Milano, 25 gennaio, festa della Conversione di san Paolo; in questo giorno così importante per i Barnabiti, siamo a Milano comunità di san Barnaba per incontrare tre persone che il prossimo 18 febbraio diventeranno barnabiti per sempre. Sylvan, Luca, Isaac.
Sylvan (NKONGOLO Wa Mutombo di Kinshasa RDCongo), 33 anni.
La gioia è la parola che di più usa per parlarci di sé. La gioia invocata per lui dai suoi genitori prima di entrare in seminario a 2000km di distanza da loro!
La gioia di sentirsi per questo mondo, che spesso oggi sembra lontano dai valor cristiani, utile e significativo nonostante le proprie imperfezioni.
La gioia di conoscere sant’Antonio Maria Zaccaria che si fida molto di me, che mi incita a crescere continuamente nel fare il bene, nel superare la tiepidezza.
Per questo chiedo ai giovani di non avere paura di ma di rischiare la vita non solo con le parole, ma con azioni concrete. Mentre agli anziani chiedo di avere fiducia in noi e sostenerci.
Un po’ diversa la storia di Luca (Spreafico di Eupilio), età 37, laureato in scienze agrarie.
Infanzia e giovinezza in oratorio dove ha incontrato i Barnabiti, il loro impegno per i giovani e la fraternità e il costante buon umore di p. Albino Dutto.
Per questo anche in futuro vorrebbe trovare il medesimo clima sereno e fraterno, peraltro già vissuto durante l’anno di noviziato in Chile.
E se hai barnabiti anziani chiede di essere meno cocciuti ed egocentrici! ai giovani dice di prendere sul serio la vita di fede con la sua bellezza e provocazioni.
Infine, Don Isaac (Segovia, Choré/Paraguay), 40 anni, laureato in diritto canonico.
E una vocazione adulta, per questo ha avuto modo di girare diverse comunità barnabitiche del Brasile dal Sud al Nord, scoprendo i differenti modi di vivere la fede. «Prima della vocazione ho lavorato nel Congresso nazionale del Paraguay, quindi con i bambini di strada a Sao Paulo. In tutti questi giri, ma anche oggi, il ricordo che mi sostiene è la famiglia. Di questa nuova famiglia barnabitica invece voglio percepire continuamente il desiderio di una riforma continua: non siamo mai santi abbastanza. Per questo chiedo ai padri più anziani chiedo di stare insieme ai più giovani per illuminarli, per crescere con la loro storia viva da condividere. Infine, un desiderio: mi piacerebbe lavorare come barnabita nell’Università.»
Poche righe per tracciare il profilo di grandi storie di oggi per il futuro, radicato in una famiglia religiosa che proprio oggi (era il 18 febbraio 1533 a Bologna) festeggia il proprio compleanno. Quale regalo più bello che la professione solenne, cioè la scelta di seguire per sempre la strada del vangelo secondo la via tracciata da S. Antonio M. Zaccaria ?
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Belém 2025 – COP30
Belém não é apenas o destino desta minha viagem, Belém, porta de entrada para a Amazônia, é a cidade escolhida para sediar a COP30 (conferência das partes organizada pela ONU sobre problemas climáticos) em novembro de 2025.
O que tenho a ver com a COP30?
O que os Barnabitas têm a ver com isso?
Não sou um cidadão deste mundo?
Os Barnabitas não são chamados a servir este mundo, a reconhecer os seus gemidos e dores, a trazer esperança e justiça?
A questão climática não é apenas ideologia ou moda atual: para um crente significa cuidar da criação na qual Deus nos colocou. A ecologia diz respeito ao clima e ao ambiente, mas antes de tudo ao próprio homem, à forma como o homem e a mulher se reconhecem para além ou antes de reconhecerem o ambiente.
Os Barnabitas estão presentes em Belém há 110 anos. Quem vive mais as alterações climáticas e as consequências para a natureza e para os homens e mulheres do que eles? Quem mais do que eles, pode nos ajudar a construir caminhos de verdade e justiça?
Faz sentido que um homem simples e desconhecido vá perturbá-los vindo da Itália?
Somos cidadãos deste mundo, responsáveis pelos danos causados e pelas soluções a oferecer e construir.
Devemos isso, em primeiro lugar, aos jovens e às crianças com quem trabalhamos, se não quisermos ser hipócritas. Devemos isso à Verdade. Devemos isso a Deus!
