Lobbisti dell’ambiente

Il fenomeno del riscaldamento globale, come suggerisce il nome stesso, non può riguardare esclusivamente le singole nazioni e neppure singoli continenti. Proprio perché globale necessita di una visione comune, una visione a partire dalla quale scegliere le azioni da compiere affinché gli uomini possano vivere bene sulla Terra.
Per far fronte a questa necessità sono state inventate le COP, le Conferenze annuali delle Parti sul clima, alle quali oggi partecipano 197 paesi (su 205) più l’Unione Europea. Questi furono infatti i paesi firmatari della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), il risultato del Summit della Terra del 1992 a Rio De Janeiro.
A partire dal 1995 le COP vengono organizzate ogni anno e oggi, che siamo vicini alla ventinovesima conferenza che si terrà a novembre a Baku, dobbiamo chiederci quali siano stati i risultati ottenuti e quale sia la situazione attuale.
Nel 1995 la Germania, con l’allora ministro dell’ambiente Angela Merkel, ospita la prima COP nella quale i firmatari accettano di incontrarsi ogni anno.
Da questa data ad oggi due sono state le COP più importanti. La COP3, durante la quale venne stilato il protocollo di Kyoto che promette di ridurre del 5,2% le emissioni globali rispetto ai livelli del 1990. Gli Stati Uniti, il paese che allora era il più inquinante al mondo, firmò l’accordo ma non lo ratificò.
La seconda è stata la COP21 di Parigi, in cui è stato trovato l’accordo per contenere il riscaldamento globale entro 1,5°C e l’obbiettivo emissioni zero per il 2050. Come? Attraverso piani nazionali volontari.
Gli Stati Uniti, sotto la presidenza Trump, si ritirano dall’accordo nel 2019, per poi rientrare due anni dopo sotto la presidenza di Joe Biden.
La Cina e la Russia dovranno invece raggiungere l’obbiettivo entro il 2060, l’India (che ha da poco superato la Cina ed è diventato lo stato più popoloso del mondo) nel 2070.
E l’ultima COP? Com’è andata?
Il fatto che si sarebbe tenuta a Dubai, capitale di uno stato che fonda la propria economia sulla produzione e il commercio dei combustibili fossili nonché sesto esportatore al mondo di petrolio, non aveva fatto ben sperare sin dall’inizio.
Così come non aveva fatto ben sperare che fosse stato designato presidente della conferenza Sultan Al Jaber, ministro dell’industria e dell’avanzamento tecnologico nonché magnate del petrolio in quanto capo della Abu Dhabi National Oil Company (ADNOC). Queste premesse non hanno tradito le aspettative.
Durante la COP28, Al Jaber ha affermato in un’intervista al The Guardian che “nessuna scienza dimostra che abbandonare i combustibili fossili manterrà l’aumento delle temperature entro 1,5°C”, ignorando decenni di studi dell’impatto antropico sulla temperatura terrestre.
Fatto ancor più grave sarebbe che, secondo un’inchiesta della BBC, Al Jaber avrebbe approfittato del suo ruolo per negoziare accordi in materia di combustibili fossili durante le riunioni preparatorie e ciò sarebbe emerso dall’analisi dei documenti raccolti dai giornalisti del Centre for climate reporting (Ccr).
Altro dato preoccupante della COP di Dubai è stato il numero di lobbisti accreditati delle aziende di combustibili fossili, un’enormità: 2456, quasi cinque volte quelli della COP precedente.
Il risultato? Dopo lunghe trattative, è stata ottenuta la promessa di “allontanamento” dai combustibili fossili entro il 2050, con una formulazione vaga e poco chiara.

Per fortuna, alcuni passi positivi sono stati fatti. La diplomazia climatica esiste ed è anche molto importante che ci siano degli spazi dove essa possa agire. Questo permette inoltre visibilità a chi altrimenti non avrebbe modo di far sentire la propria voce.
Ne è un esempio l’assegnazione della COP23 (2017) alle isole Figi, in rappresentanza dell’alleanza AOSIS (Alliance Of Small Island States) composta da 42 stati che rischiano di ritrovarsi sommersi nei prossimi anni a causa dell’innalzamento dei mari.
Ciò che invece non fa ben sperare è la lentezza di questa macchina diplomatica, poiché a un compito già non facile si aggiungono interessi che ogni stato vuole proteggere.
Luigi C. – Roma

Bangladesh, uno sconosciuto necessario

Attualmente c’è una minaccia che sta passando inosservata (per motivi legati a situazioni economiche, politiche e sanitarie) e che mette sempre più a repentaglio le nostre vite: il cambiamento climatico. È causato dal nostro modello di sviluppo, è una crisi globale da non sottovalutare e costringe ogni anno milioni di uomini, e anche gli animali, ad abbandonare le proprie case e trovarsi una nuova dimora.
Un esempio paradigmatico di questa dinamica è il Bangladesh. Nel 2021 è stato il paese al mondo a registrare il maggior numero di nuovi sfollamenti a seguito di disastri naturali, per lo più inondazioni, dovuti all’innalzamento del livello del mare causato da tempeste tropicali e monsoni estivi. A questi eventi naturali si accompagnano quelli socioeconomici: povertà diffusa, scarsità di servizi essenziali e densità di popolazione molto elevata; tutti eventi che stanno lentamente peggiorando la situazione interna del Paese. E questo nonostante il Bangladesh produca filati e capi di abbigliamento che riempiono tutti i nostri armadi!
Gli effetti del cambiamento climatico sono sia di breve sia di lungo periodo. La temperatura media si alza perché ci sono troppe fabbriche e questo si tramuta in troppo inquinamento di gas e materiali dannosi per la Terra. Il surriscaldamento globale porta a un conseguente e costantemente innalzamento del livello del mare che erode il terreno coltivato, il quale non può più dare la giusta sussistenza in termini di raccolto, provocando una crisi monetaria e migratoria alla famiglia proprietaria di esso. Ma è solo l’inizio del circolo vizioso.
La scarsa quantità di raccolto moltiplica i problemi sociali già presenti in quest’area, portando i padri di famiglia a prendere anche decisioni drastiche ed impensabili per la sopravvivenza della famiglia stessa. I matrimoni di figlie minorenni sono infatti all’ordine del giorno nelle comunità di zone rurali legate alle tradizioni antiche. Per un padre, dare la propria figlia in sposa ad un’altra famiglia significa innanzitutto avere una bocca in meno da sfamare in casa propria e in secondo luogo significa ricevere dei soldi con i quali la famiglia potrà continuare a sopravvivere. È come se la bambina, nei momenti di crisi finanziarie, diventasse un prodotto da vendere e con il quale generare una fonte di reddito. Spesso, inoltre, qualora non ci siano figlie già “pronte” per essere date in mano allo sposo, i genitori cercano di procreare nuove creature da rivendere in futuro. Non è un caso che il tasso di fertilità adolescenziale e di matrimoni precoci è tra i più alti non solo in Asia, ma in tutto il mondo. Si pensa difatti ad un piano d’azione globale per porre fine a questi scempi che portano spesso la donna a essere vittima di violenze da parte del marito o dei genitori del marito stesso perché appunto trattata e riconosciuta come merce di compravendita.
Come abbiamo visto però il problema è spesso a monte e deriva dall’ambiente. Un diverso approccio ambientale significa posti di lavoro più salubri con servizi adeguati, ma significa anche evitare tutti quei problemi che ne derivano dal punto di vista sociale ed economico. Aumentare il salario minimo, come successo in alcune aziende, dare maggiori compensi per gli straordinari e offrire pranzi gratuiti e giornate di riposo ai lavoratori sarebbero dei benefit molto importanti che andrebbero a migliorare le condizioni della maggior parte della popolazione. Inoltre, utilizzare la green economy farebbe bene al PIL del Paese, ma più nel concreto anche a tutte le famiglie. Disporre di pannelli solari gli impianti produttivi ridurrebbero il costo dell’energia e la costruzione di cisterne per l’acqua piovana invece il consumo idrico. Si è iniziato da poco, ma quasi da subito si ha avuto un riscontro più che positivo. Certo è che inizialmente l’investimento è alto e non tutte le fabbriche produttive possono permetterselo né lo reputano ideale.
Marco C. – Milano

