La resistenza palestinese e l’arte quadrangolare di Zaid Ayasa

Incontro per la prima volta Zaid Ayasa, artista palestinese nato a Nablus, il 26 settembre del
2024, a Bari, in occasione dell’evento “Non saremo liberi finché non sarà libera la Palestina”,
organizzato dall’associazione giovanile comunista “Cambiare Rotta”, all’Università degli
Studi di Bari. In quel pomeriggio più voci si sono alternate cercando di trasmettere la gravità
dell’occupazione e dello sterminio in Palestina: tutte con concitata partecipazione, meno che
una, quella di Zaid. Nelle sue parole non risuonava alcuna commozione o disperazione, anche
se queste descrivevano il genocidio del suo popolo. Ricordo il senso di straniamento che
questo ha generato in me e che mi ha pervasa per tutta la durata del suo intervento. Solo
quando Ayasa ha mostrato ai presenti le sue ultime opere, create con la tecnologia digitale,
spiegando ciò che quelle immagini rappresentano, ho cominciato a percepire nella sua voce
una profonda fatica, quella fatica che spesso riconosco in chi ha molto lavorato a qualcosa e
poi si scontra con i limiti delle parole nel tentativo di esplicarla. Decido di intervistarlo.
Lo aspetto tempo dopo in un bar nel centro di Bari ancora accompagnata da quella sensazione
di stupore e incomprensione che avevo provato durante l’evento. Ci sediamo e cominciamo
subito a parlare di quelle immagini, ancora vivide nella mia mente, e provo a rintracciare
l’origine di quella fatica che avevo percepito nelle sue parole. Fatica che ancora non riuscivo
a decifrare ma che, penso, rievocata, potrà aiutarmi a sciogliere quel nodo di incomprensione
emotivo che pulsava nella mia mente. Zaid mi spiega che quelle opere fanno parte di un
progetto dal titolo “In Box”, al quale, dice, tiene molto, e che sta portando in giro per le città
della Puglia. Le osserviamo sul mio computer, e tra le molte decido di soffermarmi su una in
particolare, con al centro una figura bianca, rappresentata con le gambe allungate e con i
piedi che fanno pressione sulle pareti di una cella che sembra così dilatarsi (immagine 1).
“Non rappresenta un prigioniero qualunque”, mi spiega Zaid, “ma il prigioniero
palestinese”, e aggiunge che “nessuno, a mio modo di vedere e percepire la realtà, è davvero
libero, nel mondo. Tuttavia la condizione detentiva elimina anche quella piccola parte di
libertà che ognuno di noi ha. Ho voluto rappresentare questa condizione di privazione
perché è quella che maggiormente mi colpisce. Per farlo ho cercato di immedesimarmi nel
detenuto rinchiudendomi in una stanza per giorni. Volevo sentire fino in fondo quella
disperazione”, conclude.
E mentre lo ascolto e mentre osservo l’immagine, mi rendo conto che la testa del prigioniero
ha forma quadrangolare. “Per me tutto ciò che è privazione è quadrato”, mi dice subito Zaid,
e continua spiegandomi che “anche la forma dell’opera non è casuale: rappresenta le
quattro mura della cella per questo non potevo rappresentare il prigioniero con la testa
rotonda. Anche la mente del prigioniero è in una cella, la sua rotondità si perde nella
costrizione delle mura”. A questo punto della conversazione Zaid si alza e comincia ad
indicare gli angoli del bar in cui siamo seduti poiché, comprendo, cerca di farmi percepire
quanto per lui ogni angolo sia sinonimo di oppressione, di privazione, di violenza e che per
questo anche un bar nel centro di Bari, con la sala che ci accoglie, può diventare una cella se
solo qualcuno volesse e avesse abbastanza potere renderla tale. Mi sembra così chiaro che il
cerchio per Zaid è sinonimo di libertà, laddove il quadrato, caratterizzato da angoli che
ingabbiano, rappresenta per lui l’oppressione. Assodata questa dicotomia, che costituisce la
base del suo progetto, mi viene in mente un’altra sua opera, con in primo piano una testa,
sempre quadrangolare, ma con al suo interno due figure dalla forma decisamente
tondeggiante, e che sembrano due cactus (immagine 2). “Cactus in arabo si dice Sabar e
vuol dire pazienza. Simbolo della resilienza per i palestinesi, non a caso, rappresenta anche
la Palestina che, come la pianta, resiste. In qualsiasi stagione la pianta del cactus riesce a
mantenere il suo colore verde. Per me è anche simbolo di attesa e di spiritualità”, dice Zaid.