Talvez os nossos jovens consigam intervir diretamente na COP30, mas este não é o objetivo final.
Belém não é apenas o destino da minha viagem, Belém é a oportunidade para exortar a nós, Barnabitas, a uma pastoral renovada para uma ecologia integral.
Giannicola M. prete
29 janeiro 2024
In viaggio verso Belém do Parà
Belem non è solo la meta di questo mio viaggio, Belem, la porta dell’Amazzonia, è la città scelta per ospitare nel novembre 2025 la COP30 (conferenza delle parti organizzata dall’ONU riguardo i problemi del clima).
Che c’entro io con la COP30?
Che c’entrano i Barnabiti?
Non sono forse io un cittadino di questo mondo?
Non sono forse i Barnabiti chiamati a servire questo mondo, a riconoscerne i gemiti e i dolori, a portare speranza e giustizia?
La questione climatica non è solo ideologia o moda del momento: per un credente è prendersi cura del creato in cui Dio ci ha posti. L’ecologia riguarda il clima e l’ambiente ma prima di tutto l’uomo in sé, il modo in cui l’uomo e la donna si ri-conoscono oltre o prima di ri-conoscere l’ambiente.
A Belem i Barnabiti sono presenti da 110 anni, chi più di loro sperimenta i cambiamenti climatici e le conseguenze sulla natura e sugli uomini e le donne?
Chi più di loro può aiutarci a costruire dei percorsi di verità e giustizia?
A senso che un semplice e sconosciuto uomo vada a disturbarli dall’Italia?
Siamo cittadini di questo mondo, responsabili dei danni operati e delle soluzioni da offrire e costruire.
Lo dobbiamo prima di tutto ai giovani e bambini con cui lavoriamo, se non vogliamo essere ipocriti.
Lo dobbiamo alla Verità. Lo dobbiamo a Dio!
Forse i nostri giovani potranno intervenire direttamente alla COP30, ma non è questa la meta finale.
Belem non è solo la meta del mio viaggio, Belem è l’occasione per sollecitare noi Barnabiti a una rinnovata pastorale per una ecologia integrale.
Giannicola M. prete
29 gennaio 2024

SANTOCIELO
«Se qualcuno ci ascolta o no è secondario, ma mi sento meno solo quando prego.»
Dal 14 dicembre è nelle sale il nuovo film di Ficarra e Picone, Santocielo, diretto da Francesco Amato; già regista di 18 regali.
Personalmente, il loro cinema non mi ha quasi mai convinto a differenza di quando li vedo in televisione. Nonostante il trailer non mi abbia fatto suscitare nulla, ero curioso di vederlo perché in primis il duo comico ritornava a parlare di religione dopo Il primo Natale e di cose legate all’ambiente cattolico, ma anche perché la nuova pellicola verteva su un argomento tanto interessante quanto delicato: un uomo che resta incinto per uno sbaglio commesso dall’Angelo mandato dal Padre Eterno con lo scopo di far nascere un nuovo Messia. Come si può capire, la premessa è fantasiosa e surreale. Ero quindi curioso di vedere se la coppia riusciva nell’intento di far riflettere gli spettatori e la critica circa un tema difficile da trattare e molto facile da far sfuggire di mano se non si riesce ad amalgamare bene con la trama, la durata e il racconto che vuole essere pure comico.
Il primo tempo può risultare anche carino da guardare, nonostante non si fosse prestato subito a rispettare le mie attese. La trama è molto banale e anche certi passaggi nel film non sono da meno. Ci sono diversi difetti: troviamo Giovanni Storti nei panni di Dio, uno dei ruoli più funzionali del film, ma lo si vede soltanto pochi minuti in circa due ore di pellicola. Inoltre, la durata è troppo lunga perché le commedie simili a questa dovrebbero durare sui 90-100 minuti. È un film che tratta l’inversione dei sessi in modo molto leggero, confuso nei suoi intenti e poco incisivo con l’umorismo. Tutto sembra spento, anche le gag non sembrano divertenti e spesso forzate.
