Luigi Peragine (22 anni) nostro amico da sempre, è un ballerino di danza classica, che ieri sera ha debuttato nel balletto Caravaggio, con Roberto Bolle a Firenze: approfittiamo per scambiare due parole con lui! Cosa significa debuttare in uno spettacolo, come ti accadrà qs sera? Debuttare significa finalmente mostrare al pubblico il frutto di tutto il lavoro svolto in sala prove. L’emozione di salire sul palco è un qualcosa di unico, magico, difficile da descrivere a parole. È il luogo nel quale riesco a essere completamente me stesso e a esprimermi al meglio attraverso la danza. Quando hai scoperto che la danza classica non era solo un sogno da bambino ma la tua vita? La danza vive dentro di me da sempre. Sin da bambino ero certo di quello che volevo diventare, ma solo crescendo sono diventato più consapevole di ciò che avrei dovuto affrontare per realizzare quel sogno. Quali i sacrifici principali? I sacrifici in questo percorso sono stati molti. Lasciare la mia famiglia all’età di 13 anni per perfezionare la tecnica in un’accademia in Germania è stato uno dei primi passi più difficili. Ogni giorno è una sfida costante, fisica ma soprattutto mentale, perché bisogna spingersi oltre i propri limiti per diventare la versione migliore di sé stessi. E le gioie più … gioiose? Ogni progresso tecnico, ogni miglioramento e ogni esibizione sono piccole vittorie che ripagano tutti i sacrifici e ci spingono, come ballerini, ad andare sempre oltre, a non arrenderci mai. La mia gioia più grande, finora, è stata sicuramente il diploma ottenuto nel 2022 all’Accademia del Teatro alla Scala e l’ingresso nel corpo di ballo del Teatro. Quel momento ha rappresentato la realizzazione concreta di anni di impegno, passione e determinazione. Perché la danza è così di nicchia? La danza, soprattutto in Italia, non è adeguatamente valorizzata. La progressiva scomparsa dei corpi di ballo e la mancanza di investimenti nel settore ne sono un chiaro segno. Molte persone crescono senza sviluppare una vera comprensione di quest’arte. Nonostante sia vista fuori dal comune, numerosi giovani sono animati dal desiderio di intraprendere questo percorso e andare oltre i pregiudizi. Tuttavia, le scarse opportunità lavorative e l’assenza di un reale sostegno istituzionale finiscono per scoraggiare l’interesse generale. Quando parliamo di danza pensiamo solo ai ballerini famosi, ma c’è tutto il resto intorno: cosa significa fare parte di un corpo di ballo? cosa insegna alla vita? Il corpo di ballo è un insieme di danzatori che creano scene corali di grande impatto visivo e costruiscono atmosfere che valorizzano la presenza in scena dei ballerini principali. Senza di esso il balletto risulterebbe vuoto. Farne parte è il sogno di ogni ballerino perché insegna a saper lavorare in gruppo con disciplina e attenzione per creare la magia dell’insieme. Oggi debutterò nel balletto “Caravaggio” di Mauro Bigonzetti al Teatro Maggio Fiorentino di Firenze, nel quale il corpo di ballo ha una grande importanza perché presenterà al pubblicò molteplici danze caratterizzate da grande rigore tecnico e musicale.
L’opera più bella che vorresti ballare? Vorrei… vorrei ballare nel ruolo principale del balletto “La bella addormentata”! In bocca al lupo Luigi.
Il nostro percorso di riflessione in preparazione alla COP30 (10/21 Novembre 2025 a Belem, in Brasile), prosegue oggi con un’intervista a Maurizio Martina, vicedirettore generale della FAO, la “Food and Agriculture Organization” delle Nazioni Unite, con il quale abbiamo avuto modo di parlare dello stato delle foreste, degli effetti del cambiamento climatico e dell’attività umana su di esse, degli impatti sociali dei danni forestali, ma anche di possibili soluzioni di policy e di piccole attività quotidiane, necessarie per preservare il patrimonio forestale.
Prima di tutto cos’è la FAO? Poiché molti dei nostri giovani non lo sanno.
La FAO, ovvero l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura è una delle agenzie specializzate dell’ONU con sede centrale a Roma e uffici dislocati in oltre 130 paesi del mondo. Ha preso vita in un contesto storico caotico, a seguito della fine della Seconda Guerra Mondiale, per ridare la giusta luce a temi cruciali che erano passati in secondo piano e facendosi portavoce di un ambizioso ma necessario obiettivo: eliminare la fame nel mondo costruendo sistemi alimentari sostenibili, equi e resilienti. È importante sottolineare che lo spettro su cui la FAO lavora attivamente ogni giorno è molto vasto, ed include cibo, terra, acqua, foreste e pesca. Per essere più concreti, la FAO si propone di migliorare notevolmente l’allarmante dato conoscitivo secondo il quale, ancora oggi, 733 milioni di persone soffrono la fame (rapporto SOFI 2024). Ma non si tratta meramente di una “lotta alla fame” in senso stretto, ma anche di declinare politiche mirate di sviluppo economico, sociale, culturale e protezione ambientale, attraverso un approccio sistemico ed integrato. Per fare questo la FAO adotta una strategia a 360 gradi, che include ad esempio: il supporto degli agricoltori nella produzione, la promozione di un’alimentazione sana e sostenibile, la tutela della biodiversità, l’intervento in caso di emergenze naturali o innescate da conflitti a stretto contatto con i Governi e altri stakeholder. La nostra bussola ed il nostro motto sono chiari: “Una produzione migliore, un’alimentazione migliore, un ambiente migliore ed una vita migliore per tutti, senza lasciare nessuno indietro”. La collaborazione con realtà come la vostra (Giovani Barnabiti, progetto “Esta è a Floresta”), per noi risulta vitale per raggiungere questi obbiettivi, in quanto siamo fermamente convinti che la trasformazione nasca dal territorio, attraverso il dialogo continuo e lo scambio di conoscenze ed esperienze. Quale è l’attuale stato delle foreste a livello globale e quali sono le principali minacce che colpiscono le foreste? Secondo il nostro più recente rapporto della FAO “The state of the World’s Forests” (SOFO) del 2024, le foreste ricoprono circa il 31% dell’intera superficie terrestre, estendendosi per 4,1 miliardi di ettari, ospitando più del 80% della biodiversità del nostro pianeta. Questi dati rendono quindi chiaro che le foreste siano uno dei pilastri vitali della Terra, in quanto svolgono funzioni cruciali per il suolo, per l’acqua, per il clima e conseguentemente per la sicurezza alimentare. Secondo il rapporto citato in precedenza lo stato attuale di questa risorsa è motivo di enorme preoccupazione per via della forte pressione a cui è sottoposta. Infatti, i dati segnalano che nel lasso temporale dal 1990 al 2020, abbiamo assistito ad una perdita complessiva di 420 milioni di ettari di foreste, rappresentando analogicamente un’estensione superiore a quella del territorio dell’India. Nonostante il dato sensibile, è però bene segnalare anche gli elementi che dimostrano un cambio positivo di rotta. Infatti, paragonando i dati dello stesso periodo, la deforestazione globale dimostra un calo di più di 5,6 milioni di ettari rispetto ai principi degli anni 90. I dati postivi raccolti non sono però sufficienti per ribaltare il critico bilancio globale, che testimonia una perdita annua di milioni di ettari di foresta, dimostrando che il motore del miglioramento è ancora troppo lento. Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, le minacce concrete alle foreste risultano essere molteplici. Prima tra tutte il cambiamento climatico, che porta con sé svariati “effetti collaterali”, rendendo le foreste più inclini a stress ambientali, come parassiti e malattie, incendi e siccità, che risultano in una sostanziale perdita di biodiversità e frammentazione degli habitat, alterando l’equilibrio degli ecosistemi e la sopravvivenza di specie vegetali ed animali. Risulta critico, nell’ottica di preservare gli ecosistemi forestali anche il tema dell’intensificazione della domanda di prodotti, sia di derivazione del legno che da piante e frutti, la cui produzione ha toccato il livello record di quattro miliardi di metri cubi all’anno, dato di cui si prevede un ulteriore incremento. Ultimo elemento, ma non per importanza, concerne la minaccia sostanziale delle crescenti e continue disuguaglianze sociali, che marginalizzano le comunità che vivono nelle foreste, impedendo loro di essere partecipi nei processi decisionali ed escludendoli dalla suddivisione dei benefici della gestione delle risorse. Queste minacce sono strettamente interconnesse l’una con l’altra, e la loro sovrapposizione risulta inevitabilmente deleteria e non mitigabile dai progressi raggiunti in questo campo fino a questo momento. Qual è il legame tra il cambiamento climatico e la deforestazione? Il cambiamento climatico e la deforestazione sono essenzialmente due facce della stessa crisi ambientale globale, che, alimentandosi vicendevolmente, creano un circolo vizioso pericolosamente nocivo. Infatti, la deforestazione contribuisce notevolmente ad incrementare gli effetti del cambiamento climatico. E, se consideriamo che le foreste sono dei veri e propri serbatoi naturali di carbonio, e quindi fondamentali per assorbire anidride carbonica (CO₂), la deforestazione danneggia questa funzione benefica cruciale. Secondo il SOFO 2024, le foreste hanno assorbito dal 2000 al 2018 circa 2 miliardi di tonnellate di CO₂ ogni anno, contribuendo dunque a raffreddare il clima. Questo dato è importante per comprendere che quando le foreste vengono distrutte, non solo si riduce la capacità di assorbimento di anidride carbonica, ma, vengono anche rilasciati gas serra nell’atmosfera, generando dunque un duplice rischio, accelerando di conseguenza il cambiamento climatico. Dall’altra parte, è lo stesso cambiamento climatico a contribuire pericolosamente all’indebolimento delle foreste, favorendo la creazione di condizioni climatiche proficue per incendi e per la diffusione di parassiti e malattie. Si tratta dunque di un instancabile effetto domino che va categoricamente arrestato. In che modo le foreste sono importanti per contrastare il cambiamento climatico? Le foreste sono lo strumento naturale più potente che abbiamo a disposizione nella lotta al cambiamento climatico, sono da intendere infatti come parte integrante della soluzione, e non come un dettaglio marginale. Infatti, le foreste contribuiscono in modo efficace e diretto all’assorbimento di carbonio, che è uno dei principali motori del riscaldamento globale, contribuendo quindi a mitigare in modo sostanziale questa problematica rallentando l’accumulo di gas serra nell’atmosfera. Risulta quindi logico comprendere che, quando una foresta viene distrutta, l’equilibrio climatico vacilla, e proteggerle è una forma di giustizia sociale e climatica. Inoltre, le foreste sono fondamentali strumenti per la regolazione dei microclimi, in grado di limitare l’impatto di eventi climatici estremi – come ondate di calore, siccità ed inondazioni – grazie alla loro intrinseca capacità di rinfrescare l’aria, di mantenere umidità, di contribuire alla generazione di piogge e di proteggere il suolo (altra risorsa naturale fondamentale per la vita) dall’erosione. É evidente quindi che preservare le foreste sia imprescindibile per la salvaguardia climatica. La FAO lavora attivamente su questo fronte, comprendendo la centralità del ruolo delle foreste, ed elevandole quindi come uno dei pilastri della nostra strategia climatica 2022-2031, in linea con l’obbiettivo SDG13 (Climate Action). Quali sono gli impatti sociali della deforestazione? I dati del nostro rapporto SOFO 2024 dimostrano che al giorno d’oggi il sostentamento di oltre 1,6 miliardi di persone dipende direttamente alle foreste, tra cui 350 milioni che vivono all’interno di aree forestali. Inoltre, se prendiamo in considerazione la quantità di persone che fa utilizzo di prodotti di derivazione forestale – legnosi e non – i dati salgono esponenzialmente, segnalando che oltre i 3/4 della popolazione mondiale sarebbe colpita dalla problematica in modo sia diretto che indiretto. Chiaramente, gli effetti su quella fetta di popolazione per cui le foreste sono fonte primaria di sostentamento, sia in termini di cibo e acqua ma anche di reddito, sono pericolosamente più catastrofici. Basti considerare che, nella maggior parte dei casi, gli individui che hanno questo tipo di relazione diretta con le foreste vivono già in condizioni vulnerabili, soprattutto nelle aree del Sud Globale. La deforestazione estremizza le marginalizzazioni sociali in quelle aree. In primo luogo, funge come amplificatore delle disuguaglianze sociali già esistenti, in particolare di genere e giovanili, in quanto sono queste categorie a pagarne per prime l’altissimo prezzo. Inoltre, una tematica rilevante è quella delle popolazioni indigene, che più di tutte conoscono e custodiscono i saperi tradizionali della preservazione di quelle aree geografiche. Sembrerebbe quindi logica una loro inclusione nei processi decisionali inerenti alle loro terre, mentre invece, è comune assitere ad una esclusione delle popolazioni indigene da questi importanti processi. Un ulteriore elemento da considerare è anche quello dei flussi migratori delle comunità che risiedono nelle foreste, spinte dalla deforestazione, ed un potenziale rischio per la materializzazione di un ciclo ulteriore di marginalizzazione. Nel suo ultimo articolo pubblicato su Avvenire il 5 marzo, parla di “miglioramento di processi di gestione forestale, sociale, politica e istituzionale, come nuovi sforzi per coinvolgere meglio donne, giovani e popolazioni indigene nello sviluppo di soluzioni guidate a livello locale”: in che modo il coinvolgimento di questi gruppi sociali, spesso esclusi o marginalizzati nel dibattito pubblico, può migliorare e contrastare la deforestazione e salvaguardare l’ambiente? Come spesso accade per quanto concerne le sfide ambientali attuali, le soluzioni più efficaci nascono anche dal territorio, perché è bene tenere a mente che, in questo caso la deforestazione non è esclusivamente una questione tecnica, ma una problematica di carattere profondamente sociale e politico. Non includere i gruppi sociali più esposti e più fragili nei processi decisionali della governance forestale non è solo ingiusto, ma anche controproducente, come dimostrato dai dati riportati dal nostro rapporto SOFO 2024. Infatti, l’inclusione dei gruppi vulnerabili – come donne, giovani e comunità indigene – viene spesso