Penso che, a questo punto, l’arte di Zaid sia chiaramente delineata nella mia mente e che ha
assunto ormai contorni definiti. Tuttavia sento che ancora non sono riuscita a risolvere quel
dubbio, sento di non aver completato il quadro della sua sensibilità nella mia mente, ancora
una sensazione di incompletezza mi spinge a tentare altre vie. Gli sottopongo allora un’altra
opera del suo progetto itinerante, in particolare quella con un enorme cuore rosso
rappresentato al centro dello spazio dell’opera, che mi sembra esprimere potenza. Potenza
che a questo punto associo alla sua forma estremamente tondeggiante (immagine 3). “È il
cuore del prigioniero che è rimasto fedele alla sua forma, che non si è lasciato plasmare e
opprimere dalla cella”, commenta Zaid. E mi fa notare come abbia rappresentato il cuore
non solo capace di rimanere fedele a sé stesso, con la sua forma rotonda e quindi umana, ma
anche capace di vincere la sfida contro la cella, contro il quadrato, contro gli angoli,
oltrepassando le mura con le arterie. Il cuore per Zaid è dunque il simbolo della potenza
dell’amore, della compassione, ma soprattutto, è il simbolo di resistenza.
Ed è solo a questo punto che sento di avvicinarmi alla risposta che cercavo, alla
comprensione piena di Zaid. Gli chiedo se quel cuore, forte e potente, lo rappresenti in
qualche modo. “C’è un senso di vuoto dentro di me”, mi risponde subito e continua dicendo
che “anche se sono momentaneamente in questa città, avverto le mura della cella di ogni
palestinese davanti a me che mi separano dalle altre persone. Nessuno qui può davvero
comprendermi e non solo perché non parlo ancora correttamente l’italiano e devo sempre
esprimermi in inglese, ma perché le strade di Bari non sono quelle di Gaza. Io chiedo sempre
a chi ha il piacere di parlare con me di immaginare che le strade di questa città siano come
quelle in Palestina ora”. E anche se Zaid sente di non essere pienamente compreso, anche se
un senso di alienazione sembra pervaderlo profondamente, capisco che quel cuore lo
rappresenta comunque, e che quella potenza gli permette di sopportare quel senso di
isolamento con spirito di resistenza e anche di fiducia, di apertura nei confronti del mondo,
nonostante tutto. Ed è la sua resistenza che mi rende finalmente consapevole del fatto che,
fino a quel momento, avevo compiuto un errore di prospettiva, di non essere stata
consapevole della posizione privilegiata che ricopro rispetto a lui, mi fa rendere conto di non
essere stata conscia del mio ruolo nell’intervista e soprattutto di non aver utilizzato gli
strumenti adatti ad affrontare la sua sensibilità. La mia visuale, troppo viziata dalle
aspettative comuni che prevedono un certo tipo di reazione di fronte al dolore della morte, la
mia condizione socialmente e geograficamente privilegiata, la mia quotidianità troppo
distante dalla sua causa nonostante la mia volontà di agire, non mi permettevano di decifrare
il gelo delle parole di Zaid. Io, insomma, troppo figlia, appunto, di quel privilegio tutto
occidentale, come potevo pretendere di arrivare ad una connessione piena con un dramma
così atroce senza prima spogliarmi il più possibile del mio vissuto, della mia giornata tutto
sommato sicura e protetta?
Queste consapevolezze mi portano a spostare il piano dell’intervista su un altro livello, quello
emotivo, senza ignorare la causa che lo caratterizza, e senza ignorare quel senso di resistenza,
sperando così di accorciare la distanza tra me e Zaid. Eppure, prima di procedere, mi sono
domandata quanto fossi disposta a sacrificare della mia distanza di sicurezza, quanto fossi
disposta a mettere davvero alla prova la mia cassa di risonanza emotiva. Ma ho anche pensato
che per riuscire a vedere Zaid e la sua causa, e non solo Zaid e il suo dramma, o solo la sua
condizione di vittima, ma la totale complessità della sua figura, della sua storia, della sua
origine, era necessario procedere diversamente. Sottopongo quindi a Zaid un articolo della
giornalista israeliana Amira Hass che su Haaretz ha provato a tracciare un’analisi psicologica
ed emotiva dei palestinesi di fronte alle immani perdite subite – secondo lo studio di Lancet
sarebbero più di 70.000 – , poiché mi sembra, a questo punto, che anche questa tipologia di
articoli e interrogativi si sviluppino proprio da quell’errore e da quello smisurato privilegio

politico e sociale che avevo riconosciuto essere anche il mio nei confronti di Zaid. Un
privilegio possibile solo dietro quel muro di vetro che separa l’Occidente dal resto del
mondo, possibile solo da un’ottica etnocentrica. Hass, ricordavo bene, rifletteva sulla
condizione dei sopravvissuti palestinesi che, a suo giudizio, hanno dimostrato una qual certa
insensibilità e apatia nei confronti della morte dei cari e pure nei confronti delle sorti della
propria vita (https://www.internazionale.it/magazine/amira-hass/2024/01/04/le-famiglie-cancellate-nella-striscia-di-gaza?fbclid=IwY2xjawGZd1JleHRuA2FlbQIxMQABHdLdxH9fKii0KVuRIzF6xsQwX4zAbrCQkCok3zD8k3R5lpgGurBO
lBEFHA_aem_looK8LS-yjDf5EvixQhLlg
). Analizza, in definitiva, anche attraverso scritti come “La
religio-politicizzazione del lutto nella società palestinese: genere, religione e nazionalità” di
Maram Massarwa, come le innumerevoli morti violente, la cancellazione, in moltissimi casi,
di intere famiglie, possa comportare conseguenze comportamentali disumane nei
sopravvissuti.
Questo il commento di Zaid: “La riflessione di Hass mi sembra giusta, ma il popolo
palestinese non rischia l’apatia. Anzi, più che di apatia, io parlerei di capacità di saper
attendere. Una capacità dettata da un’energia difficile da comprendere. Il prigioniero
palestinese non smette mai di aspettare che il muro della cella si apra. La scrittrice
israeliana non potrà vivere e non ha vissuto quello che i palestinesi stanno subendo. Il dolore
dei palestinesi è semmai una moltiplicazione dell’empatia, è una sfida. Fa parte della lotta
per la casa, per la terra, per la dignità e per il proprio diritto ad esistere. Il popolo
palestinese è più potente di quella distruzione perché la resistenza costituisce la sua potenza.
È una questione di ragioni: se si perde la propria ragione si perde anche se stessi. Non c’è
un altro luogo da ricostruire se non la Palestina stessa ed è per questa che bisogna lottare”.
Ed è così che quella definizione data da Maram Massarwa nel libro citato da Hass, che vede
la resistenza palestinese come una “modalità di sopravvivenza”, stride ancora di più nelle mie
orecchie. E mi sembra comprensibile, a questo punto, solo l’iniziale straniamento di fronte a
una risposta emotiva che risulta inconsueta rispetto alla propria normalità, e invece del tutto
ingiustificabile il trattamento cinico e a tratti disturbante delle sofferenze atroci dei
palestinesi. Non solo: parlare di elaborazione del lutto nella società palestinese dal punto di
vista emotivo senza considerare la resistenza anche politica che la caratterizza, mi sembra
essere una scelta di comodo. Una scelta consapevole del rifiuto di quel fuoco e di quella
dignità che sono la base di quell’apparente senso di apatia.
Ed è per questo che adesso è necessario riflettere su quanto difficile sia riuscire e voler
comprendere chi non condivide lo stesso modello culturale. Così come è fondamentale
considerare che il dramma palestinese si inserisce in modo complesso tra interessi appunto,
occidentali e sionistici fusi tra loro e che rendono la lettura del genocidio in atto in Palestina
particolarmente impegnativo, anche dal punto di vista emotivo. Infatti, mi sento di dire, è
proprio su questo aspetto che si annidano le difficoltà maggiori, sull’aspetto etico e morale,
spesso considerato erroneamente al di fuori del quadro storico – politico e pure in modo
fazioso. E non meno importante e disturbante è un altro aspetto concernente la scelta di
comodo di voler trascurare il senso di resistenza palestinese: quello che riguarda, in questo
caso a ragione, l’apatia di chi osserva. È innegabile che un senso di assuefazione e
indifferenza abbia pervaso la maggior parte di coloro che hanno visto e vedono tutt’oggi
rimbalzare in rete i video delle mutilazioni, dei corpi ricoperti da teli, del sangue e delle urla,
degli arresti, delle umiliazioni, dei corpi senza vita dei bambini. E sebbene sia legittimo e
comprensibile prendere le distanze dalla rappresentazione cruenta del dolore, è comunque
deprecabile la totale indifferenza che si basa sull’appagante convinzione che ciò che accade
in Palestina non sia in stretto collegamento col resto del mondo, con la quotidianità collettiva,
pure nel caso in cui non si voglia considerare l’aspetto umano. Aspetto che, non è superfluo