Nel secondo tempo invece troviamo problemi legati alla Bibbia che possono essere orientati verso una mancanza di coraggio nell’affrontare certe tematiche. Santocielo sembra voler parlare della Chiesa che, come nella realtà, non accetta l’unione tra due persone dello stesso stesso, figuriamoci doversi trovar di fronte ad un uomo che deve partorire suo figlio. Da questo pretesto sarebbero potute nascere cose interessanti e stimolanti che avrebbero portato il pubblico a ridere, ma anche e soprattutto a pensare e riflettere su ciò appena visto. Mi è sembrato che il film non volesse aprire alcune porte, bensì tenersi nella “safe zone”.
Si va verso un finale accomodante, per niente incisivo dove forzatamente regnano i buoni sentimenti, ma dove anche non si ha il coraggio di criticare nessuno. Tutto quello che potrebbe essere devastante viene trattato come una piccola notazione irrilevante, macchiettistico e caricaturale. Come, ad esempio, la storia d’amore parallela tra l’Angelo e la suora. Essa è esterna al tema del film, ma condotta con una banalità che lo spunto non avrebbe. Pensiamo infatti a come una suora si sentirebbe e cosa proverebbe qualora si dovesse mai innamorare di una persona. Probabilmente le susciterebbero pensieri lontani dal percorso che ha scelto per la sua vita, e quindi di star perdendo la propria fede.
In Santocielo però ci sono proprio in ballo questioni cristiani come l’aborto o la tendenza degli umani a invocare l’aiuto divino per questioni triviali o altre situazioni scherzose che solitamente il cinema cristiano non fa. Quindi anche qui, non si capisce molto bene il taglio che hanno voluto dare all’opera. Avrei preferito e mi sarebbe piaciuto vedere uno spettacolo che, tra una risata e l’altra, denunciasse anche l’aspetto più bigotto della Chiesa (che non significa essere anticlericali) circa le unioni omosessuali, in quanto, lo ripeto, avrebbe fatto riflettere su una piaga che coinvolge la Chiesa da anni.
Marco C. – Milano
Per le strade
La strada, non una strada qualsiasi, anzi le strade è la caratteristica dei Magi che vanno a Betlemme. Oggi, ma non è proprio così, si chiude il tempo del Natale, con questa immagine tra il fantastico e il romantico. Ma non è questa la strada che ci vuole tracciare il Dio fatto bambino a Betlemme e uomo, dopo 33 anni, a Gerusalemme.
La strada che un credente è chiamato a percorrere è quella dell’innamorato, è quella del costruttore di Pace – lo dicevano a Natale e al 1 gennaio, è quella del cercatore della verità – lo diciamo oggi.
I Magi non sono degli abitudinari, sono degli Innamorati della vita e forse diventeranno innamorati di questo Dio fatto bambino. Ma Dio non si formalizza, Lui è tanto innamorato di ognuno di noi che si “accontenta” che noi ci innamoriamo della Vita, della Pace, dell’Umanità. D’altra parte nel racconto dei Magi non si dice il nome di Dio: Gesù, ma semplicemente “videro il bambino con Maria sua madre”. Il volto di questo bambino è il volto dell’Umanità.
Un cristiano innamorato è un cristiano che si sa inginocchiare davanti al volto di questa umanità offrendo i propri doni: ognuno quelli che ha! Anche i propri peccati – parola desueta!
Siamo innamorati o abitudinari?
L’innamorato è colui che è sempre in ricerca sulle strade della Vita; è colui che conosce il rischio di poter sbagliare strada; è colui che non si assoggetta al potere ma sa distinguerlo tra vero e falso; è colui che adorare, contemplare perché la verità non è un veloce messaggio: richiede tempo e profondità. L’innamorato è colui che non cerca il nulla, l’ignoto, ma un volto; è colui che supera l’individualismo ma si affida ad altri e dona fiducia ad altri. I Magi non erano 1, forse 3, forse di più. Uomini e donne che hanno imparato il rischio della fiducia reciproca.
Concludo con le tre citazioni che mi hanno accompagnato in queste feste di Natale:
«Ci vuole coraggio per camminare, per andare oltre. È questione di amore. Ci vuole coraggio per amare… La fatica, oggi, è quella di trasmettere passione a chi l’ha già persa da un pezzo. A sessant’anni dal Concilio, ancora si dibatte sulla divisione tra “progressisti” e “conservatori”, ma questa non è la differenza: la vera differenza centrale è tra “innamorati” e “abituati”. Questa è la differenza. Solo chi ama può camminare.» papa Francesco.
