“Dalla quercia alla foresta”, una mostra racconta il popolo del fiume

di Lucia Capuzzi, Avvenire 22 novembre 2025
Questa volta l’articolo parla di noi quindi possiamo pubblicarlo!
Il progetto di Barnabiti Aps portato avanti da un gruppo di italiani che ha aiutato i ragazzi di Benavides a raccontare per immagini l’impatto dell’emergenza climatica sul proprio territorio a Belém.
Jorge ripara le sue reti. Anche questa notte tornerà sul Rio Guamá nonostante il pesce si faccia, giorno dopo giorno, più scarso. Lui e suo fratello Pedro hanno deciso di resistere. Sono fra i pochi giovani ad essere rimasti nella comunità lungo il fiume e non essere emigrati a Benavides, propaggine della cintura urbana di Belém. Negli ultimi anni la sua popolazione è esplosa man mano che gli effetti del riscaldamento globale hanno distrutto l’economia delle zone rurali. Il numero di allievi dell’istituto José do Patrocinio è cresciuto ma la gran parte lascia gli studi dopo qualche mese a causa delle precarie condizioni economiche. Da qui la necessità di aumentare l’impegno contro la dispersione, come raccontano la maestra Vitoria e la preside Edileusa. Sono questi alcuni dei protagonisti della mostra “Dalla quercia alla foresta”, progetto realizzato da Barnabiti Aps.
Un gruppo di under trenta italiani, tra cui il fotografo Andrea Bianchini, guidati da padre Giannicola Simone, ha aiutato i ragazzi di Benavides a raccontare per immagini l’impatto dell’emergenza climatica sul proprio territorio. Il risultato è una serie di scatti semplici ma di alto impatto emotivi, esposti nei giorni della Conferenza Onu sul clima nel Santuario di Nostra Signora di Nazaré, cuore religioso di Belém e del Brasile, dove l’esposizione verrà portata per sensibilizzare scuole e centri sociali. Dall’Amazzonia, poi, tornerà anche in Italia per far capire quanto il degrado della foresta, da cui dipende la regolazione delle piogge globali, riguardi tutti.

Giovani, violenza e due proposte

NON POSSIAMO CHIAMARCI FUORI
di Marco Erba, insegnante
È vero che non si potrebbe postare articoli di altro giornale, però facciamo una eccezione considerato il tema trattato
La notizia dell’arresto dei cinque giovani che lo scorso 12 ottobre hanno aggredito e massacrato di botte un 22enne a Milano, mi ha sconvolto profondamente, mi ha tolto il respiro: gravissimo l’atto, impensabile ci che è avvenuto dopo: la proposta di postare il video, la fierezza per la propria azione, la totale mancanza di pentimento. Ascoltavo e l’angoscia prevaleva persino sulla rabbia.
Come possono quei giovani mostrarsi così vuoti, spietati, superficiali? Questo mi ha devastato: il vuoto assoluto di sensibilità, l’assenza totale di responsabilità, il deserto di umanità.
Subito, urgente, è sorta una domanda.
Perché? Non ho risposte. Sono certo che nessuna persona nasca marcia, cattiva. Non condivido come molti li hanno definiti: branco, bestie, mostri. No: sono persone proprio come me e come chi legge. Con questo dobbiamo fare i conti. Definirli bestie e mostri non serve: li relega in un’altra dimensione, come fossero degli alieni cattivi capitati per sventura sulla strada di un poveraccio. Alieni infestanti, che bisogna chiudere in una gabbia o eliminare (moltissimi commenti social invocano la pena di morte). Ma è un’illusione: quei ragazzi non vengono da un altrove buio: possono essere i nostri figli o i loro amici.
Con questo dobbiamo fare i conti.
Forse, più che definirli mostri, dobbiamo chiederci cosa possiamo fare come genitori, come insegnanti, come educatori. Io me lo chiedo tutti i giorni, davanti alla massa di sofferenza che emerge dai temi e dalle confidenze di molti, troppi miei allievi. Cosa posso fare per combattere questo disagio che sia annida sempre più spesso tra i giovani e i giovanissimi? Come posso impedire che questo male porti a fare del male?
Anche qui, non ho risposte definitive. Forse perché ci sono alcuni nostri atteggiamenti sui quali, alla luce di questi fatti tremendi, possiamo riflettere, metterci in gioco. Provo a indicarne due, senza alcuna pretesa di esaustività. Per prima cosa, possiamo passare dalla logica della competizione alla logica del dono. Se competere in certi casi può essere uno stimolo positivo, il mito della competizione che ha invaso ogni ambito della vita, a volte anche la scuola, è devastante. Se l’obiettivo della mia vita è arrivare a ogni costo, se tutti mi hanno sempre detto che devo primeggiare, rischio di vedere le altre persone non come potenziali compagni di viaggio, ma come avversari da battere. E se non riesco a primeggiare, finisco per sentirmi un fallito. Se sbaglio, se mi perdo, penso di non valere niente: e allora mi chiudo in casa, faccio del male a me stesso (sono in aumento vertiginoso gli hikikomori, i disturbi alimentari e l’autolesionismo tra gli adolescenti); o, peggio, faccio del male agli altri (sono in aumento i reati compiuti da minorenni). Se mi sento escluso dalla gara dei migliori, il rischio è che io imponga la mia presenza distruggendo, colpendo gli altri, urlando che esisto, rovinando le esistenze altrui. Se mi sento non visto e perdente, c’è il rischio che io sfoghi la mia frustrazione schiacciando gli altri con la violenza, per sentirmi capace di prevalere almeno così. Se non mi sento stimato dagli altri, il rischio è che mi accontenti di essere temuto. Ben diversa è la logica del dono, antidoto alla competizione esasperata. La logica del dono spinge a vedere gli altri come alleati, a considerarsi vincenti quando si dà il proprio contributo al mondo intorno a sé. La logica del dono permette di scoprire che la felicità non passa dall’essere soli al comando, ma dalla relazione: sono felice se gli altri non mi sono indifferenti, se ogni giorno condivido il mio talento e le mie doti con loro. Non è un’utopia: si pu essere presidenti di una multinazionale, promotori di una startup, medici, infermieri, operatori ecologici, elettricisti, muratori, politici, banchieri proprio con questa logica: il bene donato, il valore generato, l’aiuto offerto dal proprio lavoro quotidiano alle altre persone.
In secondo luogo, possiamo passare sempre di più dagli schermi alla realtà. Si parla frequentemente di diritto alla disconnessione, moltissimi studiosi concordano sui danni irreversibili che un’eccessiva presenza degli schermi provocano nella vita dei bambini e dei ragazzi. Se cresco abituato a vedere un video dopo l’altro; se la realtà, nelle sue mille forme, mi passa davanti troppo spesso appiattita su uno schermo, le cose rischiano di perdere valore e profondità. Non viene allenato il senso critico, non si sviluppa la capacità di percepire il reale in tutte le sue dimensioni. L’empatia non cresce: gli altri esseri umani diventano attori, la rissa ripresa e postata diventa un piccolo film adrenalinico, la violenza reale diventa intrattenimento.
Dobbiamo spegnere gli schermi più spesso, fare in modo che i nostri figli, fin da piccoli, dedichino più tempo al contatto con la natura, alle attività di gruppo,
ai giochi di società, alla creatività, agli stimoli intellettuali e culturali, a vedere cose belle, a visitare mostre, ad esperienze arricchenti. Di proposte alternative agli schermi ce ne sono a bizzeffe, pensate
per ogni età. Noi adulti, oltre a inorridire per i tremendi fatti di cronaca, dobbiamo fare l’atto eroico di disconnetterci, di dedicare tempo ai bambini e ai ragazzi, di sfidarli su proposte che attivino la loro testa e il loro cuore, che accendano la curiosità, che li portino a scoprire sé stessi e magari anche a tollerare la frustrazione. Forse in questo modo daremo loro una chance per non essere solisti frustrati ma atleti della vita, capaci di giocare in squadra. Capaci di empatia e compassione, doti senza le quali ogni futuro è impensabile.