sottolinearlo, dovrebbe spingere a considerare questo dramma come un dramma comune e a
considerare la sua distanza solo come una excusatio.
E alla fine di questa conversazione con Zaid, quel concetto di attesa che ha provato a
spiegarmi, la spiritualità del cactus, la sua resistenza e resilienza, l’esigenza di libertà, il senso
di soffocamento che ogni stanza può suscitare in chi ha vissuto gli anni della seconda intifada
e che vive il genocidio del proprio popolo, e che come Zaid che indica gli angoli nel bar in
cui siamo seduti può percepire negli angoli delle pareti di una stanza qualsiasi o di un bar una
potenziale minaccia, hanno trovato un posto naturale nella mia mente e hanno spazzato via
quella barriera di timorosa distanza che mi aveva portato ad esitare di fronte ad un dolore
sconosciuto.
“So bene che non è ancora arrivato il momento di cambiare la forma dell’opera. Quel
quadrato, quella privazione di libertà, è ancora la mia cella, quella della Palestina e di
qualsiasi prigioniero”, mi dice Zaid prima di salutarci. Una cella, un quadrato che
rappresentano non solo la condizione di prigionia del detenuto, dei palestinesi, ma anche la
prigionia di chi sa che non può essere compreso e non solo perché non è circondato da
persone che hanno effettivamente vissuto lo stesso dramma, ma anche perché è consapevole
del fatto che la vera comprensione passa necessariamente attraverso un reale sacrificio di
normalità e di identità. Un sacrificio che risulta e che spesso vuole risultare troppo gravoso e
troppo destabilizzante e che, tuttavia, pare più complesso a dirsi che a farsi. Negli angoli e nei
vicoli che percorro per tornare a casa, che adesso anche per me sono parte di quadrati
paralleli, ripenso al Sabar verde nella testa del prigioniero. E comprendo, infine, quanto
anche questo in realtà sia parte di me e come io non abbia altra scelta se non quella di farlo
crescere.
Monica Nicoletti – Altamura

Carcere come basilica

“Il carcere è diventato una basilica”. Sono le parole pronunciate da Papa Francesco dopo aver aperto la Porta Santa nel carcere di Rebibbia.
Una frase che porta con sé un significato profondo e dirompente. Trasformare un luogo spesso percepito come simbolo di esclusione, sofferenza e punizione in uno spazio sacro e comunitario ribalta la prospettiva comune, ricordandoci che la presenza di Dio non conosce barriere. Con questo gesto, il Papa ha voluto ricordarci che dietro ogni sbarra si nascondono storie, dolori e speranze. E proprio rivolgendosi ai detenuti, Papa Francesco ha ricordato che “ognuno di noi può scivolare”, sottolineando quanto sia importante non perdere mai la speranza e quanto abbiamo il dovere di proteggere sempre la dignità umana, anche in situazioni di errore o fragilità.
Ed è proprio la speranza il cuore di questo Anno Santo: con il motto “Pellegrini di speranza”, il Giubileo si fa portavoce di un messaggio universale di misericordia e riscatto, che abbraccia ogni persona, senza esclusioni.
Eppure, pronunciare la parola “speranza” per chi ha vissuto il 2024 dietro le sbarre può sembrare un lusso irraggiungibile.
Voltaire scriveva che “il grado di civiltà di un Paese si misura osservando le sue prigioni” e, leggendo il XX rapporto dell’Associazione Antigone sulle condizioni di detenzione, forse dovremmo interrogarci tutti quanti sul nostro grado di civiltà, come comunità e come Stato.
I numeri della vergogna ci dicono che oggi il tasso di sovraffollamento è pari al 132,6%, con oltre 62 mila detenuti stipati in strutture che possono ospitarne poco meno di 47 mila. Strutture spesso vecchie e fatiscenti, alcune delle quali non garantiscono il funzionamento del riscaldamento (10,3%) e dell’acqua calda (48,3%). Strutture che disumanizzano, che trasformano le carceri in luoghi di degrado e sofferenza.
Ma i dati si fanno ancora più angosciosi se si guardano i numeri dei decessi di detenuti nel 2024: 246 morti totali, di cui 90 suicidi , i numeri più alti che siano mai stati registrati. Record drammatici, che pesano come un macigno sulla nostra coscienza collettiva. Giovani, molti sotto i trent’anni, che hanno trovato nella morte l’unica via di fuga. Persone con un nome, una storia, un dolore, che dimostrano, sotto questo fronte, il nostro fallimento come società.
Il riconoscimento e la garanzia della dignità umana per tutti i detenuti è un tema che è stato trattato anche dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo messaggio di fine anno; il Presidente, dicendo “I detenuti devono poter respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti alla illegalità e al crimine” (alla faccia di chi, invece, nel non far respirare i criminali prova “un’intima gioia”), ci ha voluto ricordare quanto sancito dalla nostra Costituzione, all’articolo 27: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Questo principio non è solo giuridico: è un imperativo morale. Garantire condizioni dignitose nelle carceri non è una concessione, è un obbligo. Guardando indietro al 2024, l’immagine che ci restituisce questo specchio è di cui vergognarsi. Ma la vergogna può essere un punto di partenza, un impulso al cambiamento.
E il 2025, con il suo messaggio di speranza, ci offre l’opportunità di cambiare. Ma il cambiamento richiede coraggio. Coraggio per affrontare il problema del sovraffollamento, per migliorare le condizioni di vita nelle carceri, per investire in percorsi di rieducazione che diano una reale possibilità di riscatto.
La speranza, per chi vive dietro le sbarre, non è un lusso: è un diritto. E per tutti noi è un dovere trattare con dignità chi ha sbagliato, che non è solo un atto di misericordia, ma una vera e propria prova di forza, oltre che un segno di civiltà.
Che questo Anno della Speranza ci insegni a guardare alle carceri non come luoghi di vendetta, ma come spazi di cambiamento e di vita nuova. Perché un Paese che abbandona i più vulnerabili tradisce se stesso. Ma un Paese che offre a tutti una possibilità di riscatto è un Paese che può rinascere.
Che il 2025, nel segno della “basilica” di Rebibbia, sia l’anno in cui il silenzio delle carceri si trasforma in voce di speranza. Per i detenuti, per le loro famiglie, per tutti noi.
Per gentile concessione di AC – Roma
Riccardo S. – Lodi