COP27 – Conferenza annuale delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici

In occasione della prossima COP27, la Conferenza annuale delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici iniziata il 7 novembre in Egitto, abbiamo raccolto i pareri di alcuni giovani che si occupano in prima persona di questi temi.
Andrea Grieco, Head of Impact di Aworld (ONU), vive a Milano; Giorgio Brizio è un esponente dei Friday for Future, autore di Non siamo tutti sulla stessa barca, attualmente in Erasmus a Instabul; Angelo Bruscino (meno giovane, ma solo di età non di spirito) è un imprenditore impegnato nella greeneconomy ma anche scrittore affermato, vive a Napoli; Sarah Maria Truzzi, si occupa di sviluppo nei paesi emergenti per l’ONG VIVA don Bosco, vive a Brussel.
In particolare abbiamo posto loro cinque domande.
1) Che cos’è la COP27?
2) Qual è il senso delle COP?
3) Quali benefici sono stati ottenuti dalle precedenti COP?
4) Le persone intorno a voi che sensibilità hanno nei confronti di questi argomenti?
5) Le singole persone che contributo possono dare?

Andrea Grieco, attraverso un post su Instagram ci fa sapere:
La @cop27 egypt è alle porte. L’Egitto è pronto, in tutti i sensi.
Sarà una #cop difficile a tratti indecifrabile quella di quest’anno. La #cop dei paradossi, organizzata in un Paese che non ammette il dissenso, in un posto lontano (nel deserto) e con misure restrittive e di controllo che castrano ogni protesta.
40.000 delegati da tutto il mondo, più di 100 capi di Stato, pochi attivisti, poche ONG e 60.000 prigionieri politici. La sostenibilità non può prescindere dai diritti umani, è innaturale! Senza democrazia e libertà di espressione non esiste la lotta alla crisi climatica.
Comunque vada questo appuntamento va seguito, come per i precedenti, va protetto il processo che in passato ha portato al Protocollo di Kyoto o all’Accordo di Parigi, ricordandosi però che i Diritti Umani non sono qualcosa che si può barattare o annullare per nessun motivo al mondo. Ricordando i 60 mila prigionieri politici che non smettono di chiedere giustizia e diritti.


Angelo Bruscino, invece ci scrive:
La Cop27 che si terrà in Egitto avrà sicuramente la funzione di rimarcare la grave crisi che ormai già manifesta i suoi effetti. L’idea di organizzare una riunione per i grandi del mondo e sensibilizzarli sul fronte del climate change è stata sicuramente la base di partenza per ottenere alcune prese di posizioni, ahimè solo di ordine declaratorio, di fronte alla recente crisi energetica infatti la maggior parte dei paesi ha fatto fronte implementando al massimo l’uso dei combustibili fossili, in primis il carbone, così nei cieli europei le concentrazioni di inquinanti non è mai stata intensa come in questo 2022.
Purtroppo l’intero modello di transizione energetica, nel mondo e in Europa in particolare, è stato pensato con l’utilizzo del gas; quando questo combustibile è venuto a mancare a causa della guerra Russia/Ucraina o è diventato estremamente costoso, per evitare blackout si è fatto ricorso all’uso delle vecchie centrali (spesso a carbone) che avevamo pianificato di dismettere, vanificando in questa maniera gli sforzi e le dichiarazioni di intenti degli ultimi anni.
C’è anche un dato positivo, nonostante tutto ed è quello che l’intera opinione pubblica ha compreso che la povertà energetica è un tema molto importante che incide profondamente sulla vita di tutti e in questo modo la sensibilità alla creazione di modelli sostenibili con l’utilizzo di energie rinnovabili come il solare e l’eolico ha avuto un’accelerazione. Basti pensare che in un solo anno l’Italia ha raggiunto la Spagna e si appresta a superarla nella produzione di elettricità da rinnovabili.
Insomma come sempre ci sono luci ed ombre, ma probabilmente non saremo in grado di rispettare i tempi stabiliti dalla transazione e peggio ancora, i tempi necessari a scongiurare il disastro ambientale.
Abbiamo confuso negli ultimi anni o mal riposto il sentimento di fiducia, ci fidiamo troppo della tecnologia e abbiamo dimenticato che sono gli uomini a sceglierla e applicarla. Non c’è scoperta tecnica e scientifica che possa salvarci senza gli uomini giusti, non ci resta che un atto di fede e sperare che la provvidenza consenta ai nostri leader di non prendere unicamente la strada lastricata di buone intenzioni, ma quella dei fatti e delle azioni concrete anche se poco popolari, liberandoci certo non dalle responsabilità ambientali che continueranno a pesare sulle nostre coscienze, ma dal gioco delle scelte populiste dai facili consensi e dai fossili della storia che per inciso non sono solo quelli energetici.


