I giovani: la Chiesa che manca!

È necessario che le comunità mostrino ai giovani la differenza cristiana. Enzo Bianchi, OssRom 25 04 2018

Cari amici credo che questo articolo di Enzo Bianchi valga leggerlo a giovani e adulti e… preti.

A marzo i giovani hanno vissuto una riunione presinodale nella quale è stato elaborato un documento da offrire alle istituzioni del prossimo sinodo su «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale», affinché da esso si sentano ispirate nell’elaborazione dell’Instrumentum laboris, la traccia per il confronto e la discussione comune. Un documento concepito da trecento giovani provenienti da tutto il mondo, collegati online attraverso gruppi di Facebook con altri quindicimila coetanei, non può essere pienamente rappresentativo di una realtà così plurale e complessa qual è la gioventù di molte e diversissime aree culturali nelle quali è presente la Chiesa cattolica. Resta tuttavia significativo che in questo testo si possano scorgere alcune convergenze, soprattutto sulle sfide e sulle opportunità dei giovani nel mondo di oggi. Va anche riconosciuta un’innegabile evidenza: le numerose indagini sociologiche e le diverse letture da parte di attenti osservatori del mondo giovanile non contraddicono ciò che i giovani hanno espresso in prima persona in questo confronto.

Questo documento ha il pregio di aiutare a percepire i giovani come parte della Chiesa e noncome semplici interlocutori di un’istituzione a loro esterna. I giovani si sentono Chiesa, anche quando hanno consapevolezza di essere “la Chiesa che manca”, secondo la felice espressione di don Armando Matteo, e hanno la capacità di prendere la parola per richiedere al corpo di cui fanno parte un cambiamento di rotta e di stile. È significativo che si esprimano giudicando «la Chiesa come troppo severa e spesso associata a un eccessivo moralismo» e chiedendo che essa sia «accogliente e misericordiosa, […] capace di amare tutti, anche quelli che non la seguono» (1.1). Dunque i giovani fanno richieste non scontate né rivoluzionarie, ma pacate e determinate. Ciò che tuttavia dal documento emerge come urgente per i giovani di oggi è la ricerca del senso dell’esistenza. Ricerca che si è fatta faticosa e difficile e che avviene ormai lontano dai percorsi indicati dalle religioni e soprattutto lontano da un itinerario di fede, perché proprio la fede non è stata loro trasmessa dalla generazione precedente, quella dei loro genitori. I millennials, nati negli ultimi due decenni del secolo scorso, possono anche essere definiti la “prima generazione incredula”, ma si faccia attenzione e si legga con discernimento quanto avvenuto nella generazione precedente, resasi estranea alla Chiesa soprattutto attraverso un’inedita incoerenza: si diceva cattolica ma non frequentava più abitualmente la liturgia domenicale e non sentiva l’appartenenza al cattolicesimo se non a livello culturale, in quanto erede di una cultura tradizionalmente cattolica.

Negli ultimi decenni del secolo scorso la Chiesa cattolica, in particolare quella italiana, è parsa aver smarrito lo slancio dell’aggiornamento conciliare e non si è più impegnata nella formazione e nella cura del fedele, affinché la sua fede fosse pensata, adulta e dunque emergesse la figura del cristiano maturo, corresponsabile nella comunità cristiana. Ha preferito spendere tutte le sue energie in una logica di presenza nella società, fino a cercare di occupare spazi abitati dalla “religione civile”. Così è avvenuta una rottura della trasmissione generazionale della fede ed è emersa una figura di cattolico astenico e poco convinto che, come tale, non poteva comunicare ai figli né le esigenze evangeliche della sequela né una concreta appartenenza alla comunità cristiana.