Il Vangelo della creazione

La nostra analisi dell’Enciclica “Laudato Sì” (3^ puntata) ci porta al suo secondo capitolo, quello destinato a una disamina delle “convinzioni di fede” che sostengono, per i cristiani, la necessità di sviluppare una nuova ecologia e di raggiungere il pieno sviluppo umano. Attraverso una breve esposizione ermeneutica del rapporto fra esseri umani e Mondo per come è presentato nei racconti biblici, l’obbiettivo è mostrare come i cristiani siano chiamati al rispetto dell’ambiente, non solo in quanto persone abitanti di questa terra, ma in quanto i loro doveri verso la natura, il creato e il Creatore sono parte della loro stessa fede.
Papa Francesco parte dalla consapevolezza che nel dibattito politico, la visione ecologica della religione viene rilegata all’ambito dell’irrazionale. Tuttavia, invita a uno sguardo più ampio e omnicomprensivo, che tenga conto di come scienza e religione possano fornire approcci diversi alla realtà, entrando in dialogo l’una con l’altra.
Dal racconto della Creazione, ad esempio, emerge l’immenso valore della vita della persona umana, creata per amore di Dio, a sua immagine e somiglianza, mostrando come l’impegno per la difesa della dignità degli uomini e delle donne sia profondamente radicato nel messaggio biblico.
L’esistenza umana, secondo il libro della Genesi, si basa su tre relazioni fondamentali: quella con Dio, quella con il prossimo e quella con la natura. Il Peccato rompe queste relazioni e trasforma queste relazioni da armoniose a conflittuali. L’uomo e la donna, però, sono chiamati a “coltivare e custodire” la Terra che è stata data loro da Dio, e hanno quindi una grande responsabilità nel rispettare le leggi della Natura, dal momento che tutte le creature hanno un valore in se stesse.
Tale valore intrinseco non è, però, divinizzazione: il pensiero ebraico-cristiano, infatti demitizza la natura, continuando ad ammirarla nel suo splendore e immensità, senza per attribuirle un carattere divino. A maggior ragione, quindi, è necessario l’impegno umano nei suoi confronti e l’assunzione di responsabilità nel riconoscere la fragilità di un mondo di cui gli esseri umani sono chiamati a prendersi cura, orientando coltivando e limitando il potere che esercitano.
Allo stesso tempo, questa visione non deve indurre a pensare gli esseri viventi come subordinati all’arbitrio e dominio dell’essere umano. L’immagine della natura come oggetto di profitto e interesse, infatti, porta a diseguaglianze, ingiustizie e violenza, a situazioni in cui “il vincitore prende tutto”, e si contrappone radicalmente all’ideale di armonia, giustizia e pace proposto da Gesù e dal cristianesimo. “Lo scopo finale delle altre creature non siamo noi. Invece tutte avanzano (…) verso la meta comune che è Dio”. (LSì 83).
Il Papa sottolinea come tramite la dinamica relazione fra essere umano e natura, questo impara a conoscere se stesso, scoprendo che, oltre alla rivelazione contenuta nelle Sacre Scritture, il divino si manifesta anche nello “sfolgorare del sole e nel calore della notte”, in un processo di scoperta del sé in relazione alle altre creature, in cui si esplora la propria sacralità esplorando quella del mondo. In questo modo, quindi, comprendiamo il profondo significato di ogni creatura, poiché le differenze e le peculiarità di ognuna significano che nessuna può bastare a se stessa e che esse esistono solo in dipendenza le une dalle altre, al servizio le une delle altre. La prospettiva è quindi quella in cui l’uomo ha comunque un suo valore peculiare che però, proprio per questo, implica che abbia una grande responsabilità.
L’ultima parte di questo secondo capitolo si concentra su quella che viene definita la “destinazione sociale dei beni”. La terra, infatti, è un bene comune i cui frutti devono andare a beneficio di tutti, e questo per i credenti diventa una questione di fede. La prospettiva ecologica del cristianesimo deve quindi tenere conto della dimensione sociale e dei diritti fondamentali delle persone. Riprendendo le parole di Giovanni Paolo II, papa Francesco spiega come la proprietà privata per la Chiesa sia legittima ma subordinata alla sua funzione sociale che è intrinsecamente parte dei beni che Dio ha creato per tutti, con una destinazione generale. (LSì 93). A questo seguono le riflessioni dei vescovi del Paraguay sul diritto di ogni contadino a possedere della terra per il proprio sostentamento e il diritto a un’istruzione e aiuti finanziari, e dei vescovi della Nuova Zelanda che si interrogano perché davvero il comandamento del “non uccidere” sia rispettato quando il 20% della popolazione mondiale consuma tante risorse da privare tutti gli altri di ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere.
Infine, si ricorda come Gesù stesso nei racconti biblici mostri spesso l’importanza e il valore della natura, nella sua relazione con Dio, contemplandone la bellezza e la presenza del Padre, vivendo in perfetta armonia con la natura stessa. La comprensione della realtà per il cristianesimo, infine, trova il suo completamento nel mistero di Cristo, che si fa carne, inserendosi come parte del cosmo creato, operando fin da principio con e nella realtà naturale, senza lederne l’autonomia.
Giulia C. -Bologna