Sarah Maria Truzzi ci racconta più specificamente cosa sia una COP.
La COP27 è la 27^ Conferenza delle Parti che hanno sottoscritto la Convenzione sul Cambiamento Climatico delle Nazioni Unite. È l’occasione per definire le azioni da promuovere, a livello nazionale e internazionale, per mitigare il cambiamento climatico.
Queste conferenze servono sicuramente a sensibilizzare i governi sui vari aspetti del cambiamento climatico. Purtroppo penso siano ancora lontane dall’ottenere dei risultati sufficientemente importanti da poter rallentare la crisi climatica.
L’Accordo di Parigi, firmato in occasione della COP21 definisce un obiettivo preciso (limitare l’aumento della temperatura globale a 1.5°C). Sono però scettica sull’impatto concreto di tale accordo, poiché permette ai singoli stati di definire loro stessi i propri obiettivi nazionali che tenderanno perciò al ribasso. Inoltre, l’accordo non include obiettivi specifici sulla quantità di emissioni di gas a effetto serra da ridurre, rendendolo così poco efficace da questo punto di vista. Questo è un esempio di come le soluzioni elaborate in occasione di queste conferenze non siano sempre sufficienti a contrastare il problema che si prefiggono di risolvere.
Nonostante io frequenti ambienti abbastanza sensibili a tali tematiche, riscontro nelle persone che mi circondano una sorta di rassegnazione al futuro che ci attende, forse troppo consapevoli del fatto che le azioni dei singoli cittadini non saranno mai sufficienti se non accompagnate da radicali cambiamenti sociali, politici ed economici.
Certo sono convinta che il singolo individuo possa apportare dei cambiamenti positivi nel momento in cui si mette in rete favorendo perciò la trasformazione di comportamenti dannosi a livello ambientale. Non bisogna però dimenticare la responsabilità dei “grandi” attori politici ed economici, gli unici che, con le loro decisioni, hanno effettivamente il potere di “cambiare le cose”.


Infine, Giorgio Brizio, abbastanza esperto nel settore COP ci offre una panoramica più articolata ma anche più critica.
La COP non è un supermercato o uno sbirro (anche se di polizia e di controlli molto stringenti a questa COP27egypt ce ne saranno davvero parecchi, tanto che sarà in assoluto l’evento delle Nazioni Unite più sorvegliato di sempre con addirittura videocamere a riconoscimento facciale nei taxi); COP è l’acronimo che sta per Conference of Parties. La prima fu a Berlino nel 1995, ma già nel 92 ci fu il Summit della Terra di Rio de Janeiro.
Le conferenze, ahimè, sono a metà strada tra un evento con enorme potenziale e un circo. Si danno appuntamento capi di Stato, delegati, sherpa, ma anche persone della società civile e purtroppo anche molti lobbisti e coloro che vogliono difendere interessi delle aziende più inquinanti. Ammesso che le COP abbiano dato qualche beneficio, il più grande di questi potrebbe essere quello di riuscire a connettere tantissime persone, ma anche istituzioni e società. Una delle COP più conosciute è quella che si svolse nel ‘97 a Kyoto, da cui prende il nome l’omonimo protocollo, o la COP 2009 di Copenaghen. Importante fu anche la COP 2015 di Parigi, un grande successo del multilateralismo internazionale. Dalla COP di Parigi in poi ogni paese dovrebbe presentare il suo piano di riduzione delle missioni. Tuttavia ogni anno la quasi totalità degli Stati, tranne un piccolo gruppetto, viene rimandata a casa a fare i compiti perché gli obiettivi che questi stati provano a presentare sono fondamentalmente o inesistenti o non sufficientemente ambiziosi. Ad esempio, se dal 2015 tutti gli obiettivi dal primo all’ultimo fossero stati realizzati saremmo riusciti a limitare il riscaldamento globale entro 3,8 gradi, quando sappiamo che dobbiamo stare sotto l’aumento di un grado e mezzo. Ancora adesso l’impegno delle nazioni è insufficiente.
Qui entrano in gioco le singole persone che possono fare la cosa più bella: stare insieme, creare comunità e battersi per quello che sta a loro più a cuore. Per la questione climatica, che senza grandi dubbi possiamo dire essere l’urgenza del nostro tempo, necessariamente abbiamo bisogno che le persone si attivino e solo se saremo tanti a essere consapevoli riusciremo a incidere: cambiare il mercato con il nostro (potentissimo) potere d’acquisto e con le nostre singole azioni quotidiane. Possiamo fare una differenza che, però, deve essere è valida solo se le scelte sono condivise dalla collettività. Inoltre possiamo aumentare l’interesse presso chi governa il nostro Paese. La politica di oggi, fortemente miope, riesce a guardare fino a un orizzonte molto breve: quello del mandato. Per il clima è invece necessaria una visione a lungo periodo.
Esempi di azioni virtuose per l’ambiente sono: smettere di mangiare carne o consumarne meno, smettere di volare o volare meno, oppure cambiare banca e scegliere dove depositare i propri soldi. Unicredit San Paolo, una delle maggiori banche italiane, ogni anno investe moltissimi soldi nell’industria combustibili fossili.
Oltre il 6% di tutte le emissioni globali provenienti dal traffico aereo sono dovute all’utilizzo di jet privati, nonostante siano una piccolissima minoranza. La produzione, il trasporto e il commercio della carne sono responsabili di una grande fetta di emissioni. Eppure nel settore della carne l’Italia continua a investire moltissimo, anche negli allevamenti intensivi ed estensivi. Ci sono banche, compagnie, fondi d’investimento che continuano a considerare esclusivamente i propri interessi, a discapito non solo della situazione globale ma anche dell’ambiente. Questo è quello che accade in Mozambico, dove la patriottissima Eni (sostenuta da numerose banche tra cui Unicredit e Intesa San Paolo), sfrutta senza discriminazioni le risorse del territorio, creando dei veri e propri ecomostri. Ma azioni del genere vengono replicate dalle nostre compagnie italiane (e non solo) anche in Kenya o in Tanzania.
L’azione individuale può quindi avere un effetto solo se forte e accompagnata da una richiesta collettiva di cambio del sistema. In questo momento scendere in piazza, alzare la testa e far sentire la propria voce è imprescindibile, se realmente vogliamo contribuire ad un miglioramento della società. Non dobbiamo quindi solo restare inorriditi e di fronte a gesti estremi come l’imbrattamento delle opere d’arte, ma piuttosto cercare di capire quali sono i motivi dietro a queste azioni. La situazione è grave, e a dirlo non sono due adolescenti con una scatola di fagioli in mano, ma le più grandi menti del pianeta.
COP26 è stata principalmente un fallimento ma non possiamo non notare alcune note positive. Prima fra tutti BOGA (Beyond Oil and Gas Alliance), lanciata da Danimarca e Paesi Bassi. Ad essa, purtroppo, l’Italia ha aderito ma senza accoglierne gli obblighi, senza prendere alcun impegno. Altri paesi vi hanno aderito dichiarando obiettivi di fuoriuscita dai principali combustibili fossili.
Ogni COP si propone obiettivi diversi, ma uno è sempre il principale: capire insieme quanto è distante a livello globale la data di transizione ecologica (cioè l’abbandono dei combustibili fossili).
Alcuni dei grandi inquinatori di oggi non sono certo responsabile di tutte le grandi emissioni del passato (dovute al 93% da paesi europei e dagli Stati Uniti). Ciò che è necessario è aiutarli, attuando proposte come quella della COP di Copenaghen 2009, in cui Obama promise 1000 miliardi per sostenere i paesi più in difficoltà rispetto alla questione climatica. Per non andare a finire dritti nel baratro, bisogna agire in questo modo. Purtroppo già la sola scelta di tenere la COP27 in Egitto e la COP28 a Dubai è un pessimo segnale.
Nella nostra generazione c’è moltissima preoccupazione ma per il momento gran parte delle aspettative sono state deluse, a partire dalla scorsa COP26 di Glasgow che non è stata sicuramente all’altezza. Ci si aspetta molto anche dalla prossima COP ma difficilmente ne uscirà qualcosa di valido. Tuttavia, ci auguriamo di sbagliare le previsioni. A volte la cooperazione e il multilateralismo riescono a portare i loro frutti, come l’accordo di pace siglato pochi giorni fa in Sudafrica sul quale in pochi avrebbero scommesso.
A cura di Luigi C. – Roma