«Com’è possibile che in ogni ambito si studino teorie e pratiche innovative, mentre la violenza rimane l’unico, arcaico mezzo per risolvere i conflitti fra gruppi, popoli, nazioni?
Com’è possibile che manchino sempre le risorse per la salute, l’istruzione, la lotta alla povertà o al cambiamento climatico, mentre i soldi per le armi si trovano sempre, persino nei paesi più disastrati? Cercare la pace interiore non significa pacificare la nostra coscienza. La pace può e deve convivere con l’inquietudine, col dubbio, con le domande che danno senso e sapore all’esistenza.» Don Luigi Ciotti
«Poi gli offriamo i nostri doni: l’oro, cioè la libertà (la cosa più preziosa che hai), la decisione di giovarti col segno. L’incenso, cioè la preghiera – la Messa, le lodi, i canti… – e la mirra. E questo è il dono più difficile; perché è il sacrifico, l’offerta, il dono di sé.» Angelo Scola, vesc.
La baraonda informativa
La baraonda dell’informazione
Le opportunità di avere molta informazione e la baraonda che ne deriva è un tema sentito dai diversi giovani. I giovani che ho incontrato in questi giorni di preparazione al Natale ne sono ben consapevoli. Sanno che oggi sapere tante cose, conoscere quello che succede in tanti paesi lontani dall’Italia è una opportunità per sentirsi di più cittadini del mondo e ciò è bello. Però il numero enorme di notizie è anche faticoso da sopportare, perché sono troppe per le nostre capacità elaborative, perché non sempre sono approfondite. Il fatto poi che molte, quasi tutte le notizie, siano lanciate on line, siano visibili agli occhi e non udibili dalle orecchie non migliora la situazione.
Allora il monito di san Paolo non adattatevi alla mentalità di questo mondo, il Signore non guarda l’apparenza ma il cuore è molto adatto per affrontare questa situazione. Proprio di fronte all’informazione non possiamo fermarci alla superficie, dobbiamo andare in profondità, non possiamo fidarci della grida di questo o di quello ma cercare il vero anche se ciò costa fatica. C’è una democrazia dell’ignoranza che impera e che siamo chiamati, come credenti a fermare. E su questo i social, che pure sono utili per molti ambiti dell’informazione, ci avvelenano: ci impediscono di pensare senza essere pensati, di pensare in libertà. Ci impediscono di coltivare la pazienza della ricerca anche per noi “comuni mortali”. La pazienza, l’attesa, la ricerca, la soglia di attenzione sono il problema principale dei nostri giovani. Ma ciò è anche colpa nostra: che non riusciamo più a gestire la pazienza, il tempo necessario per operare ciò che la vita ci chiede; che non siamo più capaci di farci vedere “disconnessi” dai nostri figli.
Non adattatevi alla mentalità di questo tempo. Fate digiuno, almeno intermittente, del vostro smartphone, del vostro pc. Abbiate il coraggio di restare “off” quando cenate o quando siete insieme: arriverà il silenzio? Dopo il silenzio arriverà la parola.
Guardate al cuore non all’apparenza. Riprendere in mano un libro, uno spartito. Non andate a manifestare con gli slogan degli altri, scrivete i vostri: pazienza se non fanno like, se non vanno in trend topic. Non è vero che hanno tutti ragione, che non c’è niente da insegnare a nessuno. C’è moltissimo da insegnare, ad avere la buona sorte di trovare maestri. C’è moltissimo che resta da capire.
Nel vostro quartiere c’è ancora una edicola? approfittatene, comprate un quotidiano; lo leggerete il giorno dopo? Non importa. Fate riscoprire ai giovani le dita sporche dell’inchiostro della stampa, il fruscio della carta. Aiutate a capire che una edicola è una opportunità per un quartiere, è una opportunità di relazione. Insegnate loro, e forse un poco anche a voi, che il cristiano non vive fuori della Storia, ma nella Storia di tutti gli uomini e in quella Storia le mani se le vuole sporcare.
Perché sporcarsi le mani? Perché così ha fatto Jahweh almeno due volte: quando ha plasmato l’uomo e la donna, quando ha mandato il suo Figlio in mezzo a noi. Anzi continua a sporcarsi le mani attraverso l’azione continua dello Spirito santo tra di noi.
Giorgio Montini, padre di Giovanni Battista nonché Paolo VI, era direttore del Giornale di Brescia che il regime fascista fece chiudere assaltando e distruggendo la tipografia perché faceva pensare!
