Un campanile in tasca

C’è un fatto su cui molti fedeli e giovani fedeli non riflettono abbastanza: la fortuna di avere avuto un sacerdote che ha animato il proprio oratorio, la propria scuola o il proprio gruppo, non sarà la stessa fortuna dei loro figli e di molti giovani di oggi.
Questo accade perché è calato il numero dei sacerdoti e non pare possa aumentare in futuro.
Sono diverse le cause di questa crisi, ma c’è un’attenzione che si può fare nostra, che deve sollecitare i nostri giovani: pregare per le vocazioni.
Infatti, c’è un comando particolare, uno dei pochi comandi diretti che Gesù chiede: «pregate il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe», perché la messe è molta ma gli operai sono pochi.
Alcuni giovani sollecitati da questa proposta hanno risposto che prima bisogna pensare alla propria vocazione umana, certo è vero. Ma è necessario pensare alla propria vocazione battesimale tenendo alto lo sguardo verso il comando del Signore, perché un gregge senza pastore è un gregge che si disperde.
Le strategie vocazionali sono anche altre e di diverso tipo, ma recuperare la preghiera credo sia la prima e più efficiente scelta. Questa e non altre particolari attività chiede Gesù.
Nei tempi correnti in cui tanti, forse tutti i nostri giovani corrono per non restare schiacciati dalla vita, una proposta di preghiera può essere rivoluzionaria e risolutiva.
Sulla nostra tradizione zaccariana la preghiera deve essere breve ed essenziale perché la mente spesso si deve elevare a Dio, quindi bastano poche parole incisive, capaci di far capire il perché, e un segno affinché la preghiera non sia campata per aria.
Il segno non può che essere la Croce e il ricordo del venerdì alle 15.00 quando la nostra tradizione faceva risuonare 33 colpi di campana a memoria della morte di Gesù. E perché non fare degli smartphone i nuovi campanili? Perché non far suonare il proprio smartphone campanile ogni venerdì alle 15.00?
È guardando alla Croce che possiamo rispondere al comando di Gesù, chiedendo che essa possa irrigare i cuori di tanti giovani con il dono della vocazione.
Questa la sfida che noi Barnabiti dobbiamo chiedere ai nostri giovani.
Sono molti i giovani che dal Chile, alla Nigeria a Honk Kong stanno rischiando la propria vita per la verità e la giustizia.
Riusciremo a sollecitare i nostri giovani a “protestare con Dio” per ottenere ciò che lui ci chiede? Riusciremo a creare una catena di giovani nel nostro mondo barnabitico alle 3 del venerdì?
Se non abbiamo paura di osare, sono certo che sì, ce la faremo!
Alcuni di loro sono già pronti! E noi?