considerata una componente residuale, mentre invece costituiscono sia un bagaglio nozionistico, culturale e sociale dal valore inestimabile. Diversi studi indicano che una governance femminile in queste aree, ad esempio, consentirebbe una gestione più consapevole dei prodotti forestali, in quanto sono le donne a svolgere un ruolo cruciale nella loro raccolta e nella trasmissione del sapere. Il potenziale ruolo dei giovani invece, porterebbe idee ed energie nuove, e soprattutto innovazioni tecnologiche e scientifiche. I giovani, infatti, non vanno considerati esclusivamente dei futuri beneficiari, ma soprattutto una forza motrice di cambiamento duraturo ed immediato. Allo stesso modo, le conoscenze tradizionali detenute dalle comunità indigene sono da considerare una risorsa preziosa. Queste comunità, infatti, più di chiunque altro hanno piena consapevolezza di quale sia il migliore approccio per preservare gli ecosistemi forestali, avendo come strumento una tradizione secolare che ha già dimostrato in passato di essere vincente per un corretto mantenimento delle foreste. La FAO propone come soluzione ottimale a questa problematica una forma di governance condivisa, che risulta essere senza alcun dubbio una sintesi efficacie tra sapere tradizionale ed innovazione scientifica, consentendo una gestione sostenibile dal punto di vista economico, sociale e culturale. Cosa possiamo fare come singoli individui per contribuire alla protezione delle foreste? Nonostante sia evidente che molte delle strategie mirate nella lotta alla deforestazione derivino da decisioni prese a livelli istituzionali ed aziendali, il ruolo diretto di cittadini e consumatori rimane comunque cruciale nell’ottica di un impatto reale globale. Infatti, il nostro rapporto SOFO 2024 segnala come causa principale della deforestazione la conversione in uso agricolo delle foreste. Tradotto in termini pratici e concreti, quello che possiamo fare noi in qualità di cittadini, è rimodellare il nostro consumo e il nostro stile alimentare ai fini di renderlo più sostenibile e consapevole. Possiamo contribuire nel nostro piccolo a ridurre sprechi selezionando prodotti locali e di stagione, evitare lo spreco di carta, legno e cibo, selezionare prodotti certificati sostenibili, e preferendo aziende che siano trasparenti in merito alle pratiche adottate e sull’origine delle materie prime, e che agiscano nel pieno rispetto della copertura forestale e del suolo in generale. Il consiglio è, dunque, quello di non essere dei cittadini passivi, ma di dare il giusto peso all’educazione ambientale, approfondendo il tema della deforestazione e condividendone le buone pratiche, sostenendo iniziative e progetti concreti di riforestazione, e supportando leggi e politiche che diano il giusto peso alla sostenibilità ambientale. Giulia C. – Bologna / Firenze
Papa Francesco è morto. Non è la prima volta che un papa muore. Sapevamo tutti che ciò sarebbe accaduto e l’accadere all’ombra della Pasqua ci ha lasciati un sapore di bellezza e verità e sicuramente di stupore. Quando una persona muore affiorano pensieri di ogni genere, lacrime e domande e per alcuni liberazione. Un dato mi ha fatto pensare. Quando succede un fatto, quando muore qualcuno tanti di noi preti si gettano sui i social per dire la propria. È morto il papa, papa Francesco ma non ho letto, visto, percepito messaggi di cordoglio o post di riflessione. Le preghiere non sono mancate e non giudico io se tante o poche se buone o cattive, ma nessuna condivisione di pensieri. Non altrettanto ho raccolto da tanti laici del popolo di Dio e laici non credenti. Anzi da questi ultimi la preoccupazione per la fine di una storia, delle tante porte rimaste aperte ormai nel vuoto è più forte che tra tanti credenti. Forse avranno colto solo quanto interessava loro e non l’interezza della riflessione di Francesco? Ma noi credenti abbiamo colto tutto o solo quello che credevamo più giusto o coerente con il nostro pensare limitato? Ho sicuramente mal pensato che molti di noi sacerdoti ci siamo tolti … un peso. Il peso di una certa “confusione” o modalità di vivere la fede in tutti i suoi aspetti, propria di questo papa venuto dalla fine del mondo, poco consoni alla consuetudine. Ma torno ai laici, credenti e non. Il papa non è tutto Gesù o tutta la Chiesa, ne è una porzione. È una porzione buona se si inserisce nel grande cammino anche faticoso della vita cristiana. Quello che un papa, che anche questo papa ha testimoniato se è vero continuerà nella Chiesa con i tempi che lo Spirito santo saprà dettare. Papa Francesco sicuramente ha cercato di camminare in quella Chiesa tracciata dal Concilio Vaticano II e sapientemente riproposta da san Paolo VI. Non ho dei dati statistici ma i riferimenti di papa Francesco al magistero di Montini sono sicuramente maggiori che a tutti gli altri papi. Questo allora ci dice che la sua preoccupazione all’apertura al dialogo con tutti, con tutte le sue fatiche è il naturale proseguio dell’Ecclesiam Suam. Questo ci dice che la preoccupazione per i poveri e l’ambiente altro non è che l’evoluzione della poco ricordata Populorum Progressio. Allora, caro laico, posso confermarti che alcune preoccupazioni di papa Francesco, di questo papa che ti ha portato sulla soglia della fede, se sono sane e rispondenti al Vangelo non moriranno e troveranno le loro strade per svilupparsi. L’importante è che tu continui a scendere dal tuo divano e non smetti di fare chiasso anche quanto i divani dovessero invadere la terra e il chiasso essere coperto dai rumori di una società opulenta (due degli inviti di Francesco ai giovani). Papa Francesco si affidava a s. Teresina di Lisieux chiedendole non di risolvergli i problemi ma di aiutarlo a portarli. Facciamolo anche noi. E poiché sono un barnabita manteniamo quella discrezione tipicamente zaccariana, così come l’ha testimoniata il paliotto dell’altare della Confessione [1] mentre passava il feretro di papa Francesco e preghiamo perché sappiamo accogliere il nuovo pastore che la Provvidenza ci donerà nei prossimi giorni. Giannicola M. prete
[1] Il paliotto dell’altare della confessione è il medesimo utilizzato nel giorno della canonizzazione di sant’Antonio Maria Zaccaria rappresentato al centro. Una presenza reale e discreta.
Con gioia somma pubblichiamo questa riflessione di un nostro volontario chiamato a vegliare il corpo del papa nei giorni appena trascorsi.
Ci sono gesti che superano il tempo, tradizioni che non si spiegano, si vivono. Una di queste è la veglia dei giovani di Azione Cattolica accanto al corpo del Santo Padre. Un gesto antico, nato nel 1878 con le esequie di Pio IX, e che ha attraversato le generazioni fino a giungere a noi, oggi, dinanzi alle spoglie di Papa Francesco.
Ho avuto l’onore, e soprattutto la grazia, di essere oggi tra questi giovani. Non è facile descrivere ciò che ho provato in quel momento. Si entra nella Basilica di San Pietro col cuore pesante e colmo allo stesso tempo. Pesante per la perdita di una guida che ha saputo parlare al mondo con la dolcezza del Vangelo; colmo per la consapevolezza di essere parte di qualcosa di più grande, di un popolo che si raccoglie per dire grazie, per pregare, per sperare.