Lorenzo Milani, del giornale fece la scuola principale dei suoi allievi.
David Sassoli, del suo giornalismo fece un servizio alla politica dell’Europa. «Il periodo del Natale – scriveva nel suo ultimo augurio – è il periodo della nascita della speranza e la speranza siamo noi quando non chiudiamo gli occhi davanti a chi ha bisogno, quando non alziamo muri ai nostri confini, quando combattiamo contro tutte le ingiustizie. Auguri a noi, auguri alla nostra speranza.»
Le opportunità informative oggi sono fortunatamente tante, ma la qualità delle notizie dipende da noi “consumatori”, non dimentichiamolo.
105 solo in 11 mesi
105
Questo è il numero delle donne uccise solo quest’anno 2023, e non è ancora finito!
Donne a cui la vita è stata strappata da uomini che dicevano di amarle, da padri che giuravano di proteggerle e da sconosciuti che credevano di avere il diritto di fare ciò che volevano con il loro corpo.
“Non tutti siamo così, non tutti siamo mostri” questa è la frase che nell’ultimo periodo sta circolando; una frase semplice uscita dalla bocca di uomini che vogliono prendere le distanze da tutta la violenza che ci circonda.
Tutti siamo coinvolti perché non si parla di persone che impazziscono e commettono atrocità; si parla di persone normali con una vita normale che però non capiscono un NO, non capiscono il RIFIUTO, una ROTTURA.
C’è chi colpevolizza le vittime perché “non ci si presenta mai all’ultimo appuntamento” oppure perché: “poverino lui era geloso perché l’amava tanto”, “lei avrebbe dovuto aiutarlo”, “era ubriaca e l’ha provocato”, “era una bambina provocante”.
C’è bisogno di educare le persone al rispetto reciproco facendo capire che amore e possesso sono due cose diverse, che se si ama qualcuno non deve mai esserci violenza, che se una persona dice NO bisogna rispettare la sua scelta e non superare mai il limite. Per educare bisogna iniziare dal principio, da quando si è bambini insegnando il rispetto, ma anche che la violenza non è mai la soluzione, con delle lezioni diverse a seconda dell’età e ovviamente dando l’esempio per primi.
Non sarà mai un mondo senza violenza, ma la speranza di poter vivere la mia vita senza paura è il mio sogno nel cassetto.
Martina C. – 3les Bologna
Chiese vuote… di giovani?
Le chiese sono vuote, di giovani (ma non solo).
La colpa è della Chiesa che non parla più di Cristo bensì di sole cose mondane.
I giovani hanno bisogno di Cristo non di cose mondane.
Lasciamo le necessarie cose del mondo al mondo.
I giovani scansano le chiese perché la Chiesa vuole fare da maestra in tutto non sapendo più parlare di Cristo.
Queste sono alcune delle riflessioni che molti credenti fanno alla realtà ecclesiale attuale. In particolare provo a rispondere a Matteo Matzuzi che sabato 18 novembre scriveva su IlFoglio un testo dal titolo Ite Missa Est proprio su questo tema.
Certo, ognuno ha le sue competenze, i propri ambiti di azione, ma i vari ambiti oggi più di ieri sono così interconnessi tra loro e sollecitano delle risposte anche morali.
Già Paolo VI, che non è l’ultimo arrivato, diceva che il credente deve avere su una mano il Vangelo e sull’altra il giornale, perché il vangelo è fatto per il mondo e il cristiano deve conoscere il mondo. Il Vangelo è la lampada da porre in cima al monte perché illumini le città degli uomini. Per illuminare il mondo è necessario conoscerlo.
E poi Dio si è fatto uomo in Gesù non per hobby, bensì “per conoscere” la storia degli uomini, perché gli uomini conoscessero la sua storia.
Non si può dare una fede senza il mondo e viceversa. Forse per troppo tempo si è voluto lasciare il mondo fuori dalle porte delle chiese, come fosse qualcosa di solamente cattivo, maligno e si è persa la capacità di comunicare.
Il problema non è parlare di Cristo, bensì scalfire l’indifferenza all’incontro con la persona Cristo. Questo perché l’apatia, l’indifferenza e l’individualismo della nostra società ormai sono all’apice del ben vivere: se già chiedere di incontrare l’uomo è una sfida, chiedere di incontrare l’uomo Cristo lo è ancora di più.