UNA PAGINA NUOVA DOPO LA COP30

Ora una pagina nuova si apre.
La COP non è la bacchetta magica per risolvere i problemi del clima nel mondo, ma la pista di lancio per tracciare le strade su cui lavorare per il miglioramento del nostro Creato. Nonostante e forse proprio a causa degli esiti non attesi di questa COP30 (La Cina ha bloccato la road-map per le tempistiche della riduzione dei carboni fossili e con le anche gli stati arabi: quella che sembrava finalmente una possibilità 10 anni dopo Parigi, a meno di colpi di scena, sfuma!) ora, più che nelle altre edizioni, è necessario non solo divulgare, ma formare le coscienze.
La nostra mostra fotografica Esta è a floresta è stata apprezzata non solo per le foto presentate, ma specialmente per il coinvolgimento delle persone a diversi livelli dall’Italia a Benvides. Il grande lavoro svolto da BarnabitiAPS fino a questa COP30 non può essere nascosto in una cantina, è necessario che porti frutto. Sarà un lavoro “concreto-materiale” la prossima estate, ma anche uno “concreto-culturale” da giocare insieme, in Italia, in Brasile, tra i Barnabiti.
Qui scatta la sfida più grande ancora di quella appena passata: investire in cultura.
Come hanno ricordato martedì mattina il vescovo di Belem, Paulo, e il nostro amico prof. Tito dell’Università Cattolica, ora bisogna far passare i contenuti raggiunti, le idee approfondite in queste due settimane perché diventino realtà. Parafrasando il dato della fede cristiana è necessaria una “incarnazione” delle riflessioni sull’ambiente. È necessario far capire che la spiritualità, anche quella delle liturgie, non può restare su un altare, ma deve entrare nella vita dell’umanità, specialmente la più povera e dimenticata.
Qui c’è un primo zoccolo duro da affrontare anche tra noi cristiani: la questione ecologica non è tema marginale o di moda, bensì una questione di economia della salvezza. L’uomo si salva con l’ambiente o non si salva. L’ambiente è la casa dove l’uomo e la donna sono stati posti per poter crescere insieme. Non parliamo solo di ambiente, ma di ecologia integrale, del creato nella sua complessa totalità.
Quando San Paolo afferma che tutto è stato ricapitolato in Cristo intende proprio tutto. E se si dimentica o privilegia solo una parte di questo tutto, si è mancanti verso Cristo, si è nel peccato. Il lavoro da operare ora è proprio quello di rielaborare il nostro approccio culturale alla fede e alla vita quotidiana.
Il lavoro è comprendere che non si può pregare senza che la preghiera diventi lievito nelle diverse realtà in cui si è chiamati a vivere.
Il lavoro è comprendere che non si può vivere senza una radice spirituale forte, profetica direi, che sostenga e guidi la vita ordinaria.
Il lavoro è capire che il Vangelo chiede di essere testimoniato specialmente tra, per e con i poveri, ma questa testimonianza non è semplicemente una elemosina ai poveri, bensì una rielaborazione del nostro rapporto con i poveri così come Gesù ci ha insegnato ma che per molto tempo non siamo stati capaci di mettere in pratica.
Il lavoro da fare, parafrasando quanto scrive un “mio ragazzo”, è smettere di continuare a scrollare uno smartphone pensando sia la realtà, per guardare invece la realtà e costruire un progetto grande. Perché il futuro non arriva da solo, arriva quando smettiamo di scrollare e cominciamo a muoverci.
p. Giannicola M.

