura del Paese asiatico che, da ormai 76 anni, vive sotto la stretta morsa di una delle più feroci dittature ancora esistenti, totalmente isolato dal resto del mondo. Ad alimentare ancora di più il clamore, però, è la nazionalità degli atleti saliti sul terzo gradino del podio: Lim Jonghoon e Shin Yubin sono infatti due atleti Sud Coreani, paese storico nemico della Corea del Nord fin dallo scoppio della Guerra di Corea nel 1950. Da allora, i rapporti fra i due paesi sono assolutamente inesistenti e il confine fra le due Coree, il celebre 38° Parallelo, è uno dei confini più militarizzati e pericolosi del mondo.
Si tratta, quindi, di un’immagine storica, non solo, e forse non tanto, per la valenza sportiva del risultato ottenuto dagli atleti, quanto, soprattutto, per la sua valenza simbolica e, in parte politica. Ping Pong Diplomacy, potrebbe pensare qualcuno, rievocando termini di Nixoniana memoria, forse esageratamente. La foto scattata, infatti, potrebbe non avere alcuna valenza all’atto pratico, né rappresentare alcun tipo di cambiamento nelle politiche dittatoriali attuate in patria dal leader Nord Coreano Kim Jong Un. Come hanno sottolineato analisti e commentatori, infatti, niente nel comportamento dei due atleti Nord Coreani ha fatto intuire una graduale apertura: dei due non si sa praticamente niente, non hanno partecipato a competizioni internazionali, numerosi dubbi sono sorti sul dove si allenino e dove effettivamente vivano e nel corso dei giochi sono sempre parsi schivi e riservati, senza mai rilasciare alcun tipo di intervista.
Forse non sarà l’inizio di una nuova era per la Corea del Nord né di un radicale cambiamento nei rapporti di quest’ultima con il resto del mondo. Sicuramente però, in un’Olimpiade segnata da continue polemiche, proteste e divisioni, in cui la competizione sportiva ha spesso lasciato il posto a tensioni di entità molto più politica, da questo selfie dal podio del torneo di Ping Pong misto arriva una delle pagine più belle, e sicuramente inaspettate, di questi Giochi Olimpici, capace di realizzare, almeno per il tempo di un clic, quella famosa tregua olimpica spesso invocata ma mai realmente attuata.
Giulia C. – Amsterdam