Va anche detto che questa generazione adulta di fine millennio è stata incapace di comunicare una grammatica umana ai figli, che oggi si trovano poco abilitati al vivere quotidiano, ad assumere una responsabilità, a trovare senso. È soprattutto questa “ricerca di senso” a essere oggi in affanno, come testimoniano le indagini sociologiche e come sperimentano quanti sono in ascolto dei giovani (come i monasteri o le comunità che li accolgono abitualmente). «Chi sono veramente io? Chi voglio essere? Come diventare me stesso? Che cosa posso sperare? Che senso dare alla mia vita? Mi ritrovo davanti a un muro: come abbatterlo? O devo forse scalarlo?». Queste le domande dei giovani, a volte vissute in modo tragico, nella sensazione che non vi siano risposte se non il nulla.

Occorre ascoltare i giovani, ascoltarli nelle loro speranze e nelle loro ansie con molta pazienza, cercando soltanto di essere vicini a loro, compagni di strada, niente di più, senza avere la pretesa di suggerire o di proporre alcunché. Proprio perché queste sono le domande drammatiche che li abitano, oggi il riferimento a Dio sembra di nessun interesse, anche se questa aporia non desta alcuna confessione o militanza ateistica. Semplicemente, Dio non è più interessante e i giovani sono convinti che si possa vivere una vita felice senza di lui. E non si dica che, di conseguenza, i giovani abbandonano la Chiesa. Questa è estranea di per sé, come un mondo che non riesce più a dire nulla né attraverso la sua liturgia né attraverso le sue prediche. Dio è una parola rifiutata ed espulsa perché è risuonata troppo, perché le sue immagini sono state percepite come false e nemiche dell’uomo, mentre la Chiesa è estranea perché — come più volte mi hanno detto i giovani — «vive in un altro mondo». Resta però significativo che quei giovani che hanno ricevuto una qualche conoscenza di Gesù Cristo e della sua radicale umanità non sono indifferenti alla sua figura esemplare e al suo messaggio, anche se non giungono a una confessione di fede in lui.

Proprio per queste considerazioni, diventa urgente e decisivo un cambiamento nel vivere la fede cristiana: un cambiamento che riguarda innanzitutto la generazione adulta dei padri e delle madri, la generazione dei quarantenni-cinquantenni che deve essere raggiunta dal Vangelo, da quel Vangelo che non è stato loro indirizzato nel tempo della formazione cristiana. Occorre riaccendere un cristianesimo di testimonianza, in cui comportamento e stile siano veramente coerenti con il Vangelo professato. La trasmissione della fede deve cominciare nello spazio della famiglia, anche della famiglia ferita: solo se c’è convinzione salda, mite e intelligente, allora la fede si fa eloquente, parla ad altri e si fa comprendere come un tesoro per la vita. Se invece le istituzioni della Chiesa continuano a ignorare i fedeli, a lasciarli in una condizione di destinatari passivi del culto e della predicazione, se non riescono a farli partecipare con responsabilità alla vita della comunità, continuerà una fuga senza contestazioni e nel recinto dell’ovile resterà un numero sparuto di pecore.

Lasciamo perdere la retorica sui giovani e, mi permetto di dire, anche sulle donne. È controproducente caricare queste realtà di aggettivi pieni di complimenti e di immagini poetiche ma vuoti di sostanza: occorre invece un mutamento, affinché queste parti della Chiesa che stanno per mancare, o addirittura già mancano, trovino uno spazio di appartenenza e di vera fraternità e sororità vissuta in una comunità che sappia mostrare “la differenza cristiana”, in mezzo agli uomini e alle donne presenti nella storia e nella società, non contro di loro. I giovani oggi sono sempre più lontani dalla fede cristiana, ma abitano non una terra atea bensì una terra di mezzo in cui regna l’indifferenza per Dio e per la Chiesa. Questo è però un terreno aperto alla ricerca, alla vita interiore, alla spiritualità, un terreno assetato di grammatica umana.