10 giornata per il Creato

Oggi si celebra la X giornata di preghiera per la cura del creato. Per noi BarnabitiAPS e GiovaniBarnabiti ha un significato particolare perché cade al rientro dalla nostra missione nella foresta amazzonica, luogo dove più che altrove si coglie la preoccupazione per il Creato.
Un giovane della nostra missione in Brasile diceva: «di fronte a tanto bisogno di bene che senso ha la mia “elemosina” di sorrisi e aiuto di qualche giorno?» alle persone, al Creato?
Scriveva l’economista Leonardo Becchetti: «Nessuno chiede a nessuno di risolvere da solo i problemi del mondo. Gli studi empirici sulla felicità ci insegnano però che la gratuità è uno dei fattori chiave della felicità e costruire una relazione e prendersi carico di una e una sola persona arricchirebbe in modo straordinario la vita.»
Prendersi carico anche di una sola porzione del Creato oltre e insieme a una persona è proprio il modo di attivare il vangelo di ieri (Luca 14,1.7-14) che chiede di invitare al banchetto poveri, storpi, zoppi, ciechi; proprio perché non hanno da ricambiarti.
Non potremo essere tutti imbarcati sulla Global Sumud Flotilla per portare pane a e solidarietà a Gaza, ma cominciare a prenderci cura di questa persona o di quella parte di creato significa già invertire l’azione del male, del peccato che apre ferite nell’ambiente e di conseguenza nelle persone, specialmente più povere, che nell’ambiente e dell’ambiente vivono. (Leone XIV, messaggio).
Papa Leone, sulla scorta dell’insegnamento di papa Francesco, ci chiede di essere seme di pace e di speranza, «seme che si consegna direttamente alla terra e lì, con la forza dirompente del suo dono, la vita germoglia, anche nei luoghi più impensati, in una sorprendente capacità di generare futuro.»
Perché il seme che siamo chiamati a essere possa crescere «Insieme alla preghiera, sono necessarie la volontà e le azioni concrete che rendono percepibile questa “carezza di Dio” sul mondo (cfr Laudato si’, 84). La giustizia e il diritto, infatti, sembrano rimediare all’inospitalità del deserto… In diverse parti del mondo è ormai evidente che la nostra terra sta cadendo in rovina… senza considerare gli effetti a medio e lungo termine della devastazione umana ed ecologica portata dai conflitti armati» che colpiscono maggiormente i più poveri ed esclusi, specialmente le comunità indigene.
E non basta: la natura stessa talvolta diventa strumento di scambio, un bene da negoziare per ottenere vantaggi economici o politici per le materie prime, per l’acqua! penalizzando do le popolazioni più deboli e minando la stessa stabilità sociale.
«Queste diverse ferite sono dovute al peccato. Di certo non è questo ciò che aveva in mente Dio quando affidò la Terra all’uomo creato a sua immagine (Gen 1,24-29)… La giustizia ambientale – implicitamente annunciata dai profeti – non può più essere considerata un concetto astratto o un obiettivo lontano. Essa rappresenta una necessità urgente, che va oltre la semplice tutela dell’ambiente. Si tratta, in realtà, di una questione di giustizia sociale, economica e antropologica. Per i credenti, in più, è un’esigenza teologica, che per i cristiani ha il volto di Gesù Cristo, nel quale tutto è stato creato e redento.»
Ogni credente è chiamato alla custodia dell’opera di Dio, a lavorare con dedizione e tenerezza per far germogliare pace e speranza secondo le proprie possibilità e responsabilità che non si possono demandare o procrastinare. Anche piccole purché continuative azioni sono utili per custodire il Creato.
Non possiamo restare con le mani in mano, restare sul divano, diceva papa Francesco, non lasciarci inquietare ribatteva papa Leone.

Fotografare e amare A floresta!