Non si può non parlare del mondo, perché il mondo tutto è stato ricapitolato in Cristo, perché ogni più piccolo granellino di sabbia o filo d’erba trovano il loro senso in Cristo! Certo il rischio di confondere l’ecologia con l’escatologia è alto, ma sempre è stato così. La sfida è far capire che l’ecologia senza escatologia diventa ideologia.
Forse non tutti sanno che l’escatologia è la conoscenza e l’esperienza del Paradiso; è lasciarsi guidare dalla luce e della realtà del Paradiso per dare direzione, significato e sapore all’ecologia non solo dell’ambiente, ma di ognuno di noi. Si può vivere la storia con tutte le ottime intenzioni ma solo nel presente. Si può vivere la storia con la prospettiva futura che dona continuamente speranza e forza nel presente.
Le chiese sono vuote non perché la Chiesa parla troppo del mondo e poco Cristo, bensì perché non ha ancora ritrovato quella capacità di parlare del mondo come segno della rivelazione di Cristo aperto alla luce di Cristo.
D’altra parte non è proprio il Concilio Vaticano II a scrivere: le gioie e le speranze, i dolori e le angosce degli uomini di oggi sono anche le gioie, le speranze, i dolori e le angosce dei discepoli di Cristo?
«Non so, mi scrive F., se dire le cose del mondo porti a oscurare Gesù, anche perché la religione insegna valori umani assolutamente condivisibili: fratellanza, rispetto… Quindi per forza bisogna trattare le interazioni umane che, diciamo, sono una manifestazione più diretta e visibile della Rivelazione».
La luce del Vangelo illumina davvero?
Sebbene qui faccia buio tardi e potrei rispondere affermativamente, lo stile gotico della maggioranza delle chiese indurrebbe a una risposta negativa.
Poca luce quindi poco calore? Per quanto Stato e Chiesa si sforzino di riscaldare queste enormi cattedrali, farà sempre freddo in una chiesa francese.
Dove mi trovo? Nella regione Grand Est, dipartimento della Marna, città di Reims, valle circondata dai vigneti dello Champagne e annoverata nelle cronache d’Oltralpe per il battesimo di Clodoveo e le consacrazioni dei re di Francia, che avvenivano nella cattedrale locale. Perché proprio qui? Per studiare scienze politiche in un campus internazionale.
Com’è la vita di un cristiano in Francia?
Anche se il rischio è di scrivere un diario di bordo, proverò a raccontare il tutto seguendo un po’ le emozioni e le suggestioni susseguitesi dal primo anno agli inizi di questo nuovo anno. Per cominciare, devo ammettere che tutti i miei incontri ed esperienze di Chiesa qui hanno avuto una connotazione piuttosto provvidenziale.
Mi spiego meglio. Ho iniziato ad andare a messa quasi per scommessa, in una stagione della mia carriera da studente che si sarebbe rivelata molto dura e in un periodo tutto nuovo della mia vita. Lontano da casa, in un luogo in cui persino la lingua parlata per strada o a scuola deve essere messa in discussione, ci si sente sempre messi alla prova. Pensavo di trovare una celebrazione normale, posata, che mi restituisse il sapore della tipica domenica in oratorio, poi tutti a casa, baci e abbracci.
Pas du tout! Per niente, direbbero loro. Entro in una chiesa gremita di giovani alle 19.00, ed esco da una chiesa gremita di giovani alle 20.45, sbalordito da quanto si potesse “allungare” facilmente una messa! Mi ero reso conto di essere finito nella chiesa accanto all’università dedicata ai giovani guidata da un parroco spaziale, che presto è diventato mio amico. Col tempo, ho notato che all’interno della comunità la curiosità verso il prossimo costituiva un carattere distintivo. Mi sono reso conto, soprattutto grazie al gruppo scout con cui svolgo attività quassù, che, in contrasto con quello che si dice su di loro, i francesi sono di natura curiosi, giocherelloni e grandi provocatori nei confronti del “diverso”, sempre pronti a mettersi in discussione, mai però tentennando su nessuno dei loro punti fermi. Conscio di ciò (avendolo imparato a mie spese!), posso dire che lo scambio con coetanei, adulti, cristiani, insomma “cugini di oltralpe” non può che essere fruttuoso.