SQUID GAME 2: BISOGNO DEL CERTO O DELL’INCERTO

Dopo un’attesa di 3 anni Hwang Dong-hyuk, insieme a Netflix, fa uscire la seconda stagione di una delle serie tv più iconiche degli ultimi anni: Squid Game.
Il successo mondiale è stato clamoroso e per diversi aspetti ricorda tanto quello avuto dalla Casa di Carta (vedi la divisa simbolica o le canzoni). È risaputo infatti come la società statunitense di streaming sia abile a cavalcare l’onda del momento sfruttando al meglio tutte le sue munizioni, spesso snaturandole.
Per chi non lo sapesse, la prima stagione ci mostra come la vita di Gi-Hun Seon sia alla deriva: sommerso dai debiti, un matrimonio fallito e una madre profondamente delusa che deve sopperire all’incapacità del figlio di guadagnarsi da vivere. Con i creditori alle calcagna, Gi-Hun Seon decide di accettare l’invito per partecipare a un gioco nel quale si possono vincere tanti soldi. Così si ritrova invischiato, insieme a numerosi disperati, in una competizione strutturata in una serie di giochi che ricordano l’infanzia. Inizialmente ricorda molto una Battle Royale, ma il fattore che la distingue è quel mood di nichilismo derivato da una profonda consapevolezza della propria situazione sociale che caratterizza i protagonisti della serie: non importa se chi perde muore, i protagonisti arrivano a scegliere di continuare il gioco di loro spontanea volontà anche quando gli si presenta la possibilità di interromperlo.
La seconda stagione ripercorre lo stesso credo della prima. La caratterizzazione dei personaggi, che va a creare una vicenda profondamente umana e al tempo stesso anche politica, fa sì che lo spettatore riesca a immedesimarsi creando continue situazioni di pathos.
Squid Game attraverso una serie di giochi mortali si rifà al dramma vissuto da migliaia di persone più di 40 anni fa. In Corea, qualche decennio dopo la Guerra di inizio anni ’50 e a ridosso dei giochi Asiatici del 1986 e Olimpici del 1988, furono istituiti una serie di centri di assistenza sociale per reprimere il vagabondaggio e purificare le città da quella che al tempo era considerata feccia. Migliaia erano i detenuti (con altrettanti deceduti) e la polizia veniva ricompensata per questa pulizia collettiva. La serie vuole quindi far emergere una non troppo velata critica sociale.
Al giorno d’oggi la società è sempre più composta da spazzatura (pensiamo alle pubblicità, ai social, all’ignoranza in televisione o sui giornali), persone superficiali, disposte a tutto pur di prevalere sulle altre, egoiste e disposte a tutto. È un campanello d’allarme sulla società di oggi. La serie lo denota chiaramente fino ad arrivare all’apice: la morte che non è solo una conseguenza, ma sottolinea l’assurdità della condizione umana.
Molto significativo è stato quando migliaia di persone povere, potendo scegliere un solo regalo, hanno preferito giocare d’azzardo piuttosto che mangiare. A seguito di questa scena, su internet sono diventati virali molti esperimenti di questo tipo e purtroppo anche nella vita reale ci sono state un sacco di persone senza nulla, drogate o tossiche che hanno preferito farsi regalare un gratta e vinci piuttosto che un pasto. Questo è lo specchio di una società malata dove, e lo si vede soprattutto nelle grosse metropoli, moltissime persone sono irrazionali e ragionano di pancia senza ponderare le loro scelte. È lo specchio dell’assurdità della società. Veramente ci possono essere persone che al giorno d’oggi si alterano fino a preferire l’incerto al certo nonostante abbiano bisogno del certo?

Marco C. – Milano

CALL FOR ARTIST

Torre de’ Picenardi, un piccolo ma vivace borgo vicino a Cremona, Sabato 1 febbraio
si è conclusa la mostra “Fotografare la felicità” presso il cinema teatro SOMS, realtà
sociale organizzata e curata da alcuni giovani locali.
La mostra, realizzata dal nostro volontario Andrea Bianchini con contributi di Giuseppe
della Morte e Fabio Cambielli, in collaborazione con il gruppo di volontari del comune
del cremasco, aveva l’obiettivo di promuovere le nostre missioni attraverso le
fotografie delle avventure vissute negli anni passati. Non solo mostrare delle
fotografie, ma far percepire la bellezza della felicità attraverso uno scatto.
Andrea ha raffigurato alcune scene degli incontri dei bambini, dei giovani e degli adulti
con i nostri giovani volontari nelle missioni in Albania (2015-2022), Messico (2023) e
Brasile (2024).
La mostra, in particolare, riportava come soggetti i volti delle persone incontrate in
questi anni, esponendo non solo i lati positivi ma anche le difficoltà raccolte con
stupore e attenzione durate il nostro percorso.
La mostra si è chiusa a Torre de’ Picenardi ma le fotografie continueranno a viaggiare
in altri luoghi d’Italia perché altri possano entrare in contatto con la realtà dei Barnabiti
sempre aperte ai nostri giovani.
Michele, Marta e Arturo

Ieri, la giornata della memoria.