16 agosto 2025, Seminário Mãe da Divina Providência – Benevides – Pará, Brasile

Durante i giorni di missione qui in Brasile abbiamo avuto il piacere di conversare con il Professor Mario Tito, docente presso l’Università dell’Amazzonia (UNAMA), la Facoltà Cattolica di Belém e l’Università Statale del Pará (UEPA). Ma soprattutto il prof. Tito è anche un grande amico dei Giovani Barnabiti, nonché della Barnabiti APS ed ancora una volta ha deciso di dedicarci il suo tempo.
In Brasile, dove siamo venuti per il secondo anno consecutivo, abbiamo l’obiettivo di affiancare attività di promozione sociale e sensibilizzazione sul tema ambientale alle attività ludiche con i ragazzi, sia nelle scuole che nelle comunità barnabitiche di Benivedes. La fotografia verrà impiegata come medium poiché grazie alla sua immediatezza e universalità è un modo interessante per dialogare con i ragazzi brasiliani (vista anche le difficoltà di parlare lingue diverse) e ancor di più per stimolarli a studiare i luoghi che abitano con un nuovo sguardo, ma sempre attraverso i loro occhi.
Il prof. Tito, fortemente interessato al nostro progetto, ha sottolineato come questo permetterà di fotografare la situazione della foresta, la sua bellezza ma anche la sua devastazione e il degrado che troppo spesso si incontra nei dintorni di Belem, la capitale dello stato federale Pará che a novembre ospiterà la COP30.
Ritrarre la foresta e i suoi abitanti dal loro stesso punto di vista – ci ha detto il professor Tito – è un modo intelligente per insegnare qualcosa di pratico come la fotografia e allo stesso tempo sensibilizzare sulla preservazione dell’Amazzonia. Insegnare e riflettere insieme, al contrario dei conquistadores europei di oggi e di allora (il post-colonialismo è ancora realtà in tanti paesi del mondo), permette di lasciare un segno duraturo che potrà germogliare col tempo. O almeno questa è la nostra speranza.
Insieme ci sentiamo responsabili della cura della foresta polmone del pianeta, tesoro inestimabile di rara bellezza e testimone dell’immensa forza della natura. Ma i veri custodi non possono che essere i suoi abitanti, nonostante non tutti abbiano questa consapevolezza.
Spesso – ci ha spiegato il prof. Tito – gli abitanti non si sentono parte della floresta perché questo termine viene utilizzato per indicare le aree più ricche di vegetazione. Ma l’Amazzonia è così vasta da contenere città grandi e paesini, autostrade e fabbriche. Con circa 6 milioni di chilometri quadrati attraversa vari paesi: inizia in Venezuela e termina in Bolivia, ma è il Brasile a ospitarne la maggior parte, il 63%. Ecco perché oltre a floresta si può anche utilizzare la parola mata, un termine che include anche le zone più urbanizzate.
L’Amazzonia, grazie alle sue risorse, è un tesoro che fa gola a molti; in particolare alle multinazionali come Nestlé, Johnson&Johnson, Coca Cola, Pepsi, Heineken. Multinazionali che proprio a partire da queste ricchezze costruiscono i loro imperi.
Ad oggi – prosegue il professore – le attività che distruggono la foresta sono principalmente quattro: l’estrazione mineraria (in Amazzonia si ricavano oro, bauxite, allumina e terre rare), la produzione di soia (e in generale il settore agroalimentare), gli allevamenti intensivi e il prelievo di acqua.
L’Amazzonia, infatti, è la più grande riserva di acqua potabile al mondo. Proprio l’area di Benevides, ad esempio, è ricca di acqua dolce con qualità particolari. Importanti produttori di birra e bevande come Heineken o Coca Cola costruiscono proprio qui i loro stabilimenti.
Sempre rimanendo nello stato del Pará, recentemente sono stati scoperti nuovi giacimenti di petrolio nell’Atlantico di fronte a Belem. Il governo brasiliano, capitanato da Lula, sembra intenzionato ad autorizzare le estrazioni (seppur a certe condizioni), ma sarà uno dei temi caldi che verranno discussi nella COP30.

Come BarnabitiAPS tenteremo di apportare il nostro piccolo, forse per alcuni insignificante, contributo per un’inversione di rotta: l’Amazzonia non è una terra da saccheggiare ma da amare perché colma di biodiversità e culture.
Di fronte al disastro ambientale e sociale in corso, l’Europa non può non riconoscere le proprie responsabilità. Il modello economico inventato nel vecchio continente e poi esportato in tutto il mondo non è sostenibile e crea un divario sempre più ampio tra sfruttati e sfruttatori. Se gli interessi economici in Amazzonia sono così forti è perché il nostro mercato, il più ricco al mondo, richiede continuamente beni a cui non siamo disposti a rinunciare.
La nostra volontà è quindi innanzitutto quella di lavorare sui noi stessi e in secondo luogo di rendere più consapevoli gli abitanti della foresta, i primi a subire le cause dello sfruttamento dell’Amazzonia.