In quel turbinio interiore, mentre lo sguardo correva al volto del Papa, sono riaffiorate dentro di me tante sue immagini e parole ascoltate negli anni. Ma c’è un discorso che ha bussato con forza e si è fatto strada nel mio cuore: quel discorso che Papa Francesco ci aveva rivolto un anno fa, il 25 aprile 2024, proprio a noi di AC, in occasione dell’incontro del Santo Padre con l’Azione Cattolica Italiana: A braccia aperte, quando ci parlò di tre abbracci: “l’abbraccio che manca, l’abbraccio che salva, l’abbraccio che cambia la vita”.
Mi è tornato in mente proprio perché, osservando la folla che lentamente sfilava davanti a lui, ho avuto l’impressione fortissima che tutti, ognuno a suo modo, fossero lì come per abbracciarlo. Con gli occhi, con le mani giunte, con il silenzio e la preghiera. Un abbraccio collettivo, silenzioso, immenso. Come se tutti sentissero il bisogno di ricambiare, una volta ancora, ciò che avevano ricevuto da lui.
L’abbraccio che manca. In quelle ore, tra le volte di San Pietro e lo sguardo commosso dei fedeli, ho percepito una sete profonda: quella di un’umanità che ha bisogno di essere accolta, non respinta. Papa Francesco ha dato voce a chi abbracci non ne riceve: i migranti lasciati ai confini del mondo, i poveri dimenticati nelle periferie, i detenuti confinati nel silenzio, le vittime delle guerre dimenticate dai telegiornali. La sua voce è stata per molti il primo abbraccio dopo l’indifferenza. E ora, mentre il suo corpo giace in silenzio, è come se tutti venissero a restituirglielo: un popolo intero che si stringe, che lo ringrazia, che lo abbraccia.
L’abbraccio che salva. Vegliando, ho pensato a tutte le volte in cui Papa Francesco ci ha fatto riscoprire il Vangelo come luogo di tenerezza, non di paura. Ci ha parlato, soprattutto a noi giovani, spingendoci a credere non per difenderci dal mondo, ma per trasformarlo. Ci ha insegnato che “Dio ci ama così come siamo”. E che la Chiesa è soprattutto questo: un luogo dove essere amati, dove poter tornare anche dopo essersi smarriti. Una casa fatta di volti, di storie, di lacrime e speranza. E in quell’abbraccio mi sono riscoperto figlio: parte di una comunità che non pretende la perfezione, ma accoglie con misericordia. Una casa che ha il sapore di un’appartenenza vera, che dà senso e respiro alla vita.
E infine, l’abbraccio che cambia la vita. Sì, perché Papa Francesco, con il suo modo di essere Papa, ha cambiato la mia vita. Mi ha mostrato che la fede non è un rifugio dove chiudersi, ma uno slancio verso gli altri. Che essere laico nella Chiesa non è stare ai margini, ma essere corresponsabile e protagonista. Che noi giovani non dobbiamo aspettare il nostro turno, ma prenderci la parola adesso, con coraggio. Se oggi credo in una Chiesa che cammina insieme, che ascolta e si lascia interrogare, che accoglie le domande più che temerle, è anche perché lui ci ha creduto. È perché ci ha invitati ad essere “atleti e portabandiera di sinodalità”, a costruire una comunità che non esclude, ma accompagna.
E così, caro Papa Francesco, ho avuto la grazia di vegliare su di te… ma so che in fondo, eri tu che continuavi a vegliare su di me, su di noi. Nei volti commossi dei giovani che hanno condivisio con me questa esperienza, nelle mani giunte, negli occhi lucidi, c’era un popolo che ti diceva grazie. Per lo sguardo che ci hai insegnato ad avere. Per la Chiesa che ci hai aiutato a sognare.
E allora sì, voglio continuare ad abbracciare. Abbracciare la Chiesa, con la sua bellezza e le sue ferite. Abbracciare il mondo, nei suoi dolori e nei suoi sogni. Abbracciare le domande, le attese, le fatiche. E abbracciare, ogni giorno, la possibilità di essere segno vivo di quella speranza che tu ci hai insegnato a portare.
Grazie Papa Francesco. Ora lasciati abbracciare da Colui che ti ha preceduto nell’amore.
Incontro per la prima volta Zaid Ayasa, artista palestinese nato a Nablus, il 26 settembre del 2024, a Bari, in occasione dell’evento “Non saremo liberi finché non sarà libera la Palestina”, organizzato dall’associazione giovanile comunista “Cambiare Rotta”, all’Università degli Studi di Bari. In quel pomeriggio più voci si sono alternate cercando di trasmettere la gravità dell’occupazione e dello sterminio in Palestina: tutte con concitata partecipazione, meno che una, quella di Zaid. Nelle sue parole non risuonava alcuna commozione o disperazione, anche se queste descrivevano il genocidio del suo popolo. Ricordo il senso di straniamento che questo ha generato in me e che mi ha pervasa per tutta la durata del suo intervento. Solo quando Ayasa ha mostrato ai presenti le sue ultime opere, create con la tecnologia digitale, spiegando ciò che quelle immagini rappresentano, ho cominciato a percepire nella sua voce una profonda fatica, quella fatica che spesso riconosco in chi ha molto lavorato a qualcosa e poi si scontra con i limiti delle parole nel tentativo di esplicarla. Decido di intervistarlo. Lo aspetto tempo dopo in un bar nel centro di Bari ancora accompagnata da quella sensazione di stupore e incomprensione che avevo provato durante l’evento. Ci sediamo e cominciamo subito a parlare di quelle immagini, ancora vivide nella mia mente, e provo a rintracciare l’origine di quella fatica che avevo percepito nelle sue parole. Fatica che ancora non riuscivo a decifrare ma che, penso, rievocata, potrà aiutarmi a sciogliere quel nodo di incomprensione emotivo che pulsava nella mia mente. Zaid mi spiega che quelle opere fanno parte di un progetto dal titolo “In Box”, al quale, dice, tiene molto, e che sta portando in giro per le città della Puglia. Le osserviamo sul mio computer, e tra le molte decido di soffermarmi su una in particolare, con al centro una figura bianca, rappresentata con le gambe allungate e con i piedi che fanno pressione sulle pareti di una cella che sembra così dilatarsi (immagine 1). “Non rappresenta un prigioniero qualunque”, mi spiega Zaid, “ma il prigioniero palestinese”, e aggiunge che “nessuno, a mio modo di vedere e percepire la realtà, è davvero libero, nel mondo. Tuttavia la condizione detentiva elimina anche quella piccola parte di libertà che ognuno di noi ha. Ho voluto rappresentare questa condizione di privazione perché è quella che maggiormente mi colpisce. Per farlo ho cercato di immedesimarmi nel detenuto rinchiudendomi in una stanza per giorni. Volevo sentire fino in fondo quella disperazione”, conclude. E mentre lo ascolto e mentre osservo l’immagine, mi rendo conto che la testa del prigioniero ha forma quadrangolare. “Per me tutto ciò che è privazione è quadrato”, mi dice subito Zaid, e continua spiegandomi che “anche la forma dell’opera non è casuale: rappresenta le quattro mura della cella per questo non potevo rappresentare il prigioniero con la testa rotonda. Anche la mente del prigioniero è in una cella, la sua rotondità si perde nella costrizione delle mura”. A questo punto della conversazione Zaid si alza e comincia ad indicare gli angoli del bar in cui siamo seduti poiché, comprendo, cerca di farmi percepire quanto per lui ogni angolo sia sinonimo di oppressione, di privazione, di violenza e che per questo anche un bar nel centro di Bari, con la sala che ci accoglie, può diventare una cella se solo qualcuno volesse e avesse abbastanza potere renderla tale. Mi sembra così chiaro che il cerchio per Zaid è sinonimo di libertà, laddove il quadrato, caratterizzato da angoli che ingabbiano, rappresenta per lui l’oppressione. Assodata questa dicotomia, che costituisce la base del suo progetto, mi viene in mente un’altra sua opera, con in primo piano una testa, sempre quadrangolare, ma con al suo interno due figure dalla forma decisamente tondeggiante, e che sembrano due cactus (immagine 2). “Cactus in arabo si dice Sabar e vuol dire pazienza. Simbolo della resilienza per i palestinesi, non a caso, rappresenta anche la Palestina che, come la pianta, resiste. In qualsiasi stagione la pianta del cactus riesce a mantenere il suo colore verde. Per me è anche simbolo di attesa e di spiritualità”, dice Zaid.