Attraverso le loro domande, sovente mute, i giovani chiedono che sia indicato loro il senso, la chiamata/vocazione alla vita. Sì, la vocazione che vorrebbero ascoltare e discernere è la vocazione alla vita, al vivere che è la chiamata unica e irripetibile per ogni persona da parte di Dio, anche nella fede cristiana. Come tutti gli umani, anche i giovani sono chiamati a vivere in pienezza, a fare della propria vita, per quanto è possibile, un’opera d’arte consapevole: chiamati dunque alla felicità, perché la vita buona e bella sa anche dare la felicità. Nessuna visione banalmente ottimistica sul “duro mestiere di vivere”, ma se questo invito alla vita è rivolto a un giovane da chi ha fiducia e comunica fiducia, se è fatto nella piena gratuità, non per farlo entrare nella Chiesa, non per farne un discepolo, ma perché si vuole che diventi un soggetto capace di pienezza di vita, allora l’appello è veramente credibile. Solo degli anziani, degli adulti capaci di fiducia e dunque di fede sanno anche mostrare la gratuità della loro cura dei giovani e sono capaci di fare strada insieme a loro, verso la vita.

Accogliendo i giovani, nel monito presinodale Papa Francesco ha usato parole commoventi per loro, invitandoli al rischio, all’entusiasmo della fede e al gusto della ricerca. Ha chiesto loro di non temere, di non spaventarsi mai sui nuovi sentieri da percorrere. Nella domenica delle Palme ha chiesto loro di gridare perché, se non grideranno i giovani, grideranno le pietre, come aveva detto Gesù dopo il suo ingresso a Gerusalemme (cfr. Luca, 19, 40). Dunque i giovani non siano mai letti né fuori dalla Chiesa né come semplici destinatari delle parole della Chiesa, né senza i padri e le madri, senza gli anziani, perché solo tutti insieme, come un solo corpo, si cammina con fiducia e solo in comunione ci si salva.

Rimanere sulla poltrona

Rimanere sulla poltrona del proprio immobilismo.
Rimanere, forse è il verbo che più ho riscontrato in questi ultimi mesi in molti giovani che ho cercato di disturbare per chiedere qualche idea, qualche consiglio, qualche confronto.
E non parlo solo di giovani sconosciuti, incrociati tra le vie della città, ma anche di tanti giovani vicini a me, alle nostre attività, addirittura vicini a Gesù!
Sembra ci sia una paura di fondo nel lasciarsi scocciare anche per qualche cosa di semplice, sembra che non possiamo abbandonare i modi di pensare, i non lasciarci mettere in gioco.
Oggi molti di voi possono permettersi di viaggiare come io non potevo, di vedere, di comprendere (forse) tanto che sembra essere un peccato rimanere nello stesso posto per più tempo. Eppure pare si rimanga sempre attaccati alle proprie idee, al proprio pensare, per restare indisturbato.
Qualcuno obietterà che bisogna rimanere nelle proprie idee, che sono necessari dei punti fermi per diventare uomini o donne. È necessario rimanere da qualche parte, ma non per restarci in eterno, bensì per tuffarsi nella vita.
Tuffarsi non è facile ma deve essere bellissimo (io non ne sono capace) eppure per tuffarsi è necessario rimanere sulla punta del trampolino. Non restarci per sempre: quanto basta!
Quindi c’è un rimanere esagerato e un rimanere quanto basta.
Forse io, gli adulti, la società, la Chiesa siamo rimasti legati a noi e non sappiamo più cosa dirvi, come starvi accanto, come crescere con voi – non ho scritto “come farvi crescere”, ma “come crescere con voi”, o forse preferite rimanere dove siete e guai a chi vi tocca?
Rimanere è un verbo che torna molte volte nel vangelo di Giovanni per dirci dove radicare le nostre esistenze, ma non è un termine statico o passivo, tutt’altro: è un termine dinamico, attivo fino a portare frutto. Un po’ come il “rimanere sul trampolino”.
Però non si può arrivare da soli sul trampolino, non dimentichiamolo. E la mia impressione è che per certi versi molti di voi siate sul trampolino, ma ci siete soli e rischiate di rimanerci, sul trampolino.
Lo so, la Chiesa non è perfetta. In questi ultimi decenni ha fatto anche un po’ di errori, rimanendo sulle proprie lunghezze d’onda incapace non di “farvi crescere”, ma di “crescere con voi”. Per molti versi non si è accorta della vostra voglia di tuffarvi, ma anche della vostra paura di tuffarvi e così ognuno è rimasto sul proprio trampolino incapace di tuffarsi.
C’è un bel film, Tutto quello che vuoi, in cui un anziano poeta e dei giovani scapestrati si incontrano; nessuno vuole insegnare o imparare qualche cosa dall’altro, piano piano però uno per l’altro insegnano e imparano a puntare bene i propri piedi sul trampolino, uno per tuffarsi nella vita dell’aldilà e gli altri per tuffarsi nella vita dell’aldiquà!
La Chiesa per un verso è vecchia, per un altro – ora non approfondisco – è sempre giovane: vogliamo crescere insieme? Imparare e insegnare gli uni gli altri a posizionare bene i piedi sul trampolino?
È questo che papa Francesco sta chiedendo alla Chiesa ma anche a tutti voi; è questo l’obiettivo del prossimo Sinodo / Assemblea dei vescovi sui e per i giovani.
Nessuno trucco, nessun costo, solo voglia di tuffarsi ognuno con la sua età per un mondo più bello, buono e vero.
pJgiannic