L’onda, il film: alcune riflessioni

Il film “L’onda” risale al 2008, è diretto da Dennis Gansel, tratto dal tratto dall’omonimo romanzo di Todd Strasser, a sua volta basato sull’esperimento sociale chiamato La terza Onda (The Third Wave), avvenuto nel 1967 in California. Sulla base di questo esperimento, Todd Strasser scrisse il romanzo Die Welle (L’onda), che in Germania è diventato un classico della lettura scolastica.
È dunque ambientato in Germania, in una scuola superiore, durante una settimana ‘a tema’, in cui ogni docente è chiamato a trattare un argomento monografico con gli studenti.
Al professore Rainer Wenger viene assegnato il tema dell’autocrazia, anche se avrebbe voluto trattare dell’anarchia perché più vicina a ciò che sostiene personalmente. Inizialmente parecchi ragazzi si trovano di fronte ad una lezione noiosa, che non rispecchia i loro ideali, e subito alla domanda del professore: “sarebbe possibile ristabilire una dittatura in Germania” tutti gli alunni negano fermamente, soprattutto perché il passato del loro paese è ben noto a tutti e di conseguenza anche solo il pensiero sembra molto lontano.
Il professore allora comincia a dare loro degli ordini molto semplici, come alzarsi in piedi per parlare e scandire le parole, ma con un’intonazione brusca e dura. La maggioranza dei ragazzi obbedisce e non comprende il significato più profondo di un’azione così piccola. Col trascorrere della settimana il professore ordina ai ragazzi di vestire con una camicia bianca, di inventare un saluto e un logo, però tutto in ambito scolastico. I ragazzi che hanno comprato le camicie bianche, di loro spontanea volontà, cominciano a escludere chi si rifiuta di metterla e chi non pratica le azioni che vengono assegnate dal professore. Nella classe dopo pochi giorni si è creata un’unità e un’uguaglianza mai vista prima! I ragazzi più deboli all’interno dell’onda diventano tali e quali agli altri, se non più protetti e più protettivi nei confronti del gruppo, mentre chi era più forte caratterialmente al di fuori dell’onda, dentro questa comincia a proteggere i compagni e cercare un’unità, una famiglia.
Nonostante la formazione di un gruppo ben consolidato sembri un sogno agli occhi di molti studenti, due ragazze si opporranno. La prima, che inizialmente cercava l’unità come gli altri, si ribella dopo aver visto il fidanzato e i fratelli cambiati. Il fidanzato infatti diventa più aggressivo e meno rispettoso dato che la ragazza non vuole fare parte di una ‘famiglia’ come l’onda, mentre i fratelli più piccoli sviluppano comportamenti ancor più rozzi e aggressivi di quanto già avessero; praticano atti di bullismo su ragazzini più piccoli e non li fanno entrare a scuole se non sanno l’esistenza del saluto dell’onda. La ragazza si rende conto dei problemi che questa unità così esclusiva sta creando e assieme a un’amica, contraria al progetto fin da subito, decide di fermare lo scempio pieno di aggressività ed esclusività che si sta creando. Le due cominciano a spargere volantini per fare una sorta di propaganda contro l’onda mostrandone i lati negativi, ma l’onda ormai è troppo potente e nessuno, se non il professore, potrà fermarla.
La ragazza in seguito a diverse azioni dell’onda, come il vandalismo in città e il bullismo, parla con il professore per mettere in evidenza i problemi principali che ha riscontrato e che stanno danneggiando gli studenti, ma solo dopo che anche il fidanzato di quest’ultima, in seguito al suo comportamento aggressivo, si ricrede sull’onda e ne parla con il creatore vero e proprio, egli si deciderà a mettere un punto alla faccenda.
Il professore aveva visto anche con i suoi occhi diversi comportamenti da parte di uno studente molto convinto, che lo avevano lasciato esterrefatto, come il desiderio di costui di proteggerlo a tutti i costi e quindi di seguirlo, ma aveva deciso di ignorarli.
La storia si conclude con una riunione del gruppo, che si rende conto, solo dopo le parole del professore, che oramai tutti acclamano come una figura quasi divina, che la scuola è ricaduta in una dittatura. Proprio il contrario di ciò che gli studenti stessi avevano affermato solo una settimana prima.
Purtroppo il film vede come conclusione il suicidio del ragazzo particolarmente accecato dallo spirito del gruppo durante l’assemblea, incapace di accettare che tutto ciò che avevano costruito sarebbe finito in un istante. Il ragazzo, possessore di una pistola, colpirà un altro studente, che fortunatamente riesce a sopravvivere, ma il professore verrà portato in carcere per istigazione all’omicidio e al suicidio, lasciando sola a casa sua moglie incinta.