Pare che per presunti ovvi motivi la “giornata della memoria” di ieri sia passata un po’ in sordina, in qualche angolo della prima pagina, rispetto gli anni passati.
Con la sola pretesa di opinioni personali, per quanto ho cercato di ragionare, credo che non ci si possa esimere dal tenere viva la memoria.
Capisco non sia facile ragionare su questa necessaria giornata in questo tempo in cui si denuncia Israele, l’Israele attuale, per i misfatti nei confronti dei palestinesi. Non posso però mischiare la “memoria” con la situazione attuale di Israele, perché la ferita di Israele (anche per quanti non sostengono l’attuale governo) subita il 7 ottobre è troppo grande nonostante la sproporzione della ferita inferta al popolo palestinese.
80 anni fa è accaduto un fatto, un fatto che non si può dimenticare perché è storia della nostra umanità, è storia per formare l’umanità. Non è facile ricordare, spesso non si vuole ricordare, sembra inutile ricordare. Ricordare per conoscere e imparare, non per piaggeria o per fare un piacere a… Ricordare e conoscere per continuare a vivere con rispetto della vita anche e specialmente quando la vita sembra essere in pericolo. Non è mai stato facile celebrare questa giornata “imposta” dall’alto, ma nata dalla storia di chi l’ha vissuta. La storia di chi l’ha vissuta credo sia il motivo principale per cui rispettare questa giornata. Il venire meno dei testimoni diretti di questa tragedia sia ancora di più il motivo principale per cui celebrare questa Memoria.
Non è facile dilatare questa memoria oltre il 27 gennaio, ma si deve. Lo si deve per le generazioni successive, lo si deve per combattere l’antisemitismo, lo si deve per mantenere viva la memoria di tutte le tragedie del passato (penso solo agli Armeni) e del futuro.
Lo si deve per combattere l’indifferenza di chi ieri abitava e viveva come su nulla fosse accanto ad Auschwitz, di chi pensava di non essere direttamente responsabile, l’indifferenza di chi oggi pensa ci siano questioni più importanti.
Ho approfittato ieri nell’ascoltare e leggere alcune riflessioni in più, è vero, ne evidenzio solo due:
«Fanni (morta a 102 anni, sposa di Mik ucciso a 34 anni) si sarà chiesta tante volte, dove fosse finito il Dio in cui credeva durante quegli anni. Ma non si servì mai di quella domanda per giustificarne l’inesistenza, perché conosceva la risposta: «Ero dove era l’amore, ero dove era il dolore. Ero dove era tuo marito, ero dove eri tu. Sono dove siete voi. E lì sarò sempre». (CorSera)
«Bisognerebbe spiegare ai bambini che agli ebrei venivano invertite le mani e che può succedere anche a loro.
Mi è stato chiesto come parlerò a mio figlio della Shoah. Gli farò leggere In quelle tenebre di Gitta Sereny e gli farò vedere Bastardi senza gloria: bisogna sempre conoscere quello che è stato per saperlo riconoscere se te lo trovi davanti, e sapere cosa fare nel caso qualcuno volesse invertirti le mani». (LaSt).
Giannicola M. Simone

Il sabato santo del cristianesimo

C’è un grande scrivere e leggere su come pensare e ri-pensare la Chiesa oggi, in questa situazione di scristianizzazione e indifferenza verso la questione Dio, indifferenza che è più drammatica delle riflessioni ateistiche.
Tutte le analisi che la Chiesa pensante sta producendo in questi ultimi anni sono sicuramente stimolanti. Non che prima non pensasse e/o producesse, però ultimamente le riflessioni giocano sul fatto dell’indifferenza verso le cose di Dio.
Quando parlo con i giovani dico sempre loro che sono bravi, buoni e sanamente egoisti, ma non hanno più il senso del mistero o del sacro, quindi le loro doti restano doti e non diventano virtù. La scristianizzazione li tocca in prima persona. Se poi si cerca di riflettere su ciò l’impresa è più che ardua, forse impossibile. Usano un altro linguaggio. Ma la riflessione è difficile anche con gli adulti.
Come poter ripensare la fede, come poter superare (per usare la bella sintesi di papa Francesco) il si è sempre fatto così?
Se il giubileo di Paolo Vi e Giovanni Paolo II si sono aperti in tempi felici e stimolanti il germogliare di cose nuove, questo giubileo si apre in un mondo a pezzi: forse per questo la scelta della virtù della speranza come stella polare del pellegrinaggio giubilare.
Molti non hanno la consapevolezza del non dovere sempre fare così, molti ritengono che si debba continuare a fare sempre così, perché è più rassicurante, ma anche perché non è facile capire cosa si dovrebbe fare di nuovo.
L’evolversi della Tradizione nel passato è avvenuto in modo chiaro o lo si è scoperto solo dopo? Perché il problema oggi è proprio capire come far crescere la Tradizione. Uso coscientemente “crescere la Tradizione” perché sappiamo che la Tradizione è tale solo quando è capace di crescere, altrimenti muore.
I fedeli laici, ma non solo loro, possono anche leggere questo o quel documento, ma poi si fermano, perché non c’è la forza e il tempo di affrontare “il crescere della Tradizione”. Sanno che la maggior parte dei propri figli frequenta un mondo non cristiano, sanno che la maggior parte dei propri figli non frequenta la messa domenicale, sanno… ma non sanno come reagire.
La realtà che si deve affrontare, talvolta combattere, la realtà dalla quale si può trarre anche del bene è una realtà troppo grande e troppo disinteressata per i fondamentali della fede e quindi ci si ferma. Non in modo apatico o scoraggiato, semplicemente ci si ferma, forse come ci si fermò in Quel sabato santo.
Probabilmente dobbiamo imparare a vivere con maggiore cura il sabato santo della fede di oggi, se vogliamo che si possa risorgere con il Risorto.
San Giovanni Crisostomo scriveva: I magi non si misero in cammino perché avevano visto la stella ma videro la stella perché si erano messi in cammino.