La Chiesa che vorrei

Talvolta quando mi capita di vivere in un ambiente di Chiesa mi rendo conto che ascoltare la Parola di Dio e viverla ogni giorno è difficile sia per le situazioni di vita nelle quali siamo coinvolti, sia per le reazioni che spesso abbiamo nei confronti di essa e degli altri.
Ognuno di noi, penso, dovrebbe vivere nella consapevolezza che abbiamo una vita troppo breve per pensare a dare problemi a quella degli altri. Bisognerebbe invece cercare di dare del valore aggiunto alla nostra vita regalando amore gratuito perché, seminando amore lentamente (non subito), l’amore crescerà. Nota bene che sto parlando appositamente in primo luogo di Chiesa dal punto di vista dei laici, perché i preti solamente non fanno la Chiesa.
Vorrei una Chiesa che vivesse di amore sincero e che in qualche modo fosse in grado di correggere coloro che le portano discordia e non la vivono in modo sereno. Vorrei che la fede diventasse qualcosa di concreto e modello di vita non solo per i laici, ma soprattutto per i sacerdoti, specialmente per quelli che approfittando del potere loro dato conducono una vita non del tutto consona alla loro vocazione.
I giovani, come gli adulti, hanno bisogno non di un predicatore che dà istruzioni di vita come fosse un manuale, ma un esempio da seguire esattamente come Gesù lo era per i suoi discepoli. Inoltre i giovani hanno bisogno di una Chiesa che accolga tutti senza giudicare perché il comandamento “Ama il tuo prossimo come te stesso” invita a non puntare il dito contro chi non condivide le tue idee. L’amore è anche e soprattutto rispetto: rispetto delle idee, del credo, delle situazioni, delle posizioni degli altri. Anche la più piccola delle comunità è l’esempio di ciò che dico. La Chiesa: giovani, adulti, sacerdoti, deve impegnarsi a mettere in pratica tutti i giorni ciò che il Vangelo ogni domenica ci dice.
Abbiamo la fortuna di poterci dissetare e nutrire con la Parola di Dio e quindi anche il dovere di testimoniarla con amore non solo con le parole ma con i fatti: l’amore è gratis: seminiamolo! Cosi anche gli altri ci seguiranno perché l’esempio è come l’amore: cresce lentamente dopo essere stato seminato.

Stefano Fr. – Torino

Dio a modo mio

Pubblichiamo volentieri un intervento di Roberto Lagi, Laico di san Paolo, sui giovani con l’augurio possa suscitare qualche discussione.

GIOVANI A MODO MIO. La transizione difficile

In questi giorni ho letto un libro pubblicato da Vita e Pensiero che contiene i risultati di una ricerca dell’Università Cattolica di Milano: Dio a modo mio. Giovani e fede in Italia (P. Bignardi, R. Bichi e altri a.c., 2015). Vorrei sintetizzare alcuni argomenti emersi e riassunti dall’autrice nelle conclusioni (pp. 173).