Riflettiamo
Il film cerca di far riflettere il pubblico sull’importanza dell’individualismo e soprattutto sui risultati che può portare una cattiva influenza, o anche solo un concetto espresso a dei giovani ma con azioni ed espressioni fraintendibili.
Nella maggior parte delle famiglie dei ragazzi protagonisti, gli adulti sono rappresentati in malo modo e poco presenti. I ragazzi con una carente unità familiare alle spalle tendono quindi a cercare un gruppo primario in un altro contesto, in questo caso la scuola. Essi sono alla ricerca continua di approvazione, di uguaglianza e hanno bisogno di sentirsi parte integrante di un gruppo su cui poter contare, vista la mancanza di attenzione dei genitori. Approfondendo la storia di alcuni studenti infatti si nota come i genitori di alcuni abbiano degli ideali diversi dai figli, ma comunque cerchino di trasmetterglieli non curanti dell’identità del ragazzo, oppure ancora come una madre possa divertirsi con i compagni di squadra di suo figlio, o come all’interno delle famiglie ci sia poca fiducia e diversi tradimenti dei genitori.
La ragazza che inizialmente ha aderito al progetto dell’onda viveva con una famiglia dai valori come la libertà e la poca disciplina, con due fratelli che già a 12 e 13 anni erano rozzi, bulli e poco educati. La ragazza smetterà di frequentare il gruppo che si era creato e inizia a selezionare le persone; chi la apprezzava nella sua individualità e chi invece la disprezzava solamente perché non facente parte della nuova ‘dittatura’.
È apprezzabile come, per l’amore dei suoi fratelli e amici, ha cercato di parlare con il professore e distribuire volantini per interrompere lo tsunami di aggressività e esclusività che si era creato.
Un ulteriore personaggio interessante è lo studente che aveva dedicato anima e corpo al progetto, fino a entrare in un tunnel senza via d’uscita.
Fin da subito egli ha dimostrato un forte bisogno di appartenenza causato dalla solitudine che lo aveva caratterizzato fin da piccolo, facendolo considerare uno ‘sfigato’. All’interno dell’onda ha visto le sue debolezze volatilizzarsi e si è sentito utile per il sociale e importante, pur essendo semplicemente trattato come una persona al pari delle altre presenti. I genitori del ragazzo anche in questo caso non hanno dato segni di preoccupazione, anzi, hanno riferito alla scuola quanto loro figlio fosse entusiasta dell’idea del professore. Senza accorgersi che stava sostituendo la loro figura genitoriale.
Il professore invece è una figura che non viene descritta in pieno, è un uomo innamorato del suo mestiere e del contatto con i giovani, ma a quanto pare bisognoso di attenzioni e di potere dal suo superiore (preside). All’inizio viene messo in evidenza come egli venga surclassato da un altro professore che si appropria dell’argomento da lui prediletto ed essendo così costretto a fare lezione su un altro tema. A casa però la sua situazione sembrerebbe normale e felice, considerando il fatto che egli alloggia in una graziosa casa sul lago, con una moglie che lo ama e un figlio in arrivo.
Tutto ciò lascia lo spettatore con una domanda: il professore ha strumentalizzato gli alunni per puro piacere personale, facendo sì che essi lo idolatrassero (come in una dittatura) e per sentirsi realizzato sul piano lavorativo, oppure la sua idea iniziale non prevedeva l’influenzare così malamente i giovani?

Caterina Ferioli, 3 LES S. Luigi, PP. Barnabiti – Bologna

Il tesoro che è in te

Giovani lavoratori e universitari che investono parte delle loro vacanze per correre dietro a una ciurma di calamai(così si dice bambini in Albania) con i quali scrivere e disegnare 10 giorni di serenità, allegria e opportunità per crescere sono una realtà anche questa estate 2019.
Giocare e far giocare aiuta a crescere i piccoli come i grandi al di là di ogni appartenenza sociale, linguistica, culturale o religiosa. Aiuta a trovare “il tesoro che è in te” come recita lo slogan di questa estate.
Forse è una non notizia? Non per quella parte di mondo che crede nel bene. 10 giovani italiani insieme a 15/20 adolescenti albanesi che volontariamente tra una incomprensione linguistica e la scoperta di affinità e differenze culturali non perdono la voglia di costruire un percorso di crescita tanto piccolo quanto importante come il seme della senape!
Il lavoro dei volontari del kampiveror2019, di questi giovani zaccariani è proprio il lavoro di quel piccolo seme di senape che invisibilmente e silenziosamente produce una grande pianta capace di offrire ombra, riparo dal sole e dalla calura.
Un’ombra che sono valori di dedizione, responsabilità, condivisione, pazienza, professionalità, creatività, amicizia e fraternità. Il kampiveror2019 è anche questo insieme di valori vissuti e offerti per aiutare una frazione di questa piccola nazione albanese a crescere con maggiore dignità e consapevolezza di sé.
Poter collaborare oggi con animatori albanesi che erano i bambini di qualche anno fa è una grande soddisfazione non per inorgoglirsi, quanto per rallegrarsi che la voglia di fare gratuitamente gli uni per gli altri e tutti per i più piccoli è una carta vincente in un mondo spesso troppo utilitaristico.
L’università e il lavoro sono ambiti necessari e ineludibili per ognuno di noi, ma se illuminati da questi giorni, acquistano valore migliore e immenso. Sottrarre 15 giorni a spiagge o luoghi turistici non è una perdita ma un investimento e chi ha vissuto queste opportunità non solo lo ricorda, ma lo sa bene e ne gode ancora i frutti dopo anni.
L’Albania è un paese in crescita, tra molte contraddizioni e ancora più speranze seppure costellate dalla fatica della maturazione. Dare a dei fanciulli dei momenti di gioia, delle regole per giocare bene e meglio insieme, vedere le loro mamme uscire dalle case e radunarsi insieme per parlare tra loro e aiutarci a costruire il tempo dei loro figli è il frutto più importante dopo 15 estate trascorse a Milot.
Qualche giorno fa il viceministro degli esteri, ricevendoci a Tirana ci invitava a costruire con perseveranza il futuro di questo paese specialmente di fronte a ciò che sembrerebbe non funzionare o cambiare.
I kampiveror sono questa perseverante azione educativa propria dei padri Barnabiti che viene tramandata anche dai giovani con cui essi lavorano.
Vogliamo giovani vivi, scrive papa Francesco nella sua lettera ai giovani Christus vivit: a Milot il kampiveror2019 è proprio il campo di giovani vivi per un mondo vivo; il campo di giovani che non solo si chiedono chi sono, ma anche per chi sono. Giovani per il futuro di questo paese e delle proprie vite.
Faleminderit ragazzi di Milot, suore Angeliche di Milot, padri Barnabiti di Milot, viceministro degli esteri Sokol Dedja, consiglieri del ministero Besian Zogaj e Irida Laçi.