Luigi C. – Roma

2025: 2 agosto 1980

Il 2 agosto 2025 è stato celebrato il 45° anniversario della strage della stazione di Bologna. Gli eventi organizzati dalla città iniziavano già l’1 agosto, ma quello più partecipato, come ogni anno, è stato il corteo diretto alla stazione ferroviaria. Migliaia sono state le persone che si sono dirette da via Ugo Bassi fino a piazza Medaglie d’Oro, tra loro anche i familiari delle vittime, il sindaco di Bologna Matteo Lepore, il presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione del 2 agosto 1980 Paolo Bolognesi, e diversi altri rappresentanti delle istituzioni.
Migliaia i partecipanti, sì, ma pochi erano i giovani presenti alla cerimonia di un anniversario così importante per la storia di Bologna e dell’Italia intera. La quantità di piccolissimi accompagnati da genitori e nonni è ovviamente un segnale incoraggiante, ma ciò che ha allarmato maggiormente il sottoscritto, un giovane di vent’anni, è stato il ridotto numero di suoi coetanei presenti alla manifestazione poiché realmente consapevoli dell’importanza di questa ricorrenza.
Partecipare a un corteo come quello organizzato ogni anno per celebrare la strage del 2 agosto 1980 è certamente un atto politico, motivo per cui sarebbe stata auspicabile una maggiore adesione da parte di adolescenti.
I giovani, infatti, vestono un ruolo fondamentale nel mantenere vivo il ricordo di ciò che accadde in quel giorno dell’agosto del 1980, soprattutto per non permettere di dimenticare la matrice neofascista dell’attentato. Quest’ultima, purtroppo, viene sempre più spesso “accidentalmente” trascurata anche da alcuni dei massimi esponenti della politica italiana, tra cui la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni.
Meloni, come di consuetudine, anche quest’anno ha rilasciato una dichiarazione in ricordo della strage di Bologna, senza però mai menzionarne la chiara e ormai accertata matrice neofascista. Questo un estratto delle sue parole: “Il 2 agosto di 45 anni fa il popolo italiano ha vissuto una delle pagine più buie della sua storia. Il terrorismo ha colpito con tutta la sua ferocia la città di Bologna, con un attentato che ha disintegrato la stazione, uccidendo 85 persone e ferendone oltre duecento. Oggi ci stringiamo ai familiari delle vittime e a tutti i bolognesi, e ci uniamo al loro dolore e alla loro richiesta di giustizia”.
Se Meloni parla di un generico terrorismo senza nominare la vera origine dell’attentato, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel suo intervento del 2 agosto 2025, ne ha invece ricordato la matrice neofascista e ha sottolineato ancora una volta l’importanza dei giovani: “La strage della Stazione di Bologna ha impresso sull’identità dell’Italia un segno indelebile di disumanità da parte di una spietata strategia eversiva neofascista che mirava a colpire i valori costituzionali, le conquiste sociali e, con essi, la nostra stessa convivenza civile. […] Merita la gratitudine della Repubblica la testimonianza dell’Associazione dei familiari delle vittime, che ha sempre tenuto accesa la luce sul percorso che ha portato a svelare esecutori e mandanti, prezioso esempio di fedeltà ai valori costituzionali, specie per i giovani.”
Arturo M. – Bologna

GIOVANI EGOISTI?

Mi domandano spesso, meglio spesso si afferma che i giovani oggi sono egoisti. Eppure parlando con alcuni di loro si raccolgono riflessioni stimolanti.
L’egoismo è la tendenza generalizzata all’accumulo di risorse a discapito della condivisione, una persona a cui non interessa il bene degli altri e che pensa solo a sé, ignorando i bisogni altrui.
Egoismo è una parola forte, indica in maniera estremizzata la predisposizione del singolo ad anteporre i propri interessi rispetto a quelli del gruppo, anche quando ha un surplus di… tutto.
Penso che chiunque si rispecchi un minimo in questa descrizione, d’altronde è normale pensare ai propri interessi di vita e valorizzarli di più in quanto propri e personali. Il problema è che spesso quel giusto egoismo proprio di ogni persona spesso diventa cupidigia o avidità.
Crediamo ci sia una tendenza molto individualista di tanti giovani oggi, perché si punta al proprio profitto (anche economico) senza contare le ripercussioni che si hanno sulla società, non stimolando così l’aiuto reciproco. Perché si educa alla meritocrazia in tutto tranne che verso il prossimo! Che dovrebbe essere il bene maggiore da possedere.
L’egoismo diventa tale quando è accompagnato dall’indifferenza, quando non ci si rende conto di ciò che ci circonda perché non ritenuto importante. Così si sfocia nell’arroganza e nell’abuso, non pensando più alle persone che abbiamo davanti e alle loro anime bensì a strumentalizzarle per il nostro tornaconto. Ma siamo tutti sulla stessa barca, e se si fora la prua ben presto ne risentiranno anche a poppa, ed è questa la cosa più difficile da comprendere.
Non si può attendere che le situazioni drammatiche intorno a noi arrivino a bussare alla nostra porta per renderci conto di come sia importante e necessario superare l’egoismo che ci portiamo dentro. Non possiamo aspettare di finire anche noi sotto le macerie.
Certo gruppi come l’esperienza scout o associazioni cristiane o di altro genere abituano a pensare non solo se stessi, ma anche al prossimo. Bisognerebbe parlarne di più. Bisognerebbe anche avere più testimoni, specialmente adulti, che possano dimostrare come l’alternativa dell’altruismo possa portare bene a tutti. Bisognerebbe avere più spazi sociali che ci abituino a osservare i bisogni altrui, diciamo una “terra buona in cui seminare l’altro”! Ciò che è più importante adesso sono il sostegno e la fratellanza, quell’umanità che ci rende tali e che sembra stia svanendo ultimamente.
Probabilmente per chi crede Dio è un buon modello di altruismo, ma è necessario che le persone abbiano a disposizione diverse declinazioni perché ognuno possa trovare chi li guidi. La fede può donare sicuramente una speranza a chi vive un momento difficile, auspicando un domani migliore, ma di fronte a certi abomini c’è anche chi la fede la perde, tormentato dai perché.
Eppure l’umanità, che è l’altra parola opposta a egoismo, si vede anche nei piccoli gesti, nel condividere una fetta di pane o un riparo per la notte, o un sorriso o una attenzione qualsiasi, la primordiale forma di empatia.
Per combattere l’egoismo è necessario donare e avere fiducia, con tutti le sfide che la fiducia porta con sé!