Ma torniamo a noi. Messa lunga eppure densa di importanti spunti da portarsi a casa. Qui in Francia, infatti, cantano molto di più. Il canto, sia collettivo sia del celebrante, grazie alla singolare musicalità della lingua, aiuta a scandire le parole della liturgia nella testa e contribuisce a creare un’atmosfera intima, che senza dubbio favorisce la preghiera. Un tipo di preghiera che non avevo mai vissuto in maniera tanto forte quanto adesso: il pregare con il cuore, rivolto alla tua stessa dimensione interiore. È proprio vero, quando “leggi” le cose abituali con un altro tipo di occhiali, in questo caso un’altra lingua, esse diventano straordinarie e il loro significato si rinnova. In Italia non ho mai visto tanta gente inginocchiarsi a pregare, chiudere gli occhi così intensamente, comunicarsi [prendere l’Eucaristia] in ginocchio, ma allo stesso tempo condividere la fraternità, aprirsi alla novità, vivere con la Chiesa al centro. Famiglie intere di Francesi, infatti, sono molto legate alla loro fede e al loro intimo modo di esprimerla. Ormai, riconosco a prima vista una famiglia cattolica.
Esagerato! Potreste dire. Certo, la mia analisi è senz’altro superficiale e il fenomeno avrebbe bisogno di una trattazione più ampia e di più righe (soprattutto in uno Stato dove il principio della laicité è interpretato ben diversamente). Tuttavia, è indubbio che la Chiesa francese stia affrontando un periodo storico diverso da quello italiano, che noi non riusciamo nemmeno ad immaginare.
Se il problema della carenza di vocazioni, infatti, da noi è percepito ma non sentito, in Francia stanno già correndo ai ripari, incrementando ad esempio le responsabilità dei laici: sono numerose le reti, per esempio, di pastorali universitarie e giovanili, associazioni di volontariato, sportive, culturali, benefiche di ispirazione cristiana, tutte piccole ma incredibilmente feconde. Se in Italia il problema degli abusi ci fa male ma non ci ha toccati nel profondo, qui in Francia l’argomento è ancora scottante e le ferite non sono ancora state del tutto cicatrizzate. Il presidente della Conferenza Episcopale Francese, proprio l’arcivescovo di Reims, è tuttora impegnato nel risolvere i problemi sociali e le conseguenze generali del fenomeno sulle diocesi e sulle parrocchie, completamente allineato con il pensiero di Papa Francesco.
Su questi temi, per quanto vicina, la Francia è da considerare un universo a parte. Alla luce di quanto detto, una persona potrebbe domandarsi se le chiese si stiano svuotando, come sta succedendo da noi. Pas du tout! Di nuovo, risponderebbero loro. “Pochi ma buoni”, infatti, i cristiani francesi si rimboccano le maniche, urlano dai tetti la loro presenza, riempiono le chiese, gli eventi nazionali e internazionali. Ho avuto modo di notare che nei momenti di preghiera, nella vita di tutti i giorni, per queste poche persone, si tratta di una questione di identità, di radici e di tradizioni. Certo, la fede dei Padri è tale per tutti e ci riunisce, ma il loro modo di viverla consiste nel mettere genuinamente Dio al centro e nell’essere capaci di distinguere fra ciò che Lo riguarda e ciò che riguarda il nostro passaggio sulla Terra, servendosi spesso di momenti per “fare deserto”.
Numerose sono infatti le occasioni di formazione per gli adulti e per i giovani; questi ultimi, instancabilmente inseriti nelle loro parrocchie, gruppi e comunità, si pongono domande di senso legate all’età, lasciandosi pur sempre illuminare, nell’intimità, dalla Luce del mondo che irradia attraverso la preghiera.
Che sensazioni bizzarre, che esperienza diversa, straniante! Questa esperienza in Francia mi sta aiutando ad “aprire sempre di più le braccia” per andare incontro al Padre, ma anche a me stesso e agli altri.
Per quanto distanti, ma allo stesso tempo vicini, ritengo che i cristiani francesi siano un esempio a cui guardare, per apprezzare le tipicità e il carisma di una comunità che mette in primo piano il fare silenzio e il pregare il Padre nel segreto, senza però mai prendere la lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere, affinché irradi la luce a tutti quelli che sono nella casa.