Faleminderit (grazie) giovanizaccariani 2019, faleminderit kalamajsh!

    Giannicola M. Simone
    Ufficio Pastorale Giovanile PP. Barnabiti

Nativi digitali e salvezza del pianeta

Clima. Il bello dei «nativi digitali» che vogliono salvare il pianeta
Adriano Fabris, docente di Etica della Comunicazione all’UniPisa
Avvenire, sabato 20 aprile 2019

Sono sempre di più in Italia, in Europa e nel mondo i ragazzi che manifestano per ricordare ai governanti dei rispettivi Paesi, ma anche a tutti noi, che non c’è più molto tempo se vogliamo intervenire davvero sui cambiamenti climatici, invertendone la tendenza. Bisogna fare qualcosa – dicono – e velocemente. Bisogna agire subito, se si vuol lasciare alle future generazioni un ambiente che possa essere abitato allo stesso modo in cui lo stiamo abitando noi. È anche questa una questione di giustizia: di giustizia intergenerazionale. Questi ragazzi sono parte in causa e perciò sono legittimati a intervenire. Ma non possono farsi carico d’interventi efficaci perché non sono loro a poter prendere le decisioni di fondo. Davanti a tali questioni si sentono spesso impotenti. Per questo si fanno sentire. Per questo si rivolgono a noi adulti.
Ma chi sono i ragazzi che manifestano il venerdì? Dobbiamo stare attenti a non riportare le loro azioni agli schemi e alle categorie che siamo abituati ad applicare. Sappiamo bene che è stata Greta Thunberg a ispirare il Global Strike for Future, a rilanciare il tema dell’emergenza ambientale con la sua determinazione e cocciutaggine. Ma a ben vedere non è necessario individuare a tutti i costi un leader, un personaggio da seguire – o da insultare – per far contenti i media, per metterlo sugli altari e poi, subito dopo, trascinarlo nella polvere. È inutile, ad esempio, cercare la “Greta milanese”. I ragazzi non hanno un leader perché non ne hanno bisogno. È la rete a fare da collegamento, non una persona. È un tema condiviso ciò che spinge a partecipare, non una parola d’ordine ripetuta e accolta passivamente. Basta guardare i cartelli portati alle manifestazioni, ironici e pungenti. C’è infatti un altro senso di democrazia che qui s’annuncia: una democrazia che diffida di ogni organizzazione gerarchica, di ogni pretesa d’autorità. Il leaderismo e il populismo, ormai, riguardano solo i vecchi.
Bisogna poi evitare di considerare questi ragazzi come un tutto omogeneo. Non lo sono. Nelle strade si trovano ragazze e ragazzi, con le loro sensibilità diverse e le loro differenti fragilità. Adolescenti e persone un poco più grandi. Vi è chi – ed è la maggioranza – manifesta pacificamente. Vi è qualcun altro che vuole solo saltare la scuola, o fare confusione. Non c’è da stupirsi: accade in tutte le buone famiglie. In realtà, però, questi ragazzi noi non li conosciamo per davvero. Sono, o potrebbero essere, i nostri figli, i nostri nipoti, ma non li conosciamo. Non c’è da allarmarsi, però. È sempre accaduto così. È accaduto anche quando noi avevamo la loro età. Facevamo gruppo con i nostri coetanei, eravamo impermeabili agli occhi dei nostri genitori. Questo era ciò che preoccupava questi ultimi allora; questo è ciò che allarma noi oggi.
Ma in realtà, per capire chi sono i ragazzi scesi in piazza, alcuni indizi già li abbiamo. Sono una generazione abituata a interagire con il mondo e a relazionarsi fra loro e con noi soprattutto attraverso alcuni dispositivi di comunicazione. Non si tratta di “nativi” o di “nati” digitali, comunque vogliamo tradurre la fortunata espressione coniata da Mark Prensky. Essa infatti sembra far riferimento a un’ulteriore attitudine che i nostri ragazzi hanno sviluppato rispetto a noi, esseri vissuti in un’epoca soprattutto televisiva. Questa capacità, tuttavia, è spesso sopravvalutata. Fra i “nativi digitali” vi è certamente chi vive con lo smartphone sempre acceso, e da esso dipende, ma poi non sa gestire un programma Word o non conosce come funziona il sistema tutor nelle autostrade.