Penso che, a questo punto, l’arte di Zaid sia chiaramente delineata nella mia mente e che ha assunto ormai contorni definiti. Tuttavia sento che ancora non sono riuscita a risolvere quel dubbio, sento di non aver completato il quadro della sua sensibilità nella mia mente, ancora una sensazione di incompletezza mi spinge a tentare altre vie. Gli sottopongo allora un’altra opera del suo progetto itinerante, in particolare quella con un enorme cuore rosso rappresentato al centro dello spazio dell’opera, che mi sembra esprimere potenza. Potenza che a questo punto associo alla sua forma estremamente tondeggiante (immagine 3). “È il cuore del prigioniero che è rimasto fedele alla sua forma, che non si è lasciato plasmare e opprimere dalla cella”, commenta Zaid. E mi fa notare come abbia rappresentato il cuore non solo capace di rimanere fedele a sé stesso, con la sua forma rotonda e quindi umana, ma anche capace di vincere la sfida contro la cella, contro il quadrato, contro gli angoli, oltrepassando le mura con le arterie. Il cuore per Zaid è dunque il simbolo della potenza dell’amore, della compassione, ma soprattutto, è il simbolo di resistenza. Ed è solo a questo punto che sento di avvicinarmi alla risposta che cercavo, alla comprensione piena di Zaid. Gli chiedo se quel cuore, forte e potente, lo rappresenti in qualche modo. “C’è un senso di vuoto dentro di me”, mi risponde subito e continua dicendo che “anche se sono momentaneamente in questa città, avverto le mura della cella di ogni palestinese davanti a me che mi separano dalle altre persone. Nessuno qui può davvero comprendermi e non solo perché non parlo ancora correttamente l’italiano e devo sempre esprimermi in inglese, ma perché le strade di Bari non sono quelle di Gaza. Io chiedo sempre a chi ha il piacere di parlare con me di immaginare che le strade di questa città siano come quelle in Palestina ora”. E anche se Zaid sente di non essere pienamente compreso, anche se un senso di alienazione sembra pervaderlo profondamente, capisco che quel cuore lo rappresenta comunque, e che quella potenza gli permette di sopportare quel senso di isolamento con spirito di resistenza e anche di fiducia, di apertura nei confronti del mondo, nonostante tutto. Ed è la sua resistenza che mi rende finalmente consapevole del fatto che, fino a quel momento, avevo compiuto un errore di prospettiva, di non essere stata consapevole della posizione privilegiata che ricopro rispetto a lui, mi fa rendere conto di non essere stata conscia del mio ruolo nell’intervista e soprattutto di non aver utilizzato gli strumenti adatti ad affrontare la sua sensibilità. La mia visuale, troppo viziata dalle aspettative comuni che prevedono un certo tipo di reazione di fronte al dolore della morte, la mia condizione socialmente e geograficamente privilegiata, la mia quotidianità troppo distante dalla sua causa nonostante la mia volontà di agire, non mi permettevano di decifrare il gelo delle parole di Zaid. Io, insomma, troppo figlia, appunto, di quel privilegio tutto occidentale, come potevo pretendere di arrivare ad una connessione piena con un dramma così atroce senza prima spogliarmi il più possibile del mio vissuto, della mia giornata tutto sommato sicura e protetta? Queste consapevolezze mi portano a spostare il piano dell’intervista su un altro livello, quello emotivo, senza ignorare la causa che lo caratterizza, e senza ignorare quel senso di resistenza, sperando così di accorciare la distanza tra me e Zaid. Eppure, prima di procedere, mi sono domandata quanto fossi disposta a sacrificare della mia distanza di sicurezza, quanto fossi disposta a mettere davvero alla prova la mia cassa di risonanza emotiva. Ma ho anche pensato che per riuscire a vedere Zaid e la sua causa, e non solo Zaid e il suo dramma, o solo la sua condizione di vittima, ma la totale complessità della sua figura, della sua storia, della sua origine, era necessario procedere diversamente. Sottopongo quindi a Zaid un articolo della giornalista israeliana Amira Hass che su Haaretz ha provato a tracciare un’analisi psicologica ed emotiva dei palestinesi di fronte alle immani perdite subite – secondo lo studio di Lancet sarebbero più di 70.000 – , poiché mi sembra, a questo punto, che anche questa tipologia di articoli e interrogativi si sviluppino proprio da quell’errore e da quello smisurato privilegio
politico e sociale che avevo riconosciuto essere anche il mio nei confronti di Zaid. Un privilegio possibile solo dietro quel muro di vetro che separa l’Occidente dal resto del mondo, possibile solo da un’ottica etnocentrica. Hass, ricordavo bene, rifletteva sulla condizione dei sopravvissuti palestinesi che, a suo giudizio, hanno dimostrato una qual certa insensibilità e apatia nei confronti della morte dei cari e pure nei confronti delle sorti della propria vita (https://www.internazionale.it/magazine/amira-hass/2024/01/04/le-famiglie-cancellate-nella-striscia-di-gaza?fbclid=IwY2xjawGZd1JleHRuA2FlbQIxMQABHdLdxH9fKii0KVuRIzF6xsQwX4zAbrCQkCok3zD8k3R5lpgGurBO lBEFHA_aem_looK8LS-yjDf5EvixQhLlg). Analizza, in definitiva, anche attraverso scritti come “La religio-politicizzazione del lutto nella società palestinese: genere, religione e nazionalità” di Maram Massarwa, come le innumerevoli morti violente, la cancellazione, in moltissimi casi, di intere famiglie, possa comportare conseguenze comportamentali disumane nei sopravvissuti. Questo il commento di Zaid: “La riflessione di Hass mi sembra giusta, ma il popolo palestinese non rischia l’apatia. Anzi, più che di apatia, io parlerei di capacità di saper attendere. Una capacità dettata da un’energia difficile da comprendere. Il prigioniero palestinese non smette mai di aspettare che il muro della cella si apra. La scrittrice israeliana non potrà vivere e non ha vissuto quello che i palestinesi stanno subendo. Il dolore dei palestinesi è semmai una moltiplicazione dell’empatia, è una sfida. Fa parte della lotta per la casa, per la terra, per la dignità e per il proprio diritto ad esistere. Il popolo palestinese è più potente di quella distruzione perché la resistenza costituisce la sua potenza. È una questione di ragioni: se si perde la propria ragione si perde anche se stessi. Non c’è un altro luogo da ricostruire se non la Palestina stessa ed è per questa che bisogna lottare”. Ed è così che quella definizione data da Maram Massarwa nel libro citato da Hass, che vede la resistenza palestinese come una “modalità di sopravvivenza”, stride ancora di più nelle mie orecchie. E mi sembra comprensibile, a questo punto, solo l’iniziale straniamento di fronte a una risposta emotiva che risulta inconsueta rispetto alla propria normalità, e invece del tutto ingiustificabile il trattamento cinico e a tratti disturbante delle sofferenze atroci dei palestinesi. Non solo: parlare di elaborazione del lutto nella società palestinese dal punto di vista emotivo senza considerare la resistenza anche politica che la caratterizza, mi