  1. L’attuale generazione dei giovani di oggi dal punto di vista religioso, è al confine tra due generazioni: quella di un passato che non c’è più e di un futuro che non c’è ancora… Sono una “generazione di mezzo”, potremmo anche definirla “interstiziale”, collocati storicamente tra un modello culturale tipico del passato, tradizionale-istituzionale, a cui sono stati, dolenti o nolenti, socializzati nella maggioranza dei casi, e un modello culturale presente, emergente e de-istituzionalizzato, che si sta diffondendo proprio in questi anni. Quest’ultimo, concedendo maggiore libertà all’individuo e rifiutando di esercitare la normatività tipica del modello tradizionale, apre la strada tra i giovani a nuove modalità di vivere la fede, più personali, meno “convenzionali”, seppur “autentiche e consapevoli”. Il loro è il travaglio di chi soffre il venir meno di un modello percepito come inadeguato e insoddisfacente e per questo respinto, e vorrebbe trovare un modo nuovo di vivere il rapporto con Dio, la ricerca di un’autenticità di vita, la strada verso la speranza e la felicità. Conoscono le forme della religiosità del passato, istituzionali, tradizionali, definite: le hanno ricevute dal catechismo, dall’oratorio, in famiglia, dai nonni. Ma non sanno come quelle possano rispondere alle domande che essi portano dentro di sé, esigenti e inedite; le tracce di un modo diverso di vivere la fede si fanno strada dentro di loro a fatica. Percorso difficile e rischioso, anche perché spesso vissuto in solitudine, talvolta in compagnia di adulti che vorrebbero continuare ad essere i maestri per un tempo che non c’è più.
  2. Da queste premesse una serie di ulteriori considerazioni. Intanto la confusione fra la fede e l’etica: spesso essere cristiani coincide con un’etica identificata con i dieci comandamenti o, per alcuni, con il detto “ama il prossimo tuo come te stesso”.
  3. I giovani vedono la Chiesa cattolica come Istituzione, raramente hanno un ricordo gioioso della loro iniziazione cristiana: La formazione ricevuta da bambini ha generato in loro un’idea di vita cristiana piena di obblighi e divieti, di impegni che hanno poco a vedere con la voglia di vivere e con le domande tipiche della loro età.
  4. Inoltre: Questi giovani hanno acquisito un’idea piuttosto esteriore di vita cristiana, con poca anima e soprattutto priva della percezione che l’essere cristiani ha a che fare con Gesù Cristo e con il Vangelo.
  5. Da ciò deriva che i giovani hanno una visione della vita cristiana rigida, definitiva e senza tempo, dentro la quale non trovano posto le domande personali o la sensibilità che soggettivamente vorrebbe reinterpretare il senso della fede. Da questo modo di credere essi prendono le distanze, abitando lo spazio dell’esperienza cristiana in modo soggettivo e individualistico, quello che il titolo della ricerca definisce “Dio a modo mio”.
  6. Non che ai giovani manchi un anelito di infinito, un’apertura al divino, il problema è che: a un modello pastorale tutto orientato a comunicare una visione della vita o a proporre una serie di impegni andrebbe oggi sostituito un modello impostato sul dialogo: un dialogo vero, che è scambio, ascolto profondo, personalizzazione dell’annuncio e accompagnamento a collocare le ragioni della fede dentro percorsi personali, originali e irripetibili, cosa che purtroppo difficilmente si realizza.

Concluderei riportando ancora una frase della Bignardi: Educare i giovani alla fede significa consegnare loro la fede così come noi adulti l’abbiamo vissuta? O piuttosto mettere nel loro cuore l’essenziale, insieme ad una passione che dia il desiderio e la volontà di reinterpretarlo per il loro tempo, nel loro tempo? …. Vi è un intreccio molto stretto tra le generazioni: i più giovani imparano dalla testimonianza degli adulti che cosa significhi credere; ma il loro apprendimento non è passivo. Mai come oggi esso è critico, attento a discernere, ad accogliere ma anche a rifiutare. In questo i giovani, mostrandoci le inautenticità dei nostri percorsi, ci costringono ad aprirci alla novità e al futuro. Resistere a questa esigenza avrà come esito non solo lo smarrimento delle nuove generazioni, ma l’inaridimento della generazione adulta. Che resterà pateticamente superata, gente di altri tempi, testimoni di un cristianesimo che non sa cercare e intuire i segni del tempo e pertanto non riesce a stare dentro la vita.