In parte, però, chi sono questi ragazzi già lo sappiamo. Siamo noi, infatti, ad averli educati, e non sempre nella maniera più saggia. Li abbiamo protetti, coccolati. Ci siamo posti al loro servizio permanentemente, dando l’idea che il mondo fosse fatto solo per loro. Abbiamo scelto di fare pochi figli per poterli seguire in tutto e per tutto. Li abbiamo posti al centro dell’attenzione. E, così facendo, ci siamo messi nelle condizioni di non poter insegnare loro nulla, o nulla che fosse per loro accettabile. Abbiamo confuso l’autorità cieca, a cui bisogna soltanto ubbidire e che giustamente andava superata, con quell’autorevolezza che, sola, permette di trasmettere valori credibili: e le abbiamo abolite entrambe.
In una parola, i nostri ragazzi li abbiamo in molti casi lasciati a loro stessi. E mentre per noi la baby sitter è stata la televisione, per loro sono stati l’iPad e lo smartphone. Che, per di più, non abbiamo insegnato loro a usare correttamente, così come a noi nessuno ha insegnato a decodificare le immagini trasmesse sullo schermo. Così altri valori sono stati recepiti: quelli veicolati dalle piattaforme. Le piattaforme, lo dice la parola stessa, tutto appiattiscono, tutto mettono sullo stesso piano, tutto rendono omologato. Ci si può rivolgere con il “tu” a tutti, si può manifestare sempre e comunque la propria opinione, non importa che competenza uno abbia su un determinato argomento, semplicemente perché si possiede l’accesso a una rete sociale.
Nel contempo, poi, un’altra etica si è ormai imposta nella mentalità comune: quella per cui qualche cosa vale di più quanto più è condivisa. E poi, in questo contesto, nulla in realtà è propriamente mio. Ogni cosa che è accessibile in rete possiamo farla nostra, possiamo scaricarla, possiamo copiarla. Ciò non fa problema, nella misura in cui noi stessi, senza problemi e senza paure, condividiamo le nostre immagini, i nostri dati, la nostra vita anche con chi se ne vuole solamente appropriare. Nella rete, infatti, tutto è pubblico.
Insieme, però, l’uso delle tecnologie della comunicazione ha creato nuove forme di socialità, nuovi legami. E ciò è davvero la novità del nostro tempo. Non solo ha potenziato i legami già presenti, non solo, in molti casi, ha sostituito vecchi modelli di relazione con nuovi collegamenti. Soprattutto ha fatto sì che si potessero vivere tutti insieme nuove emozioni e nuovi problemi. I nostri ragazzi lo stanno appunto facendo. Rendendosi conto, anche se noi non glielo diciamo, che questo nuovo mondo virtuale ha delle conseguenze sulla realtà di tutti i giorni, e che la realtà è qualcosa di duro, qualcosa che ha le sue leggi e con cui prima o poi bisogna fare i conti. Come accade nel caso dei mutamenti climatici.
È una situazione fatta di luci e di ombre, certo, come tutte le situazioni che caratterizzano l’essere umano. Per questo essa ci pone di fronte a scelte ben precise. I nostri ragazzi se ne sono accorti. E cominciano ad applicare ciò che caratterizza nel profondo la loro vita – l’uso cioè di strumenti che li immettono in sempre nuovi ambienti digitali – al futuro che li attende. Cominciano cioè a rendersi conto che un futuro lo devono avere. Che non basta il tempo reale, rassicurante, che viene offerto dalle tecnologie. Grazie a esse, infatti, è pure possibile fissare un momento speciale in una foto che posso postare su Instagram e condividere con i miei amici. Ma per me e per i miei amici, se vogliamo davvero ancora avere la possibilità di ricordare quest’immagine, un futuro alla fine ci deve essere.
Ce lo ricorda anche Google. Ogni tanto, infatti, sul nostro smartphone ci viene riproposta oggi la foto scattata nello stesso giorno di un anno o due fa. Ma – riflettiamoci – affinché la foto scattata oggi possa essere da noi goduta tra un anno o due, dovremo quanto meno trovarci nelle stesse condizioni in cui siamo oggi. Questo i nostri ragazzi lo hanno capito meglio di noi, e certamente meglio dei nostri governanti. Se ciò non avverrà la tecnologia, invece di essere strumento d’intrattenimento e di condivisione, finirà per trasformarsi solo in un’occasione di rimpianto.