Ambasciatore del clima

Il cambiamento climatico. Tutti sappiamo, chi per sentito dire, chi per conoscenze più specifiche, cosa sia il cambiamento climatico. Tale problematica ha infatti assunto molta importanza negli ultimi anni grazie a manifestazioni su scala globale come il “Friday for Future” Tuttavia forse non tutti sono a conoscenza della gravità del fenomeno, dell’impatto che esso ha concretamente sulle nostre vite, e degli enti, associazioni e organismi internazionali che ogni giorno tentano di agire per cercare di arginare tale problematica.
Abbiamo intervistato Andrea Grieco, stratega della sostenibilità, che ci ha spiegato in cosa consiste il suo lavoro, quali sono le problematiche legate al cambiamento climatico e gli obbiettivi principali raggiunti, o ancora da raggiungere, per raggiungere un mondo e un’economia sostenibile.

andrea grieco costruttore di realtà sostenibili

-Iniziamo con le presentazioni. Chi sei, da dove vieni, come sei arrivato a svolgere questo lavoro?

-Sono Andrea Grieco. Son nato in Basilicata, ho origini Lucane. È una terra molto povera ma ricca di natura, ed è stato proprio a partire da questo contatto diretto con l’ambiente selvaggio della mia terra di origine che ho sviluppato il mio interesse per queste tematiche, insieme a quello per i diritti umani.

Ho deciso infatti di studiare giurisprudenza, specializzandomi in diritto internazionale, e mi sono formato in seguito sul tema della sostenibilità e dell’immigrazione. Facendo poi un master delle Nazioni Unite ho studiato l’agenda 2030 e gli obbiettivi per lo sviluppo sostenibile e il tema del cambiamento climatico.

Dopo aver concluso gli studi, ho creato il mio lavoro: sono uno stratega della sostenibilità, aiuto le aziende o varie realtà ad allinearsi con gli obbiettivi dello sviluppo sostenibile e ad integrare gli obbiettivi della sostenibilità nel loro business e attività.

-Hai citato l’Agenda 2030 e l’obbiettivo dello sviluppo sostenibile. Puoi spiegarci cosa si intende con questo termine?

-L’Agenda 2030 è un manifesto creato dalle Nazioni Unite nel 2015 per indirizzare il mondo verso uno sviluppo sostenibile economico e umano. È formata da 17 obbiettivi. Con 169 micro obbiettivi al loro interno che coprono tutte le dimensioni dello sviluppo umano. Si basa su cinque concetti chiave: Persone, Prosperità, Pace, Partnership, Pianeta. L’obiettivo è quello di ridurre disuguaglianze, povertà, favorire la prosperità sul lavoro, e creare partenariato per la sostenibilità.

-Quale è in questo momento il tuo obbiettivo principale?

– Credo che il goal 17, quello delle Partnership, sia fondamentale. Se non si mettono insieme conoscenze e competenze differenti non si raggiungerà mai lo sviluppo sostenibile. Un altro goal fondamentale è il numero 10, per ridurre le disuguaglianze e garantire pari diritti per tutti, e il 13 per la lotta al cambiamento climatico attraverso divulgazione e formazione.

Credi che questa tematica sia effettivamente sentita e percepita come importante all’interno della società?

– Credo ci sia molta consapevolezza. Tuttavia, non dovremmo essere più nella fase della sola consapevolezza, ma dovremmo passare allo step successivo: riuscire a creare politiche per combattere attivamente il cambiamento climatico, ma ancora non ci sono azioni concrete. L’Italia, per esempio, è molto indietro su questa tematica rispetto ad altri paesi e realtà europee.

Cosa è possibile fare concretamente, sia sul piano delle “macro” azioni, sia nella nostra sfera “micro”, nella vita di tutti i giorni?

-Dal punto di vista politico, si devono creare politiche aperte e inclusive e di collaborazione per combattere il climate change. Credo, inoltre, che ogni singolo individuo possa e debba contribuire e fare la sua parte. Ognuno può informarsi, perché solo conoscendo cosa sono i cambiamenti climatici possiamo provare ad arrestarli. È importante un’informazione che sia consapevole, che si basi su fonti attendibili, non superficiali. Possiamo attuare molte piccole accortezze nella vita quotidiana, come ridurre il consumo di carne, staccare prese di elettrodomestici per ridurre il consumo di energia, smettere di comprare fast fashion usa e getta, e scegliere capi che durino di più a lungo.

-Quale è una conquista che hai fin qui ottenuto e di cui sei particolarmente soddisfatto?

-Sicuramente aver parlato di cambiamento climatico in molte realtà che eran lontane da questo tema. Inoltre, un obbiettivo per me molto importante è poter parlare della realtà e della problematica legata ai migranti climatici e aver presentato in merito una possibile soluzione politica a livello internazionale alle Nazioni Unite. È una tematica poco conosciuta e che credo debba essere approfondita. È un fenomeno molto difficile da inquadrare, sia dal punto di vista giuridico sia causale. Le migrazioni climatiche sono dovute a motivi ambientali o legati al cambiamento climatico. I migranti climatici, tuttavia, non sono tutelati dal diritto internazionale, in quanto la Convenzione di Ginevra del 1951 afferma che hanno diritto all’asilo le persone che migrano per motivi legati a violazioni dei diritti umani o per situazioni di guerra. A oggi, una persona che scappa per motivi climatici non ha garantita protezione e accoglienza in altri paesi. Tuttavia, è un enorme problematica: secondo le stime dell’international displacement monitoring center, tra il 2019 e il 2020 sono migrate 23,9 milioni di persona per motivi legate ai cambiamenti cimatici, e tale numero è destinato ad aumentare nei prossimi anni. Credo quindi sia fondamentale affrontare questo tema, ampliare la conoscenza di tale fenomeno, che ci riguarda molto più da vicino di quanto pensiamo. Anche l’Italia, infatti, risente risentirà in misura sempre maggiore dei danni provocati dai cambiamenti climatici, e potremmo diventare noi stessi dei migranti climatici.

-Dunque quali azioni concrete potrebbero essere prese riguardo alla tematica dei migranti climatici?

-Sicuramente creare strutture di partenariato e fondi per aiutare i migranti. In questo caso il singolo non può fare altro se non chiedere protezione per queste persone. Sono i politici che dovrebbero agire con leggi e iniziative volte a tutelare questa fascia vulnerabile.

Credi quindi che ci sia un modo per evitare questo declino a cui sembra di stare inevitabilmente andando incontro?