sembra essere una scelta di comodo. Una scelta consapevole del rifiuto di quel fuoco e di quella dignità che sono la base di quell’apparente senso di apatia. Ed è per questo che adesso è necessario riflettere su quanto difficile sia riuscire e voler comprendere chi non condivide lo stesso modello culturale. Così come è fondamentale considerare che il dramma palestinese si inserisce in modo complesso tra interessi appunto, occidentali e sionistici fusi tra loro e che rendono la lettura del genocidio in atto in Palestina particolarmente impegnativo, anche dal punto di vista emotivo. Infatti, mi sento di dire, è proprio su questo aspetto che si annidano le difficoltà maggiori, sull’aspetto etico e morale, spesso considerato erroneamente al di fuori del quadro storico – politico e pure in modo fazioso. E non meno importante e disturbante è un altro aspetto concernente la scelta di comodo di voler trascurare il senso di resistenza palestinese: quello che riguarda, in questo caso a ragione, l’apatia di chi osserva. È innegabile che un senso di assuefazione e indifferenza abbia pervaso la maggior parte di coloro che hanno visto e vedono tutt’oggi rimbalzare in rete i video delle mutilazioni, dei corpi ricoperti da teli, del sangue e delle urla, degli arresti, delle umiliazioni, dei corpi senza vita dei bambini. E sebbene sia legittimo e comprensibile prendere le distanze dalla rappresentazione cruenta del dolore, è comunque deprecabile la totale indifferenza che si basa sull’appagante convinzione che ciò che accade in Palestina non sia in stretto collegamento col resto del mondo, con la quotidianità collettiva, pure nel caso in cui non si voglia considerare l’aspetto umano. Aspetto che, non è superfluo
sottolinearlo, dovrebbe spingere a considerare questo dramma come un dramma comune e a considerare la sua distanza solo come una excusatio. E alla fine di questa conversazione con Zaid, quel concetto di attesa che ha provato a spiegarmi, la spiritualità del cactus, la sua resistenza e resilienza, l’esigenza di libertà, il senso di soffocamento che ogni stanza può suscitare in chi ha vissuto gli anni della seconda intifada e che vive il genocidio del proprio popolo, e che come Zaid che indica gli angoli nel bar in cui siamo seduti può percepire negli angoli delle pareti di una stanza qualsiasi o di un bar una potenziale minaccia, hanno trovato un posto naturale nella mia mente e hanno spazzato via quella barriera di timorosa distanza che mi aveva portato ad esitare di fronte ad un dolore sconosciuto. “So bene che non è ancora arrivato il momento di cambiare la forma dell’opera. Quel quadrato, quella privazione di libertà, è ancora la mia cella, quella della Palestina e di qualsiasi prigioniero”, mi dice Zaid prima di salutarci. Una cella, un quadrato che rappresentano non solo la condizione di prigionia del detenuto, dei palestinesi, ma anche la prigionia di chi sa che non può essere compreso e non solo perché non è circondato da persone che hanno effettivamente vissuto lo stesso dramma, ma anche perché è consapevole del fatto che la vera comprensione passa necessariamente attraverso un reale sacrificio di normalità e di identità. Un sacrificio che risulta e che spesso vuole risultare troppo gravoso e troppo destabilizzante e che, tuttavia, pare più complesso a dirsi che a farsi. Negli angoli e nei vicoli che percorro per tornare a casa, che adesso anche per me sono parte di quadrati paralleli, ripenso al Sabar verde nella testa del prigioniero. E comprendo, infine, quanto anche questo in realtà sia parte di me e come io non abbia altra scelta se non quella di farlo crescere. Monica Nicoletti – Altamura
“Il carcere è diventato una basilica”. Sono le parole pronunciate da Papa Francesco dopo aver aperto la Porta Santa nel carcere di Rebibbia. Una frase che porta con sé un significato profondo e dirompente. Trasformare un luogo spesso percepito come simbolo di esclusione, sofferenza e punizione in uno spazio sacro e comunitario ribalta la prospettiva comune, ricordandoci che la presenza di Dio non conosce barriere. Con questo gesto, il Papa ha voluto ricordarci che dietro ogni sbarra si nascondono storie, dolori e speranze. E proprio rivolgendosi ai detenuti, Papa Francesco ha ricordato che “ognuno di noi può scivolare”, sottolineando quanto sia importante non perdere mai la speranza e quanto abbiamo il dovere di proteggere sempre la dignità umana, anche in situazioni di errore o fragilità. Ed è proprio la speranza il cuore di questo Anno Santo: con il motto “Pellegrini di speranza”, il Giubileo si fa portavoce di un messaggio universale di misericordia e riscatto, che abbraccia ogni persona, senza esclusioni. Eppure, pronunciare la parola “speranza” per chi ha vissuto il 2024 dietro le sbarre può sembrare un lusso irraggiungibile. Voltaire scriveva che “il grado di civiltà di un Paese si misura osservando le sue prigioni” e, leggendo il XX rapporto dell’Associazione Antigone sulle condizioni di detenzione, forse dovremmo interrogarci tutti quanti sul nostro grado di civiltà, come comunità e come Stato. I numeri della vergogna ci dicono che oggi il tasso di sovraffollamento è pari al 132,6%, con oltre 62 mila detenuti stipati in strutture che possono ospitarne poco meno di 47 mila. Strutture spesso vecchie e fatiscenti, alcune delle quali non garantiscono il funzionamento del riscaldamento (10,3%) e dell’acqua calda (48,3%). Strutture che disumanizzano, che trasformano le carceri in luoghi di degrado e sofferenza. Ma i dati si fanno ancora più angosciosi se si guardano i numeri dei decessi di detenuti nel 2024: 246 morti totali, di cui 90 suicidi , i numeri più alti che siano mai stati registrati. Record drammatici, che pesano come un macigno sulla nostra coscienza collettiva. Giovani, molti sotto i trent’anni, che hanno trovato nella morte l’unica via di fuga. Persone con un nome, una storia, un dolore, che dimostrano, sotto questo fronte, il nostro fallimento come società. Il riconoscimento e la garanzia della dignità umana per tutti i detenuti è un tema che è stato trattato anche dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo messaggio di fine anno; il Presidente, dicendo “I detenuti devono poter respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti alla illegalità e al crimine” (alla faccia di chi, invece, nel non far respirare i criminali prova “un’intima gioia”), ci ha voluto ricordare quanto sancito dalla nostra Costituzione, all’articolo 27: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Questo principio non è solo giuridico: è un imperativo morale. Garantire condizioni dignitose nelle carceri non è una concessione, è un obbligo. Guardando indietro al 2024, l’immagine che ci restituisce questo specchio è di cui vergognarsi. Ma la vergogna può essere un punto di partenza, un impulso al cambiamento. E il 2025, con il suo messaggio di speranza, ci offre l’opportunità di cambiare. Ma il cambiamento richiede coraggio. Coraggio per affrontare il problema del sovraffollamento, per migliorare le condizioni di vita nelle carceri, per investire in percorsi di rieducazione che diano una reale possibilità di riscatto. La speranza, per chi vive dietro le sbarre, non è un lusso: è un diritto. E per tutti noi è un dovere trattare con dignità chi ha sbagliato, che non è solo un atto di misericordia, ma una vera e propria prova di forza, oltre che un segno di civiltà. Che questo Anno della Speranza ci insegni a guardare alle carceri non come luoghi di vendetta, ma come spazi di cambiamento e di vita nuova. Perché un Paese che abbandona i più vulnerabili tradisce se stesso. Ma un Paese che offre a tutti una possibilità di riscatto è un Paese che può rinascere. Che il 2025, nel segno della “basilica” di Rebibbia, sia l’anno in cui il silenzio delle carceri si trasforma in voce di speranza. Per i detenuti, per le loro famiglie, per tutti noi. Per gentile concessione di AC – Roma Riccardo S. – Lodi