Elia Q. – (Grosseto) attualmente a Reims
AZZARDO QUESTO CONOSCIUTO
Cosa ha spinto i calciatori a scommettere? Detta così sembra una domanda retorica ed inutile perché i calciatori hanno tutto: soldi, fama, donne… eppure come se non bastasse hanno voluto provare l’ebbrezza di scommettere. Penso però che il giocatore (in quanto giocatore d’azzardo) non vuole giocare d’azzardo per arricchirsi o perché ha bisogno di soldi facili, bensì perché vuole provare l’emozione di aver battuto il banco. Ovvero quella “persona” che non perde mai. O quasi. Si inizia a giocare da giovani, per noia, passatempo, capriccio e pian pianino, se non si è bravi a dosarsi, diventa una vera e propria ossessione. I ragazzini cominciano a giocare pochi spicci al videogame di un bar e le prime volte, magari, vincono. Successivamente, l’eccitazione della sfida e l’illusione di facili guadagni li spinge a continuare il gioco nelle ricevitorie o addirittura in siti online, rubando prima i dati sensibili ai genitori e poi iscrivendosi alle piattaforme. Una droga che ti prende il cervello e non ti lascia pensare ad altro. Ti rende ridicolo e cieco di vedere comportamenti bizzarri e alquanto superstiziosi. Non riesci a scindere i problemi della vita vera da quello che dovrebbe essere un gioco. È un problema che è in aumento e secondo me questo è dovuto al fatto che al giorno d’oggi i ragazzini vivendo nell’era digitale e avendo sempre in mano uno smartphone o un tablet crescono più in fretta, conoscono più cose e sono più sgamati.
In queste settimane si è parlato tanto, forse troppo, di Fagioli e Tonali che da calciatori hanno scommesso su partite di calcio. Ai professionisti non è negato il gioco d’azzardo purché sia legale, su piattaforme legali (per intenderci quelle che vediamo in tutte le pubblicità e/o sponsor di eventi) e non su eventi sportivi rientranti nelle federazioni quali FIGC, UEFA e FIFA. Inoltre, la grande differenza con il passato è che loro hanno scommesso, fino a quello che sappiamo oggi, solo per proprio interesse personale senza commettere eventuali illeciti sportivi e/o combinare partite. È una finezza particolare che però molti media non tengono a precisare tanto da far passare i due calciatori come coloro che si sono venduti le partite, come successo anni fa.
Detto ciò, cosa ha spinto due calciatori a scommettere ed essere definiti dai giornalisti ludopatici? Come riportato dalla Rai nell’intervista mandata in onda durante “Avanti Popolo” ai dirigenti del Piacenza calcio (squadra in cui sono cresciuti Fagioli e Tonali), gran parte del problema sta nei soldi. I calciatori guadagnano troppo fin da giovane. Infatti, se un calciatore guadagnasse 1.000 – 2.000 euro al mese, tolte le spese delle bollette e altro, non gli rimarrebbero molti soldi da investire in schedine e slot machines. Di certo, se anziché 1.000, la giovane promessa ha una busta paga 10 volte superiore la situazione si complica drasticamente e di conseguenza anche le eventuali, se non quasi certe, perdite che accumulandosi diventano debiti. Poi però c’è anche una sorta di abbandono. I giocatori nelle giovanili sono spesso soli, i loro compagni al di fuori del calcio hanno una vita normale e lo stesso vale per le ragazze che frequentano. Di conseguenza, non hanno modo di vivere una vita normale di un adolescente e questo può portare a stare in casa, su internet e scoprire siti illegali e non dove con poco ci si può registrare e scommettere. Bisognerebbe che questi ragazzi venissero educati dal principio, dai primi stipendi con l’aiuto di tecnici per capire come gestire i guadagni. Anche solo far capire loro che non tutti hanno quella possibilità economica, che, ad esempio, 10.000 euro è quasi metà stipendio annuale medio di una persona. In fin dei conti questi calciatori sono nel bene o nel male ignoranti del settore. Negli USA questa formazione c’è già da qualche anno. In NBA, infatti, girano cifre molto più grosse di quelle calcistiche italiane ed europee, tant’è vero che le squadre sono corse subito a investire nell’educazione finanziaria dei propri giocatori.
Forse, tra tutte le cose che prendiamo dall’America, questa potrebbe veramente salvare molte persone giovani e non solo.
Marco C. – Milano