-Purtroppo siamo molto indietro e non credo ci sia modo di arrestare il cambiamento climatico. L’unica cosa da fare ormai, credo sia adottare strategie di adattamento, per provare a proteggere le persone e il pianeta. Non abbiamo più tempo e i dati lo confermano.

Giulia C. – Firenze

Daniele e il clima di domani

Tra i giovani attivisti partecipanti della prima Cop-giovani di sempre, è stato affidato a Daniele Guadagnolo il compito di rappresentare l’Italia. Piemontese del 1993, laureato in economia alla Bicocca di Milano, è appassionato di comunicazione e particolarmente impegnato sull’emergenza climatica, dove si distingue per la capacità di coinvolgere i coetanei attraverso iniziative sempre molto concrete. Già invitato a partecipare ad eventi internazionali nel 2018 — dove ha preso parte alla United Nations Conference on Trade and Development di Ginevra — è oggi particolarmente attivo nell’ambito delle Conferenze per i giovani che periodicamente l’Onu organizza a livello sia globale che locale.

Daniele, la Cop26 ha portato i giovani al confronto diretto con i negoziati globali sul clima. Inizia così un dialogo intergenerazionale sul quale ci sono molte aspettative dell’opinione pubblica. Come farete ad essere incisivi di fronte a governanti impegnati da decenni in trattative così complesse?
Il lavoro sviluppato a livello individuale deve trasformarsi in un agire di gruppo. Dobbiamo avere una voce comune in modo da accrescere la forza delle nostre proposte. Dobbiamo politiche sul cambiamento climatico la Cop rappresenta il tavolo di lavoro più importante a livello mondiale. Non solo perché è promosso dalle Nazioni Unite e riconosciuto da tutti i Paesi, ma anche perché offre la possibilità di un confronto concreto su problemi e possibili soluzioni. A questo appuntamento siamo arrivati attraverso incontri internazionali — Conference of Youth — e nazionali — Local Conference of Youth — dedicati interamente ai giovani. Qui abbiamo sviluppato una crescita sia personale che generazionale. Credo che non ci faremo sfuggire l’occasione storica che abbiamo di sollevare le nostre istanze a Glasgow come negli anni a venire.

Dunque quali sono le sfide che i giovani lanciano ai grandi della Terra?
Innanzitutto intendiamo sostenere il tema dell’ambizione climatica, che deve crescere su scala locale, nazionale e globale; in secondo luogo lavoreremo sulla crisi economica generata dal covid e su come uscirne attraverso strategie di sviluppo sostenibile come la transazione energetica, la resilienza e le soluzioni basate sulla natura; ci è stata anche affidata una riflessione sul coinvolgimento di attori non istituzionali ponendo tra gli altri i temi dell’imprenditorialità giovanile, dello sport e dell’arte; e allo stesso tempo siamo parte attiva sui progetti volti a costruire una società più consapevole attraverso l’educazione ambientale, la sensibilizzazione e un sempre maggiore coinvolgimento sociale.
La possibilità di un confronto con i ministri delle Cop è un fattore di grande speranza. È l’occasione migliore che abbiamo per mettere in luce idee, progetti ed iniziative sviluppati da noi giovani con l’obbiettivo di impattare sulle decisioni politiche che in ogni caso ricadranno su di noi. Penso che questo evento restituisca alla storia un legame tra le generazioni che è indispensabile per produrre buone e giuste pratiche. Questa è la sfida più importante, perché solo così si potrà produrre il cambiamento necessario.

Daniele, partecipare a questi eventi dell’Onu è per te un’opportunità straordinaria. Come ti sei avvicinato a questo mondo?
È stata molto importante l’esperienza avuta a Ginevra nel 2018, quando sono stato invitato a partecipare alla United Nations Conference on Trade and Development con un gruppo di ragazzi di ogni provenienza. È stata un’occasione importante per approfondire i temi dello sviluppo sostenibile e ne sono uscito, non solo formato sull’argomento, ma anche con una grande voglia di fare qualcosa di concreto per il nostro pianeta. Tornato in Italia, insieme ad altri, abbiamo fondato la Youth Action Hubs, un movimento globale creato dai giovani per i giovani che ha avuto il supporto delle Nazioni Unite. Nello stesso anno abbiamo visto da vicino la Cop24 in Polonia, avendo modo di conoscere tanti altri ragazzi che dedicano il loro tempo alla salvaguardia dell’ambiente. Colpiti positivamente da quest’esperienza, con i miei compagni di viaggio abbiamo lavorato per portare a Firenze la Local Conference of Youth dove si è parlato degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030. Questo impegno mi ha regalato un’emozione unica. Mi sono sentito soddisfatto di ciò che stavo facendo e, considerata la partecipazione di tanti altri ragazzi, credo di aver prodotto risultati anche in termini di coinvolgimento. È a questo punto che abbiamo fatto nascere Change for Planet, un’organizzazione no-profit impegnata ad accelerare lo sviluppo sostenibile e a lavorare sull’alfabetizzazione climatica. Spero tanto che anche grazie a questo nostro piccolo impegno si arrivi, tutti insieme, ad assicurare un futuro al nostro pianeta.

da Osservatore Romano 30 settembre 2021, di LUCREZIA TUCCILLO, Progetto giovani e ambiente di Earth Day Italia

Maggio o dicembre?