La nostra analisi dell’Enciclica “Laudato Sì” (3^ puntata) ci porta al suo secondo capitolo, quello destinato a una disamina delle “convinzioni di fede” che sostengono, per i cristiani, la necessità di sviluppare una nuova ecologia e di raggiungere il pieno sviluppo umano. Attraverso una breve esposizione ermeneutica del rapporto fra esseri umani e Mondo per come è presentato nei racconti biblici, l’obbiettivo è mostrare come i cristiani siano chiamati al rispetto dell’ambiente, non solo in quanto persone abitanti di questa terra, ma in quanto i loro doveri verso la natura, il creato e il Creatore sono parte della loro stessa fede. Papa Francesco parte dalla consapevolezza che nel dibattito politico, la visione ecologica della religione viene rilegata all’ambito dell’irrazionale. Tuttavia, invita a uno sguardo più ampio e omnicomprensivo, che tenga conto di come scienza e religione possano fornire approcci diversi alla realtà, entrando in dialogo l’una con l’altra. Dal racconto della Creazione, ad esempio, emerge l’immenso valore della vita della persona umana, creata per amore di Dio, a sua immagine e somiglianza, mostrando come l’impegno per la difesa della dignità degli uomini e delle donne sia profondamente radicato nel messaggio biblico. L’esistenza umana, secondo il libro della Genesi, si basa su tre relazioni fondamentali: quella con Dio, quella con il prossimo e quella con la natura. Il Peccato rompe queste relazioni e trasforma queste relazioni da armoniose a conflittuali. L’uomo e la donna, però, sono chiamati a “coltivare e custodire” la Terra che è stata data loro da Dio, e hanno quindi una grande responsabilità nel rispettare le leggi della Natura, dal momento che tutte le creature hanno un valore in se stesse. Tale valore intrinseco non è, però, divinizzazione: il pensiero ebraico-cristiano, infatti demitizza la natura, continuando ad ammirarla nel suo splendore e immensità, senza per attribuirle un carattere divino. A maggior ragione, quindi, è necessario l’impegno umano nei suoi confronti e l’assunzione di responsabilità nel riconoscere la fragilità di un mondo di cui gli esseri umani sono chiamati a prendersi cura, orientando coltivando e limitando il potere che esercitano. Allo stesso tempo, questa visione non deve indurre a pensare gli esseri viventi come subordinati all’arbitrio e dominio dell’essere umano. L’immagine della natura come oggetto di profitto e interesse, infatti, porta a diseguaglianze, ingiustizie e violenza, a situazioni in cui “il vincitore prende tutto”, e si contrappone radicalmente all’ideale di armonia, giustizia e pace proposto da Gesù e dal cristianesimo. “Lo scopo finale delle altre creature non siamo noi. Invece tutte avanzano (…) verso la meta comune che è Dio”. (LSì 83). Il Papa sottolinea come tramite la dinamica relazione fra essere umano e natura, questo impara a conoscere se stesso, scoprendo che, oltre alla rivelazione contenuta nelle Sacre Scritture, il divino si manifesta anche nello “sfolgorare del sole e nel calore della notte”, in un processo di scoperta del sé in relazione alle altre creature, in cui si esplora la propria sacralità esplorando quella del mondo. In questo modo, quindi, comprendiamo il profondo significato di ogni creatura, poiché le differenze e le peculiarità di ognuna significano che nessuna può bastare a se stessa e che esse esistono solo in dipendenza le une dalle altre, al servizio le une delle altre. La prospettiva è quindi quella in cui l’uomo ha comunque un suo valore peculiare che però, proprio per questo, implica che abbia una grande responsabilità. L’ultima parte di questo secondo capitolo si concentra su quella che viene definita la “destinazione sociale dei beni”. La terra, infatti, è un bene comune i cui frutti devono andare a beneficio di tutti, e questo per i credenti diventa una questione di fede. La prospettiva ecologica del cristianesimo deve quindi tenere conto della dimensione sociale e dei diritti fondamentali delle persone. Riprendendo le parole di Giovanni Paolo II, papa Francesco spiega come la proprietà privata per la Chiesa sia legittima ma subordinata alla sua funzione sociale che è intrinsecamente parte dei beni che Dio ha creato per tutti, con una destinazione generale. (LSì 93). A questo seguono le riflessioni dei vescovi del Paraguay sul diritto di ogni contadino a possedere della terra per il proprio sostentamento e il diritto a un’istruzione e aiuti finanziari, e dei vescovi della Nuova Zelanda che si interrogano perché davvero il comandamento del “non uccidere” sia rispettato quando il 20% della popolazione mondiale consuma tante risorse da privare tutti gli altri di ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere. Infine, si ricorda come Gesù stesso nei racconti biblici mostri spesso l’importanza e il valore della natura, nella sua relazione con Dio, contemplandone la bellezza e la presenza del Padre, vivendo in perfetta armonia con la natura stessa. La comprensione della realtà per il cristianesimo, infine, trova il suo completamento nel mistero di Cristo, che si fa carne, inserendosi come parte del cosmo creato, operando fin da principio con e nella realtà naturale, senza lederne l’autonomia. Giulia C. -Bologna