ll sano disordine del 2024

Quello che sta accadendo alla nostra terra

Continua la lettura dell’enciclica “Laudato si” di papa Francesco / 2

Il primo capitolo dell’enciclica è dedicato all’esposizione degli effetti del cambiamento climatico: attraverso l’esposizione divulgativa di risultati di ricerche e studi scientifici, l’obbiettivo è quello di dare un contesto all’interno de quale poter poi inquadrare riflessioni di natura più filosofica e teologica. Molta importanza è posta nel sottolineare le inequità prodotte dal cambiamento climatico, andando ad aggravare ulteriormente la situazione di vita in zone della Terra più povere e in gruppi di popolazione più svantaggiati.
Il punto di partenza dell’esposizione è una riflessione sul tema della “rapidaciòn”, l’accelerazione dei cambiamenti dell’umanità e del pianeta, che contrasta con la naturale lentezza dell’evoluzione biologica, e che non sempre è rivolta al raggiungimento del bene comune e allo sviluppo umano.
Il clima, però, è un bene comune, è un “sistema complesso in relazione con molte condizioni essenziali per la vita umana”. Gli stili di vita, i modelli produttivi e di consumo della società contemporanea, basati sulla cultura dello scarto, sia umano sia materiale, sulla produzione di rifiuti e inquinamento, sono perciò individuati come le principali cause dei cambiamenti climatici. La questione delle radici umane del cambiamento climatico, tuttavia, verrà approfondita in un capitolo successivo.
Quali sono, quindi, gli effetti del cambiamento climatico?
Il primo effetto in analisi è quello dell’esaurimento delle risorse naturali, in particolare di acqua potabile, elemento fondamentale e indispensabile per la sopravvivenza umana, animale e del sostentamento degli ecosistemi e necessario nei settori sanitari, agricoli e industriali. La problematica non risiede solo nella costante diminuzione della quantità d’acqua dolce disponibile, specialmente in zone già di per sé vulnerabili, ma anche nella scarsa qualità dell’acqua, soprattutto in zone urbane povere del mondo, causa di numerosi morti al giorno. Altra questione è infine legata alla privatizzazione dell’acqua, che si scontra con la salvaguardia dei diritti umani fondamentali, data l’essenzialità delle fonti idriche nella sopravvivenza umana. La scarsità d’acqua, unita alla sua privatizzazione, porterà inoltre ad un aumento dei costi degli alimenti che dipendono dal suo uso, aggravando ulteriormente le condizioni economiche e sociali di gran parte della popolazione.
Il secondo effetto è quello della perdita della biodiversità, dovuta all’utilizzo intensivo delle risorse forestali e boschive e dal massiccio sfruttamento delle risorse oceaniche. Il danno legato alla perdita di specie animali e di biodiversità è primariamente legato al valore intrinseco di cui esse sono dotate, e non bastano interventi tecnologici volti a mitigare gli effetti di questo sfruttamento e a limitare gli interventi umani che rischino di modificare la fisionomia dei territo ri. L’analisi si sofferma sull’impatto delle politiche di deforestazione e degli interessi economici internazionali sui principali ecosistemi di biodiversità terrestri, tra cui la foresta Amazzonica e il Bacino Fluviale del Congo, e sulle politiche di estrazione di risorse ittiche attuate nei grandi Oceani.
La terza categoria di effetti è legata al deterioramento della qualità della vita umana e alla degradazione sociale, specialmente in contesti urbani caotici, inquinati, privi di spazi verdi pubblici, in condizioni economiche complesse, ponendo l’attenzione ancora una volta sulla questione dell’inequità degli effetti del cambiamento climatico.
Il quarto effetto citato è appunto l crescita delle diseguaglianze: “il deterioramento dell’ambiente e quello della società colpiscono in modo speciale i più deboli del pianeta”, gli esclusi e marginalizzati. Queste persone vengono spesso presentate nel dibattito pubblico come delle appendici, o degli effetti collaterali, il discorso mediatico non vi si sofferma, perché troppo lontani e troppo “scomodi” da poter raccontare, di fatto mettendo le necessità di queste persone all’ultimo posto nella scala di priorità di molti piani di attuazione concreta. Dobbiamo pertanto riconoscere che il vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che ascolti sia il grido della terra sia quello dei più poveri.
L’inequità non è solo una questione microeconomica, a livello individuale, ma assume rilevanza di portata macroeconomica nel momento in cui parliamo di diseguaglianze fra Paesi interi, in particolare articolati sull’asse di diseguaglianza Nord-Sud Globale. Le esportazioni di materie prime, principalmente a vantaggio dei mercati dei paesi del Nord, producono forme di inquinamento nei paesi di estrazione, che spesso vengono anche scelti per lo smaltimento di rifiuti prodotti dalle industrie. Gli effetti del riscaldamento climatico impattano soprattutto paesi già vulnerabili e poveri, che uniscono siccità ad aumento di temperature. Molte multinazionali scelgono paesi del Sud Globale per attuare politiche industriali inquinanti e basate sullo sfruttamento dei lavoratori, che altrimenti non potrebbero attuare nei paesi che apportano le fonti di capitale. Ciò che è importante notare è che il cambiamento climatico ha responsabilità diversificate, dal momento che molti dei paesi in via di sviluppo non hanno spesso possibilità tecniche per adottare modelli di riduzione dell’impatto ambientale ne fondi sufficienti per coprirne i costi di realizzazione. La soluzione proposta nell’Enciclica è quella di apportare risorse economiche per promuovere programmi di sviluppo sostenibile.
A queste problematiche si lega la debolezza delle reazioni e le diversità di opinioni sul tema del cambiamento climatico. Spesso, infatti, la sottomissione della politica agli interessi economici di gruppi di interesse e corporations porta alla manipolazione di informazioni e, soprattutto, alla mancanza di azioni pratiche che possano andare a minare i loro interessi economici di breve periodo. Ai danni ambientai dovuti all’inazione dei governi si lega un’altra questione di primaria importanza, specialmente nel contesto globale contemporaneo, cioè il rischio di escalation di conflitti per la lotta a risorse sempre più scarse. Oggi più che mai appare permeante l’appello del Papa alla necessità di agire politicamente per prevenire nuove guerre e nuove sofferenze.