A cura di Francesco T. – Firenze; Gaetano B. – Bari; Gruppo Decima GNGEI Milan

La radice umana della crisi ecologica

Nel terzo capitolo dell’enciclica Laudato sì, che stiamo rileggendo con voi, la riflessione di Papa Francesco si concentra sulle radici umane della crisi ecologica su un’analisi del paradigma tecnocratico dominante.
La riflessione inizia con un elogio dei progressi tecnologici e scientifici, che sono in grado di produrre “cose preziose”, trovando rimedi per i mali che affliggono l’essere umano e aiutandolo a compiere un salto nel mondo della bellezza. La tecnica infatti esprime la tensione dell’uomo verso il graduale superamento dei suoi limiti materiali.
Allo stesso tempo, però, le nostre acquisizioni scientifiche e tecnologiche offrono un enorme potere a coloro che detengono le conoscenze e le risorse economiche per sfruttare la conoscenza che nel corso della storia l’essere umano ha acquisito, i quali possono sfruttare tale conoscenza come forma di dominio sul resto del mondo. A questo proposito vengono citate le bombe atomiche e gli strumenti via via più tecnologicamente avanzati che vengono sempre più usati in guerra.
Il grande problema, afferma Papa Francesco, è che l’uomo moderno “non è sato educato al retto uso della potenza”, poiché la crescita e lo sviluppo tecnologico non sono stati accompagnati da un necessario sviluppo morale, di valori e di coscienza, ma anzi l’uomo si trova a vivere in un’epoca in cui le pretese principali sono di utilità e sicurezza (Laudato Sì, cap. 3.I).
Le cause di tale processo sono da rintracciare nel paradigma tecnocratico che è stato adottato dall’uomo nella sua interazione con la tecnologia, nel quale il soggetto non si trova più ad assecondare e accompagnare le possibilità offerte dalle cose stesse, ma è teso a comprendere progressivamente per poi possedere l’oggetto che si trova all’esterno, per estrarre tutto quanto è possibile dalle cose.
Questo paradigma tecnocratico, così diffuso e omnicomprensivo da portare l’uomo a avanzare pretese di dominio sulla natura, si applica non solo alla tecnica in senso stretto ma anche all’economia e alla politica, sottoposte alle logiche utilitaristiche del profitto. L’economia, infatti, assume ogni sviluppo tecnologico in funzione del profitto, senza considerare eventuali conseguenze negative per l’essere umano, soffocata dalla logica della finanza internazionale. Papa Francesco sottolinea come la logica economica dominante, tutta improntata al profitto e alla crescita del mercato, non considera a sufficienza fattori di sviluppo umano e di integrazione sociale, portando a quello che viene definito un “supersviluppo umano dissipatore e consumistico che contrasta con perduranti situazioni di miseria disumanizzante” (Laudato Sì, cap. 3, II).
A questo si ricollega una riflessione generale sulla specializzazione economica, che porta a frammentazione, atomizzazione e mancanza di uno sguardo di insieme che si soffermi sulle relazioni fra le cose. Questa visione così frammentata sarebbe una delle cause alla base della difficoltà di risolvere problemi così complessi come la crisi climatica e la povertà, questioni indissolubilmente interconnesse ma che richiederebbero uno sguardo di insieme più ampio.
Per questo quindi la cultura ecologica si dovrebbe porre agli antipodi rispetto a questa visione frammentata e proporsi come uno sguardo diverso, un pensiero, una politica e un programma educativo alla base di uno stile di vita nuovo. Quindi ciò che è necessario è che l’uomo agisca non come sottomesso al paradigma tecnocratico, ma metta la tecnica al servizio degli altri con un tipo di progresso sano, umano, sociale e integrale.
Tale ecologia integrale deve avere come fondamento il valore fondamentale del lavoro. L’intervento umano che favorisce lo sviluppo del creato, infatti, è il modo più adeguato per prendersi cura del creato stesso ed è quindi il modo con cui l’uomo si pone a strumento di Dio. È pertanto necessario recuperare una corretta concezione del lavoro, poiché in esso si esplica il fulcro dell’interrogativo circa il senso e la finalità dell’azione umana sulla realtà. Il lavoro dovrebbe essere l’ambito in cui avviene il multiforme sviluppo personale dell’essere umano, mettendo in gioco la propria creatività, le proprie capacità, l’esercizio di valori, la relazione con gli altri. Tuttavia, le crisi economiche e la perdita di posti di lavoro intaccano questo processo di maturazione, di sviluppo e di realizzazione, oltre che causare ulteriori danni economici.
La riflessione di Papa Francesco, infine, si conclude con un breve accenno alle questioni etiche sollevate dalla questione degli OGM e degli interventi umani a modificare il mondo vegetale e animale, affermando che secondo la Chiesa, le sperimentazioni in tali campi sono legittime solo se si mantengano in limiti ragionevoli e contribuiscano a salvare vite umane, e che on ogni caso è contrario alla dignità umana infliggere sofferenze sugli animali e non rispettare l’integrità della creazione. In ogni caso, è sempre necessario considerare gli impatti sociali che tali interventi hanno in zone del pianeta già fragili, a vocazione agricola, in cui tali colture finiscono nelle mani di grandi produttori, determinando perdite di lavoro, migrazioni, povertà e perdita di diversità. (continua)
Giulia C. – Firenze