Dopo un’attesa di 3 anni Hwang Dong-hyuk, insieme a Netflix, fa uscire la seconda stagione di una delle serie tv più iconiche degli ultimi anni: Squid Game. Il successo mondiale è stato clamoroso e per diversi aspetti ricorda tanto quello avuto dalla Casa di Carta (vedi la divisa simbolica o le canzoni). È risaputo infatti come la società statunitense di streaming sia abile a cavalcare l’onda del momento sfruttando al meglio tutte le sue munizioni, spesso snaturandole. Per chi non lo sapesse, la prima stagione ci mostra come la vita di Gi-Hun Seon sia alla deriva: sommerso dai debiti, un matrimonio fallito e una madre profondamente delusa che deve sopperire all’incapacità del figlio di guadagnarsi da vivere. Con i creditori alle calcagna, Gi-Hun Seon decide di accettare l’invito per partecipare a un gioco nel quale si possono vincere tanti soldi. Così si ritrova invischiato, insieme a numerosi disperati, in una competizione strutturata in una serie di giochi che ricordano l’infanzia. Inizialmente ricorda molto una Battle Royale, ma il fattore che la distingue è quel mood di nichilismo derivato da una profonda consapevolezza della propria situazione sociale che caratterizza i protagonisti della serie: non importa se chi perde muore, i protagonisti arrivano a scegliere di continuare il gioco di loro spontanea volontà anche quando gli si presenta la possibilità di interromperlo. La seconda stagione ripercorre lo stesso credo della prima. La caratterizzazione dei personaggi, che va a creare una vicenda profondamente umana e al tempo stesso anche politica, fa sì che lo spettatore riesca a immedesimarsi creando continue situazioni di pathos. Squid Game attraverso una serie di giochi mortali si rifà al dramma vissuto da migliaia di persone più di 40 anni fa. In Corea, qualche decennio dopo la Guerra di inizio anni ’50 e a ridosso dei giochi Asiatici del 1986 e Olimpici del 1988, furono istituiti una serie di centri di assistenza sociale per reprimere il vagabondaggio e purificare le città da quella che al tempo era considerata feccia. Migliaia erano i detenuti (con altrettanti deceduti) e la polizia veniva ricompensata per questa pulizia collettiva. La serie vuole quindi far emergere una non troppo velata critica sociale. Al giorno d’oggi la società è sempre più composta da spazzatura (pensiamo alle pubblicità, ai social, all’ignoranza in televisione o sui giornali), persone superficiali, disposte a tutto pur di prevalere sulle altre, egoiste e disposte a tutto. È un campanello d’allarme sulla società di oggi. La serie lo denota chiaramente fino ad arrivare all’apice: la morte che non è solo una conseguenza, ma sottolinea l’assurdità della condizione umana. Molto significativo è stato quando migliaia di persone povere, potendo scegliere un solo regalo, hanno preferito giocare d’azzardo piuttosto che mangiare. A seguito di questa scena, su internet sono diventati virali molti esperimenti di questo tipo e purtroppo anche nella vita reale ci sono state un sacco di persone senza nulla, drogate o tossiche che hanno preferito farsi regalare un gratta e vinci piuttosto che un pasto. Questo è lo specchio di una società malata dove, e lo si vede soprattutto nelle grosse metropoli, moltissime persone sono irrazionali e ragionano di pancia senza ponderare le loro scelte. È lo specchio dell’assurdità della società. Veramente ci possono essere persone che al giorno d’oggi si alterano fino a preferire l’incerto al certo nonostante abbiano bisogno del certo?
Torre de’ Picenardi, un piccolo ma vivace borgo vicino a Cremona, Sabato 1 febbraio si è conclusa la mostra “Fotografare la felicità” presso il cinema teatro SOMS, realtà sociale organizzata e curata da alcuni giovani locali. La mostra, realizzata dal nostro volontario Andrea Bianchini con contributi di Giuseppe della Morte e Fabio Cambielli, in collaborazione con il gruppo di volontari del comune del cremasco, aveva l’obiettivo di promuovere le nostre missioni attraverso le fotografie delle avventure vissute negli anni passati. Non solo mostrare delle fotografie, ma far percepire la bellezza della felicità attraverso uno scatto. Andrea ha raffigurato alcune scene degli incontri dei bambini, dei giovani e degli adulti con i nostri giovani volontari nelle missioni in Albania (2015-2022), Messico (2023) e Brasile (2024). La mostra, in particolare, riportava come soggetti i volti delle persone incontrate in questi anni, esponendo non solo i lati positivi ma anche le difficoltà raccolte con stupore e attenzione durate il nostro percorso. La mostra si è chiusa a Torre de’ Picenardi ma le fotografie continueranno a viaggiare in altri luoghi d’Italia perché altri possano entrare in contatto con la realtà dei Barnabiti sempre aperte ai nostri giovani. Michele, Marta e Arturo
Pare che per presunti ovvi motivi la “giornata della memoria” di ieri sia passata un po’ in sordina, in qualche angolo della prima pagina, rispetto gli anni passati. Con la sola pretesa di opinioni personali, per quanto ho cercato di ragionare, credo che non ci si possa esimere dal tenere viva la memoria. Capisco non sia facile ragionare su questa necessaria giornata in questo tempo in cui si denuncia Israele, l’Israele attuale, per i misfatti nei confronti dei palestinesi. Non posso però mischiare la “memoria” con la situazione attuale di Israele, perché la ferita di Israele (anche per quanti non sostengono l’attuale governo) subita il 7 ottobre è troppo grande nonostante la sproporzione della ferita inferta al popolo palestinese. 80 anni fa è accaduto un fatto, un fatto che non si può dimenticare perché è storia della nostra umanità, è storia per formare l’umanità. Non è facile ricordare, spesso non si vuole ricordare, sembra inutile ricordare. Ricordare per conoscere e imparare, non per piaggeria o per fare un piacere a… Ricordare e conoscere per continuare a vivere con rispetto della vita anche e specialmente quando la vita sembra essere in pericolo. Non è mai stato facile celebrare questa giornata “imposta” dall’alto, ma nata dalla storia di chi l’ha vissuta. La storia di chi l’ha vissuta credo sia il motivo principale per cui rispettare questa giornata. Il venire meno dei testimoni diretti di questa tragedia sia ancora di più il motivo principale per cui celebrare questa Memoria. Non è facile dilatare questa memoria oltre il 27 gennaio, ma si deve. Lo si deve per le generazioni successive, lo si deve per combattere l’antisemitismo, lo si deve per mantenere viva la memoria di tutte le tragedie del passato (penso solo agli Armeni) e del futuro. Lo si deve per combattere l’indifferenza di chi ieri abitava e viveva come su nulla fosse accanto ad Auschwitz, di chi pensava di non essere direttamente responsabile, l’indifferenza di chi oggi pensa ci siano questioni più importanti. Ho approfittato ieri nell’ascoltare e leggere alcune riflessioni in più, è vero, ne evidenzio solo due: «Fanni (morta a 102 anni, sposa di Mik ucciso a 34 anni) si sarà chiesta tante volte, dove fosse finito il Dio in cui credeva durante quegli anni. Ma non si servì mai di quella domanda per giustificarne l’inesistenza, perché conosceva la risposta: «Ero dove era l’amore, ero dove era il dolore. Ero dove era tuo marito, ero dove eri tu. Sono dove siete voi. E lì sarò sempre». (CorSera) «Bisognerebbe spiegare ai bambini che agli ebrei venivano invertite le mani e che può succedere anche a loro. Mi è stato chiesto come parlerò a mio figlio della Shoah. Gli farò leggere In quelle tenebre di Gitta Sereny e gli farò vedere Bastardi senza gloria: bisogna sempre conoscere quello che è stato per saperlo riconoscere se te lo trovi davanti, e sapere cosa fare nel caso qualcuno volesse invertirti le mani». (LaSt). Giannicola M. Simone