In Atti 1,8 il Risorto invia i discepoli dicendo: avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra. Testimone non è, in questo contesto, colui che si limita a parlare di ciò che è accaduto, ma chi testimonia con la propria vita l’autenticità di ciò che dice e questo in ogni tempo e luogo.

Sapremo essere anche oggi dei veri testimoni del Risorto soprattutto per i giovani?

Roberto Lagi, Fiesole

Le sporche lezioni di fisica

Mi è capitato recentemente di discutere riguardo ad alcune notizie legate ai comportamenti più o meno scorretti in ambito clericale. In questi anni la stampa ha portato alla luce diverse vicende sul comportamento di alcuni servi di Dio. Si passa dai peccati più materiali come lo scandalo riguardante il cardinal Bertone a faccende decisamente più serie come i fatti legati alla pedofilia.

Ciò che più sorprende è proprio la contrapposizione tra il messaggio puro che questi uomini dovrebbero trasmettere e il degrado delle loro azioni.

Tuttavia si tende poi a unificare il messaggio con il messaggero, dimenticandoci che siamo tutti peccatori, anche chi, in linea teorica, dovrebbe esserlo “di meno”.

La stessa situazione in realtà la ritroviamo nell’ambito della ricerca scientifica.

I personaggi che hanno creato la relatività e la meccanica quantistica, sono considerati universalmente dei geni o comunque il meglio a cui un essere umano possa aspirare. Eppure ci si dimentica, volutamente o meno, che anche loro erano dei peccatori.

Si prenda Einstein, scienziato e filosofo, ormai elevato a semidio dalle masse. Ebbene ciò che spesso non viene raccontato nei documentari è il suo rapporto con la moglie, di cui il risultato furono delle regole di comportamento che la consorte era obbligata a rispettare, che vanno da “smetterai di parlare quando ne farò richiesta” a “ti assicurerai che riceverò tre pasti al giorno”.

Il grande scienziato Paul Ehrenfest quando comprese che la scienza stava avanzando troppo velocemente perché lui potesse tenerne il passo, mise fine non solo alla sua vita ma anche a quella di suo figlio, affetto dalla sindrome di Down.

Erwin Schroedinger aveva inclinazioni che oggi definiremmo pedofile, infatti amava intrattenersi con ragazzine in età puberale. La sua famosa equazione venne concepita durante un soggiorno di due settimane con l’amante sulla Alpi Svizzere, mentre la moglie era ad attenderlo a Zurigo.

Richard Feynman era un abile adescatore di donne, che nei suoi scritti erano paragonate a un oggetto sessuale o poco più.

Werner Karl Heisenberg, autore del famosissimo principio di indeterminazione, premio Nobel nel 1932, viene ricordato per il suo appoggio al regime nazista Tedesco. Egli cercò in tutti i modi di costruire l’atomica per il regime ma non ci riuscì. In seguito, finita la guerra, dichiarò che in realtà egli si oppose alla costruzione dell’atomica ma i documenti storici suggeriscono il contrario.

Arrivando ai giorni nostri è interessante la storia di Paul Frampton, fisico delle particelle arrestato per spaccio internazionale di cocaina. Adescato da una modella su un sito di appuntamenti on-line, con l’inganno si è ritrovato a portare una valigia in aeroporto con due chili di cocaina all’interno.

Tutto ciò per insegnare che bisogna distinguere il messaggio dal messaggero. La fisica, come la religione, in sé è pura. Ma questo messaggio è trasmesso dalle persone, che in fondo subiscono le tentazioni che noi tutti subiamo.

Roberto Nava