AUGURI DA PHOTOVOGUE FESTIVAL

Oggi compiamo 11 anni e li festeggiamo con una intervista a Alessia Glaviano Head of Globla PhotoVogue che ringraziamo per il tempo e l’attenzione dedicataci.

L’ultima Edizione del PhotoVogue Festival, “The Tree of Life: A Love Letter to Nature”, è stata dedicata, come suggerisce il nome, ad esplorare la natura e il rapporto che l’essere umano ha con essa. Da cosa è nata la scelta di dedicare un’edizione proprio a questo tema?
Ogni edizione del PhotoVogue Festival nasce da una mia riflessione personale, da una domanda che mi pongo sul mondo che abitiamo e su ciò che ritengo urgente esplorare attraverso le immagini. In passato abbiamo affrontato temi come il female gaze, l’inclusività, la necessità di riscrivere la storia da nuovi punti di vista; abbiamo dedicato un’intera edizione a Susan Sontag per interrogarci sull’effetto dell’ubiquità delle immagini sulla nostra capacità di sentire, o ci siamo confrontati con le questioni etiche sollevate dall’intelligenza artificiale nella produzione visiva.
Nel concepire The Tree of Life: A Love Letter to Nature, riflettevo su l’assurdità della violenza sistemica che infliggiamo agli animali — sull’ipocrisia che ci porta a considerare degni di amore e rispetto un cane o un gatto, ma non un maiale o una mucca. Da lì, mi sono imbattuta nel concetto di kinship, l’idea di una parentela estesa a tutte le forme di vita. Studiando questo approccio, ho trovato nelle visioni delle culture indigene una consapevolezza profonda e rivoluzionaria: una comprensione relazionale dell’esistenza che noi, moderni, abbiamo in gran parte smarrito. Da questa scintilla è nato il desiderio di costruire un’edizione che fosse, appunto, una lettera d’amore alla natura e alla nostra interconnessione con ogni forma vivente.
Quali temi legati all’ambiente sono stati esplorati nelle fotografie di questa edizione?
Abbiamo voluto esplorare la relazione tra essere umano e natura in tutta la sua complessità, evitando rappresentazioni univoche o semplicistiche. I progetti selezionati attraversano temi che spaziano dalla crisi climatica alla giustizia ambientale, dalla sacralità del mondo animale fino alla possibilità di un’ecologia affettiva, interspecie, capace di restituire dignità anche a ciò che abbiamo storicamente marginalizzato.
Abbiamo parlato di attivismo e santuari, ma anche di riciclo creativo nella moda, di comunità indigene che custodiscono visioni cosmologiche dove la terra è soggetto e non risorsa, e di artisti che reinventano il linguaggio visivo per restituire meraviglia alla materia naturale. Il nostro intento non era tanto “documentare” l’ambiente, quanto costruire immaginari alternativi, capaci di far emergere nuove forme di empatia, consapevolezza e responsabilità.
La fotografia come può sensibilizzare le persone su tematiche ambientali?
La fotografia ha la capacità unica di generare un contatto immediato e viscerale. Non si limita a “mostrare” ma può far sentire, creare legami emotivi che rendono impossibile restare indifferenti. In un’epoca in cui la parola “crisi” è diventata quasi un rumore di fondo, le immagini possono rompere la saturazione informativa e aprire fessure di consapevolezza.
Credo profondamente che un’immagine potente possa modificare il nostro sguardo — e cambiare lo sguardo è il primo passo per cambiare il mondo. A volte, la fotografia riesce a smuovere coscienze più di una legge, proprio perché agisce in quel territorio ambiguo tra etica ed estetica, tra intelletto e corpo. E quando tocca entrambi, accade qualcosa: si attiva una possibilità di trasformazione.
In che modo la fotografia racconta il cambiamento climatico?
Il cambiamento climatico non è solo un fenomeno scientifico, ma anche un’esperienza vissuta, un trauma collettivo, una crisi di senso. La fotografia può raccontarlo su molteplici livelli: documentando le sue conseguenze tangibili — desertificazione, inondazioni, incendi — ma anche rendendo visibili le connessioni invisibili tra sistemi, storie e soggettività.
Molti artisti oggi si interrogano non solo su cosa fotografare, ma su come rappresentare l’emergenza climatica senza cadere nel voyeurismo del disastro. Alcuni scelgono l’astrazione, altri il simbolismo, altri ancora il linguaggio del corpo o della performance per suggerire la fragilità dell’ecosistema e la nostra complicità.
Altri ancora, invece, scelgono di raccontare le storie di chi resiste, protegge, rigenera: comunità indigene, attivisti, agricoltori, artigiani, progetti collettivi che incarnano un altro modo di vivere sulla Terra. Perché è importante mostrare non solo ciò che si perde, ma anche ciò che può essere salvato, imparato, trasformato. In questo senso, la fotografia diventa un linguaggio stratificato: al tempo stesso archivio, denuncia, elegia e atto di resistenza.