È il 6 maggio o il 6 dicembre?
Come ogni mattina anche oggi mi sono alzato per spegnere quella dannata sveglia sul cellulare, che a malincuore mi costringe sempre a scendere dal letto per far placare quel rumore a dir poco insopportabile. Ho sbloccato la schermata, ho letto i messaggi arrivati nella notte, ho aperto Instagram e in prima pagina è apparsa una foto, tutta bianca, postata da roccaraso.net, una pagina che durante l’inverno informa i turisti, sciatori, riguardo la situazione degli impianti dell’Aremogna. Mi si sono sgranati gli occhi alla vista del comprensorio tutto innevato e mi son chiesto: “Ma è il 6 maggio o il 6 dicembre?”
Ebbene sì, oggi è il 6 maggio 2019 e da quando sono nato non ho mai visto una cosa simile. Ma perché succede tutto questo?
Oggi viviamo una situazione di squilibrio ambientale, la quale sta portando via le stagioni da noi considerate di passaggio, quelle forse più belle e amate da tanti poeti: l’autunno e la primavera. Tutto ciò è causato da una cosa più importante di tutte le altre, ovvero l’impronta sconfinata che l’uomo ha impresso su questo meraviglioso pianeta. Non ce ne rendiamo più conto ormai, ma quella di oggi è forse la segnalazione più esplicita che la terra ci sta dando; ci sta invitando a cambiare rotta: a ridurre gli sprechi, a inquinare il meno possibile e a rispettare la natura. Non ci vuole tanto, basta solo un po’ di buon senso e di civiltà, che tanto manca a queste basse latitudini, per non condurci a disastri ambientali che coinvolgono spesso la vita di noi cittadini stessi. Come se a volte, la natura inconsciamente volesse punirci per vendicarsi dal male che le facciamo.
Poche settimane fa era Pasqua ed il giorno di Pasquetta proprio nella mia città, Napoli si è assistito a scene di inciviltà inaudite: ai piedi del vulcano Vesuvio proprio nel giorno di Pasquetta decine e decine di gitanti, criminali, si sono addentrati nel Parco Nazionale e hanno lasciato il deliro: tavoli rovesciati, sedie distrutte, barbecue, addirittura hanno abbandonato un motorino. Insomma, una discarica a cielo aperto, e nessuno fa niente… Magari andranno gli enti a pulire, ma il prossimo anno si ripresenterà lo stesso problema, perché è troppo facile lamentarci dei governanti che non fanno il proprio dovere. Ma noi cittadini non siamo da meno: se la carta non la butti per terra, ma nel cestino non ci sarà bisogno dello spazzino che te le raccoglie. E qui il punto cruciale; è l’essere umano di qualsiasi etnia che deve accorgersi e comprendere fin in fondo che per il bene di tutti bisogna rispettare l’ambiente, il nostro mondo.
Le chiavi della svolta sono in mano a noi giovani che ci stiamo impegnando, chi più chi meno, per affrontare questo grande problema che tocca tutti noi. In Svezia per esempio una bambina di nome Greta ha dato inizio a un ciclo di manifestazioni del venerdì, proprio per sensibilizzare il mondo e i potenti di questo pianeta, a favore di un’economia “green”, pulita.
Nel mio piccolo ho sempre cercato di essere un buon cittadino. Da anni vado in bicicletta e ho attraversato paesi, città, ma soprattutto montagne; le salite quelle mitiche per il ciclismo. La bici mi fa vivere con i miei occhi lo spettacolo della natura; lontano dalle industrie e dai centri urbani, disperso tra le montagne, ho ritrovato me stesso, la mia essenza di uomo. Ho visto dal vivo ambienti che tutti possono vedere su National Geographic, ma ho provato emozioni che non riesco neanche a spiegare. In salita sentivo il cuore battermi nelle orecchie, e le gambe bruciare, ma la voglia di arrivare in cima per godermi il panorama, mi ha spinto sempre più in alto.
E ora il mio appello a voi lettori.
Siate rispettosi di ciò che la natura vi ha donato, per permettere ai nostri figli, nipoti e 10, 100 generazioni future di vivere a in un mondo bello come è ancor oggi. E un ultimo consiglio: dimenticate qualche volta, la macchina, il bus e la moto ma salite su quel giocattolo con due ruote e due pedali; non ve ne pentirete!

Vincenzo Primavera, Napoli

Nativi digitali e salvezza del pianeta

Clima. Il bello dei «nativi digitali» che vogliono salvare il pianeta
Adriano Fabris, docente di Etica della Comunicazione all’UniPisa
Avvenire, sabato 20 aprile 2019