Giulia C. – Amsterdam

Ragazzi come?

Quest’estate mi sono accorto come non mai che i nuovi adolescenti sono molto differenti da me e dai miei coetanei. È come se la mia generazione avesse avuto un’altra educazione, forse più severa, più libera o forse una giovinezza senza filtri tecnologici.
Non so ancora di preciso a cosa sia dovuto questo fatto, ma sono certo che i ragazzi della mia generazione o di quelle precedenti portavano molto più rispetto sia ai loro coetanei sia alle persone più anziane. Non so se questo sia dato da una società più rispettosa, con ancora dei valori etici, morali e religiosi oppure da un fatto legato ad una fase di passaggio. Sta di fatto però che prima ai ragazzini difficilmente si ripetevano le cose. Ora vedo, ad esempio, che il barista riprende dei giovani al tavolo del suo locale perché appoggiano i piedi sulle sedie e questi anziché scusarsi, o comunque toglierli, lo deridono come se le sedie fossero di loro proprietà soltanto perché pagano la consumazione. Penso che gran parte della colpa sia di una società perbenista che fa sì che la persona si senta e cresca in una botte di ferro tale per cui niente e nessuno possa mettergli i piedi in testa. È la società di oggi che tende a far crescere un figlio così; si è diventati troppo buoni per paura di sbagliare o perché “non è corretto punire un bambino”. Ma siamo sicuri che la maniera con la quale si educavano i figli una volta erano scorretti? Se un bambino sbaglia, bisogna fargli capire l’errore e attraverso una punizione più o meno severa lui potrà apprenderlo meglio. È lo stesso metodo che vediamo negli sport, con lo Stato e nella dinamica: a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria; quindi, a ogni errore corrisponde una punizione. A furia di far passare come normalità la mancanza di “no” o di punizioni, il bambino crescerà sicuro di sé e delle sue azioni, o meglio, sicuro di essere sempre più bravo degli altri mancandogli spesso di rispetto. Non è un caso se un mio carissimo amico, un uomo di una notevole stazza, mi ha confessato di vedere sempre più incivili nel suo locale che spingono la gente senza chiedere né “permesso” né “mi scusi”. Quante volte si sente di docenti aggredite verbalmente o peggio fisicamente per il solo fatto di aver messo una nota o un brutto voto dopo un’interrogazione? Pazzesco, roba che mette i brividi solo a sentirla. Purtroppo, anche i genitori stessi spesso intervengono in favore dei propri figli e questo li rende ancora più forti, consci del fatto di avere un ulteriore scudo.
Altro punto interessante che manifesta l’ignoranza delle nuove leve penso siano i Social. Essi hanno influito parecchio nelle loro vite; soprattutto il fatto di vivere con e dentro di essi, ha reso i giovani delle persone molto superficiali e disattente. Io stesso mi ci metto dentro. Nel senso che non abbiamo più la pazienza di aspettare che una cosa arrivi perché siamo abituati a un click per ottenere ogni tipo di informazione. Non è un caso che le App sono studiate per far sì che le persone stiano più a lungo con l’App aperta e quindi si cerca di creare contenuti sempre più brevi. Legato al discorso internet, se già con la mia generazione i giovani sognavano un successo come calciatore o velina, questa generazione pensa di poter avere successo senza bisogno di impegnarsi e gran parte di essa sogna di poter diventare un influencer senza però sapere che la percentuale di successo è minore rispetto al diventare uno sportivo di professione. Infine, ancora più grave, c’è il fatto che veramente si pensi di poter guadagnare bei soldi vendendo la propria immagine e il proprio corpo senza pudore. E in effetti, quanto costa farsi 1 foto da inviare ad uno sconosciuto? Forse 5 secondi. Ma qui è normale che un ragazzo lo pensi, bisogna prima educarlo e fargli capire cosa c’è dietro quello che lui vede. Non voglio giudicare e neanche fare confronti tra generazioni perché non ha letteralmente senso. Però, oggi dare un telefonino ad un bambino è un grosso azzardo. È un gesto che può portare a molti rischi, tra cui il fatto di dare la possibilità al giovane di entrare e conoscere in un mondo 2.0 dentro il quale tu genitore hai difficilmente accesso. Da qui, vediamo giovani che conoscono il sesso, la droga e l’alcol. Insomma, ragazzi che crescono in fretta e forse anche troppo. E sempre da qui che poi possiamo vedere ragazzi sempre più ignoranti che prediligono programmi trash a programmi di cultura. Sono abituati fin da subito a vedere queste cose, abituati a vedere video spazzatura e abituati al nulla. Ricordiamoci che tutto, se usato nella maniera corretta è di grande aiuto. Penso quindi che le cose debbano essere date a tempo debito, con una profonda ed attenta formazione. È infatti una critica anche e soprattutto alla generazione nata tra il ’70 e ’80, la generazione che in Italia ha vissuto nella ricchezza del boom economico e che quindi ha una visione della vita sicuramente positiva e rosea. Vivendo quindi lo splendore del nostro Paese, possono forse sottostimare o non comprendere a pieno i rischi che ci sono, soprattutto con le nuove tecnologie.
“Ma ai miei tempi la vita era migliore!”? So che ci sono adolescenti molto in gamba, con la testa sulle spalle e la voglia di spaccare il mondo. Come so che esistono adulti maleducati che vivono portando rispetto solo per sé stessi. La mia speranza rimane quella di una società più spensierata, ma al contempo stesso con principi etici e religiosi solidi e coerenti cosicché i giovani possano magari farsi un’idea della vita traendo vantaggio dai lati positivi dei loro predecessori.
Marco C. – Milano