Una sezione intera della mostra era dedicata a fotografie dall’America Latina, area geografica su cui anche noi ci stiamo concentrando in vista della Cop30 che si terrà a Belem, in Brasile, il prossimo novembre. Perché avete deciso di dedicare una sezione specifica a questa area geografica e cosa ci raccontano di diverso le foto che provengono da questa regione?
La sezione latinoamericana era già prevista all’interno del festival, perché avevamo lanciato un’open call per celebrare un anniversario di Vogue Mexico and Latin America. Ma non potevo immaginare quanto i lavori che avremmo ricevuto sarebbero stati straordinari. Sono rimasta profondamente colpita dalla qualità, dalla varietà e dalla forza delle proposte: una tale concentrazione di talento non l’avevo mai vista.
La sorpresa più grande è stata accorgermi di quanto fossero in perfetta sintonia con il tema del festival The Tree of Life, pur essendo nati in un altro contesto. Tantissimi progetti affrontavano con profondità il rapporto con la natura, le cosmovisioni indigene, l’eredità del colonialismo, la spiritualità legata alla terra, l’idea di kinship — quella parentela estesa a tutte le forme di vita che è stata per me il punto di partenza curatoriale. È come se, da due lati diversi del mondo, stessimo cercando di dire la stessa cosa.
Ma non è solo una questione di contenuto: c’è anche un’estetica potente e coerente che attraversa molti dei lavori ricevuti. Una tensione tra corporeità e paesaggio, un uso del colore viscerale, una capacità di fondere l’intimo e il politico, il personale e il collettivo. Molti artisti attingono alle tradizioni visive locali, ma con un linguaggio estremamente contemporaneo, visionario, spesso sperimentale. In alcune immagini si percepisce una carica quasi mistica, in altre un’urgenza militante, ma tutte contribuiscono a costruire un immaginario alternativo, radicale e necessario.
Per questo abbiamo voluto dare alla regione uno spazio centrale. Perché non si tratta solo di ascoltare nuove voci, ma di riconoscere nuove visioni capaci di influenzare e arricchire il discorso globale.
Cosa ne pensa lei di Cop30 e quale può essere il ruolo della fotografia in contesti di questo tipo?
La COP30 sarà una tappa storica, anche solo per il fatto che, per la prima volta, si terrà nel cuore dell’Amazzonia. È una scelta altamente simbolica, che pone al centro uno degli ecosistemi più vitali e vulnerabili del pianeta, ma anche un territorio carico di tensioni storiche, economiche e culturali.
Mi auguro che questa edizione rappresenti un vero momento di svolta e non solo una dichiarazione d’intenti. In particolare, spero in un coinvolgimento autentico e paritario delle popolazioni indigene, che da secoli custodiscono conoscenze ecologiche profonde e visioni del mondo fondate sulla reciprocità e sul rispetto. Qualsiasi strategia ambientale seria non può più prescindere dalla loro voce e dal riconoscimento dei loro diritti.
In questo scenario, la fotografia può avere un ruolo chiave: non solo come strumento di denuncia o documentazione, ma come spazio di ascolto e rappresentazione etica. Può dare visibilità a chi spesso viene escluso dai tavoli decisionali, può restituire emozione e complessità a questioni troppo spesso ridotte a cifre. E, forse soprattutto, può contribuire a immaginare — e a far immaginare — futuri diversi.
Lei è a conoscenza del nostro progetto “dalla Quercia alla Foresta” in cui alcuni nostri volontari collaboreranno con dei giovani di Benevides alle porte dell’Amazzonia. Pensa che progetti di questo tipo possono aiutare anche le popolazioni locali dei luoghi fotografati e afflitti dal cambiamento climatico?
Sì, conosco il vostro progetto e lo trovo estremamente importante, anche perché risponde a un’urgenza che sento profondamente. Per troppo tempo, molte iniziative — anche quelle mosse da buone intenzioni — si sono rivelate, di fatto, neocoloniali: calate dall’alto, incapaci di riconoscere la complessità dei territori, e spesso più interessate alla narrazione che alla realtà.
Oggi è fondamentale rovesciare questa dinamica: le culture indigene devono avere voce, ma soprattutto controllo. Devono essere protagoniste attive, non comparse nel racconto di qualcun altro. È bello e incoraggiante vedere che anche voi siete mossi da questa stessa consapevolezza, e che cercate di costruire progetti fondati sullo scambio, sull’ascolto, sulla co-creazione.
Solo così la fotografia — e più in generale la narrazione visiva — può davvero diventare uno strumento etico, relazionale, trasformativo. Non si tratta solo di rappresentare il cambiamento, ma di contribuire, con rispetto e responsabilità, a immaginarlo insieme.

Giulia C. – Bologna

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