Sono sempre di più in Italia, in Europa e nel mondo i ragazzi che manifestano per ricordare ai governanti dei rispettivi Paesi, ma anche a tutti noi, che non c’è più molto tempo se vogliamo intervenire davvero sui cambiamenti climatici, invertendone la tendenza. Bisogna fare qualcosa – dicono – e velocemente. Bisogna agire subito, se si vuol lasciare alle future generazioni un ambiente che possa essere abitato allo stesso modo in cui lo stiamo abitando noi. È anche questa una questione di giustizia: di giustizia intergenerazionale. Questi ragazzi sono parte in causa e perciò sono legittimati a intervenire. Ma non possono farsi carico d’interventi efficaci perché non sono loro a poter prendere le decisioni di fondo. Davanti a tali questioni si sentono spesso impotenti. Per questo si fanno sentire. Per questo si rivolgono a noi adulti.
Ma chi sono i ragazzi che manifestano il venerdì? Dobbiamo stare attenti a non riportare le loro azioni agli schemi e alle categorie che siamo abituati ad applicare. Sappiamo bene che è stata Greta Thunberg a ispirare il Global Strike for Future, a rilanciare il tema dell’emergenza ambientale con la sua determinazione e cocciutaggine. Ma a ben vedere non è necessario individuare a tutti i costi un leader, un personaggio da seguire – o da insultare – per far contenti i media, per metterlo sugli altari e poi, subito dopo, trascinarlo nella polvere. È inutile, ad esempio, cercare la “Greta milanese”. I ragazzi non hanno un leader perché non ne hanno bisogno. È la rete a fare da collegamento, non una persona. È un tema condiviso ciò che spinge a partecipare, non una parola d’ordine ripetuta e accolta passivamente. Basta guardare i cartelli portati alle manifestazioni, ironici e pungenti. C’è infatti un altro senso di democrazia che qui s’annuncia: una democrazia che diffida di ogni organizzazione gerarchica, di ogni pretesa d’autorità. Il leaderismo e il populismo, ormai, riguardano solo i vecchi.
Bisogna poi evitare di considerare questi ragazzi come un tutto omogeneo. Non lo sono. Nelle strade si trovano ragazze e ragazzi, con le loro sensibilità diverse e le loro differenti fragilità. Adolescenti e persone un poco più grandi. Vi è chi – ed è la maggioranza – manifesta pacificamente. Vi è qualcun altro che vuole solo saltare la scuola, o fare confusione. Non c’è da stupirsi: accade in tutte le buone famiglie. In realtà, però, questi ragazzi noi non li conosciamo per davvero. Sono, o potrebbero essere, i nostri figli, i nostri nipoti, ma non li conosciamo. Non c’è da allarmarsi, però. È sempre accaduto così. È accaduto anche quando noi avevamo la loro età. Facevamo gruppo con i nostri coetanei, eravamo impermeabili agli occhi dei nostri genitori. Questo era ciò che preoccupava questi ultimi allora; questo è ciò che allarma noi oggi.
Ma in realtà, per capire chi sono i ragazzi scesi in piazza, alcuni indizi già li abbiamo. Sono una generazione abituata a interagire con il mondo e a relazionarsi fra loro e con noi soprattutto attraverso alcuni dispositivi di comunicazione. Non si tratta di “nativi” o di “nati” digitali, comunque vogliamo tradurre la fortunata espressione coniata da Mark Prensky. Essa infatti sembra far riferimento a un’ulteriore attitudine che i nostri ragazzi hanno sviluppato rispetto a noi, esseri vissuti in un’epoca soprattutto televisiva. Questa capacità, tuttavia, è spesso sopravvalutata. Fra i “nativi digitali” vi è certamente chi vive con lo smartphone sempre acceso, e da esso dipende, ma poi non sa gestire un programma Word o non conosce come funziona il sistema tutor nelle autostrade.
In parte, però, chi sono questi ragazzi già lo sappiamo. Siamo noi, infatti, ad averli educati, e non sempre nella maniera più saggia. Li abbiamo protetti, coccolati. Ci siamo posti al loro servizio permanentemente, dando l’idea che il mondo fosse fatto solo per loro. Abbiamo scelto di fare pochi figli per poterli seguire in tutto e per tutto. Li abbiamo posti al centro dell’attenzione. E, così facendo, ci siamo messi nelle condizioni di non poter insegnare loro nulla, o nulla che fosse per loro accettabile. Abbiamo confuso l’autorità cieca, a cui bisogna soltanto ubbidire e che giustamente andava superata, con quell’autorevolezza che, sola, permette di trasmettere valori credibili: e le abbiamo abolite entrambe.
In una parola, i nostri ragazzi li abbiamo in molti casi lasciati a loro stessi. E mentre per noi la baby sitter è stata la televisione, per loro sono stati l’iPad e lo smartphone. Che, per di più, non abbiamo insegnato loro a usare correttamente, così come a noi nessuno ha insegnato a decodificare le immagini trasmesse sullo schermo. Così altri valori sono stati recepiti: quelli veicolati dalle piattaforme. Le piattaforme, lo dice la parola stessa, tutto appiattiscono, tutto mettono sullo stesso piano, tutto rendono omologato. Ci si può rivolgere con il “tu” a tutti, si può manifestare sempre e comunque la propria opinione, non importa che competenza uno abbia su un determinato argomento, semplicemente perché si possiede l’accesso a una rete sociale.
Nel contempo, poi, un’altra etica si è ormai imposta nella mentalità comune: quella per cui qualche cosa vale di più quanto più è condivisa. E poi, in questo contesto, nulla in realtà è propriamente mio. Ogni cosa che è accessibile in rete possiamo farla nostra, possiamo scaricarla, possiamo copiarla. Ciò non fa problema, nella misura in cui noi stessi, senza problemi e senza paure, condividiamo le nostre immagini, i nostri dati, la nostra vita anche con chi se ne vuole solamente appropriare. Nella rete, infatti, tutto è pubblico.
Insieme, però, l’uso delle tecnologie della comunicazione ha creato nuove forme di socialità, nuovi legami. E ciò è davvero la novità del nostro tempo. Non solo ha potenziato i legami già presenti, non solo, in molti casi, ha sostituito vecchi modelli di relazione con nuovi collegamenti. Soprattutto ha fatto sì che si potessero vivere tutti insieme nuove emozioni e nuovi problemi. I nostri ragazzi lo stanno appunto facendo. Rendendosi conto, anche se noi non glielo diciamo, che questo nuovo mondo virtuale ha delle conseguenze sulla realtà di tutti i giorni, e che la realtà è qualcosa di duro, qualcosa che ha le sue leggi e con cui prima o poi bisogna fare i conti. Come accade nel caso dei mutamenti climatici.
È una situazione fatta di luci e di ombre, certo, come tutte le situazioni che caratterizzano l’essere umano. Per questo essa ci pone di fronte a scelte ben precise. I nostri ragazzi se ne sono accorti. E cominciano ad applicare ciò che caratterizza nel profondo la loro vita – l’uso cioè di strumenti che li immettono in sempre nuovi ambienti digitali – al futuro che li attende. Cominciano cioè a rendersi conto che un futuro lo devono avere. Che non basta il tempo reale, rassicurante, che viene offerto dalle tecnologie. Grazie a esse, infatti, è pure possibile fissare un momento speciale in una foto che posso postare su Instagram e condividere con i miei amici. Ma per me e per i miei amici, se vogliamo davvero ancora avere la possibilità di ricordare quest’immagine, un futuro alla fine ci deve essere.
Ce lo ricorda anche Google. Ogni tanto, infatti, sul nostro smartphone ci viene riproposta oggi la foto scattata nello stesso giorno di un anno o due fa. Ma – riflettiamoci – affinché la foto scattata oggi possa essere da noi goduta tra un anno o due, dovremo quanto meno trovarci nelle stesse condizioni in cui siamo oggi. Questo i nostri ragazzi lo hanno capito meglio di noi, e certamente meglio dei nostri governanti. Se ciò non avverrà la tecnologia, invece di essere strumento d’intrattenimento e di condivisione, finirà per trasformarsi solo in un’occasione di rimpianto.

Una zuppa di plastica

BRUXELLES, 16. Nel Mediterraneo occidentale c’è una vera e propria “zuppa di plastica”, con concentrazioni tra le più alte nel mondo. È quanto si legge in una stima della presenza di microplastica galleggiante in mare aperto pubblicata dall’istituto di scienze marine del consiglio nazionale delle ricerche di Lerici (IsmarCnr), in collaborazione con l’Algalita Foundation (California). «Per la prima volta — si legge nel documento — sono stati individuati i polimeri che costituiscono la microplastica galleggiante in mare e la loro distribuzione».
Ogni anno, nel mondo, vengono prodotti circa 300 milioni di tonnellate di plastica e si stima che fino a 12 milioni di tonnellate finiscano in mare. La microplastica è costituita da quei frammenti di plastica più piccoli di due millimetri che, per quanto non visibili a occhio nudo, sono stati trovati a galleggiare pressoché ovunque nel Mediterraneo, una “presenza” tra le più alte al mondo. Ad esempio, nel vortice subtropicale del Pacifico settentrionale alcuni anni fa sono stati stimati circa 335.000 frammenti di plastica per chilometro quadrato, mentre nel Mediterraneo si parla di una media di circa 1,25 milioni.
Allarme anche nell’Artico, dove quest’anno temperature senza precedenti hanno contribuito a un ritardo record nella formazione autunnale di ghiaccio marino, causando un ampio scioglimento nella Groenlandia. È quanto emerge dal rapporto dell’Arctic Program della Noaa, l’agenzia statunitense per la meteorologia. Stando allo studio, che mette insieme il lavoro di 61 scienziati in 11 paesi, la temperatura dell’aria sopra la terraferma è stata la più alta mai registrata, con una media annuale di 3,5 gradi centigradi in più rispetto agli inizi del XX secolo. Il termometro ha segnato 2 gradi in più rispetto alla media del periodo 1981-2010, con punte di 8 gradi in più a gennaio.

(L’Osservatore Romano – 16 dicembre 2016 / ANSA 15 dicembre)

Sul clima fase cruciale

RABAT, 16. Entra nella fase cruciale la ventiduesima conferenza delle Nazioni Unite sul clima (Cop22) a Marrakech, in Marocco. Dopo oltre una settimana di negoziati a livello tecnico, oggi è in programma la prima sessione di lavoro tra i rappresentanti delle parti firmatarie dell’accordo di Parigi.

In apertura dei lavori, Muhammad VI, ha esortato i delegati a «tradurre i loro impegni in azioni», aggiungendo che «la posta in gioco è l’esistenza dell’uomo». È quindi «nostro dovere comune — ha concluso il re del Marocco — lavorare mano nella mano per proteggere l’umanità».

Nel suo intervento, il segretario generale dell’O nu ha assicurato che «il cammino intrapreso non si può più fermare». L’accordo di Parigi — ricordano gli analisti — ha il più alto

numero di sottoscrizioni di ogni trattato sul tema, con 109 firme.

La Cop22 è cominciata il 7 novembre scorso, ma fino a ieri ha visto solo il lavoro preparatorio degli sherpa dei paesi firmatari. Al vertice di oggi partecipano invece capi di stato e di governo e ministri dell’ambiente. Obiettivo della riunione è quello di definire le misure per attuare gli obiettivi dell’accordo di Parigi sul clima (mantenere il riscaldamento globale entro i due gradi dai livelli pre-industriali, se possibile entro un grado e mezzo).

Nella capitale francese, ogni paese aveva portato i suoi obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra, i cosiddetti National determined contributions (Ndc). Scopo della riunione di oggi è valutare se questi Ndc siano adeguati per raggiungere i risultati globali richiesti e, se necessario, aggiornarli o rafforzarli. Per l’agenzia dell’O nu sull’ambiente, l’Unep, gli impegni presi a Parigi «non sono sufficienti e devono essere rafforzati».

Il primo importante banco di prova della compattezza politica di tutti i paesi che hanno sottoscritto l’accordo di Parigi sarà la conferma degli impegni finanziari a sostegno dei paesi più poveri nella loro azione di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici. A Marrakech sarà pertanto cruciale — dicono gli osservatori — rendere operativo il piano di aiuti ai paesi più poveri di 100 miliardi di dollari l’anno entro il 2020, in modo che le comunità più vulnerabili possano mettere da subito in campo misure ambiziose di adattamento ai mutamenti climatici.

Segnali positivi sono venuti lo scorso 17 ottobre dall’incontro dei paesi donatori, dove è stata adottata la nuova road map fino al 2020. Con gli ultimi impegni è stata raggiunta la cifra di 93 miliardi di dollari che possono mobilitare aiuti sino a 133 miliardi, se i fondi pubblici stanziati riescono ad attivare ulteriori finanziamenti privati. Nell’ambito della Cop22, si tiene oggi anche un importante vertice sul clima dei paesi africani.

(L’Osservatore Romano – 16 novembre 2016)

Pellegrini per il clima

cop21-label_reduit_transparentPARIGI, 2015 novembre 28.

Si sono dati appuntamento ieri sera nella chiesa di Saint-Merry i trecento “pellegrini climatici” giunti a Parigi dopo aver percorso le strade di mezzo mondo. Alcuni hanno fatto migliaia di chilometri a piedi o in bicicletta, altri solo qualche tappa in automobile o in treno, ma l’importante era arrivare in tempo per la ventunesima Conferenza delle parti (Cop21) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, in programma dal 30 novembre all’11 dicembre nella capitale francese. Ci sono gruppi provenienti dall’Italia, dalla Germania, da Scozia e Inghilterra, da Paesi Bassi e Scandinavia, dalle Filippine, dal Perú, dal Kenya. Fra essi c’è anche la delegazione della Federazione organismi cristiani di servizio internazionale volontario (Focsiv), partita da piazza San Pietro con il motto «Una terra. Una famiglia umana. In cammino verso Parigi».

Oggi a Saint-Denis — riferisce il Sir — insieme ai leader di diverse religioni i “marciatori per il clima” (come sono stati anche chiamati) consegneranno una petizione a rappresentanti dell’Onu e del Governo francese.

Ad accoglierli, ieri, a nome delle Chiese cristiane di Francia, Elena Lasida, docente all’Institut catholique de Paris e chargée de mission presso la Conferenza episcopale francese: «Siete venuti pellegrini climatici a Parigi per dire ai grandi della terra che l’umanità deve fare il possibile per salvare la terra. Noi vi accogliamo e uniamo la nostra voce alla vostra. Arrivate nel giorno in cui la Francia rende omaggio alle vittime degli attentati del 13 novembre. La vostra presenza qui è il segno della solidarietà con chi ha scelto la vita contro le forze della morte e della distruzione». Erano presenti all’incontro il vescovo di Le Havre, Jean-Luc Brunin, presidente del Consiglio famiglia e società, il vescovo di Troyes, Marc Stenger, presidente di Pax Christi France, e François Clavairoly, presidente della Federazione protestante di Francia. Al termine della cerimonia, si è pregato per le gravi conseguenze dei cambiamenti climatici e per le vittime del terrorismo in Mali e in Tunisia, a Beirut e a Parigi. I diversi rappresentanti dei gruppi hanno poi portato al centro della chiesa delle candele accese e si è data lettura del Cantico delle creature di san Francesco d’Assisi.

«L’incontro organizzato questa sera è per accogliere qui a Parigi i pellegrini provenienti da tutto il mondo. È la parabola dell’umanità in cammino che vuole prendere in mano il futuro», ha detto monsignor Brunin, sottolineando che «la loro presenza vuole essere un segno forte per chi sarà impegnato in questi giorni nelle negoziazioni per la Cop21, per dire loro che c’è un popolo che si è messo in marcia ed è preoccupato per l’avvenire del clima». Si spera che le negoziazioni facciano emergere l’impegno degli Stati per una reale inversione di tendenza. Il vescovo francese ha poi ricordato che da Nairobi «Papa Francesco ha lanciato un appello per dire che bisogna prendere con urgenza delle decisioni perché sono le popolazioni più povere a essere le prime vittime del cambiamento climatico. Una situazione — ha continuato il presule — di cui sono responsabili i Paesi ad alto sviluppo e inquinamento. C’è dunque un’ingiustizia sulla terra. È per questo che i pellegrini che sono qui chiamano alla giustizia climatica. È urgente che i leader politici ascoltino la loro voce e prendano decisioni vincolanti prima che sia troppo tardi».

In vista della riunione di Parigi la Commissione degli episcopati della Comunità europea (Comece) ha pubblicato un rapporto sulla protezione del clima, redatto da cinque esperti. Alla vigilia della Cop15 di Copenaghen, nel 2009, «tutti speravano in un accordo vincolante, che sostituisse il Protocollo di Kyoto», ma «quella speranza non si è concretizzata» e «poco o di fatto nulla è cambiato da allora», si legge nel dossier. Oggi però c’è una «speranza prudente» per il possibile raggiungimento di un «accordo vincolante che permetta di limitare l’aumento delle temperature medie mondiali a un massimo di 2 gradi rispetto al periodo pre-industriale». L’ostacolo più grande è «l’enorme divario tra Paesi ricchi e poveri e il ruolo particolare delle nazioni emergenti», elementi che richiedono l’adozione di misure specifiche. Riprendendo l’enciclica di Papa Francesco Laudato si, la Comece rilancia l’appello per una «conversione individuale» e una «conversione strutturale, a livello politico, economico e sociale».

Da domani, domenica, si pregherà per il clima in molte chiese nel mondo. Anche in Argentina, dove la Commissione giustizia e pace dell’episcopato ha invitato i fedeli a speciali momenti di raccoglimento durante la messa.

(Osservatore Romano)