vivere il tempo ricevuto 2

Martedì 12 febbraio, nell’Aula Magna del nostro Istituto Alberghiero a Vieste, abbiamo incontrato padre Giannicola Simone con Sofia Rossi e Andrea Bianchini, due giovanissimi associati del gruppo GiovaniBarnabiti sul tema del volontariato.

L’incontro ha avuto inizio con un’affermazione forte e chiara “non è l’essere credenti che porta a fare volontariato”, infatti la maggior parte dei volontari comincia grazie alla sola curiosità. A questa affermazione ne è seguita un’altra altrettanto forte e cioè “fare volontariato significa mettersi a disposizione di chi ha bisogno di aiuto con gratuità”. Sofia poi ha parlato del Dynamo Camp a cui partecipa da qualche anno, definendolo “luogo magico”, infatti la sua caratteristica principale è quella di essere un campo di terapia ricreativa strutturato per assistere gratuitamente ragazzi malati e disabili. Il campo offre molteplici attività finalizzate allo svago di coloro che lo frequentano, come il teatro, laboratori creativi, scuola di circo, sport e giochi. Andrea ha preferito raccontarci delle sue estati albanesi con bambini e ragazzi “avidi” di gioco e compagnia.

Uno degli argomenti centrali dell’incontro, e non poteva essere diversamente, è stato quello dei rifugiati. Chi sono i rifugiati? Generalmente i rifugiati detti anche profughi sono tutti coloro i quali fuggono dal proprio Paese di origine per motivi politici o per la povertà, che trovano ospitalità in un paese straniero per condurre una vita migliore ed essere felici come tutti hanno diritto a essere. Senza rimanere ingarbugliati nelle polemiche che caratterizzano spesso la discussione riguardo a questo argomento, gli intervenuti hanno messo in evidenza la centralità delle personee l’importanza di venire incontro alle loro necessità.

Il volontariato in tutte le sue forme è indiscutibilmente utile in un duplice modo, utile per chi riceve aiuto, e utile per chi lo dà. Infatti se è evidente l’importanza che può avere per chiunque ricevere un supporto in caso di bisogno, sono altrettanto importanti, anche se meno visibili, le conseguenze positive che si ricevono nel dare aiuto.

Alessandra de Feo
Classe II A – IPSSAR “E. Mattei”

 

La Redazione ringrazia gli alunni per la buona partecipazione all’incontro, le loro riflessioni e specialmente per l’ottimo pranzo che ci hanno preparato!

vivere il tempo ricevuto 1

Lunedì 11 febbraio nell’aula magna del liceo E. Mattei di Vieste abbiamo incontrato gli studenti della scuola per parlare del nostro volontariato.
Insieme a Sofia e Andrea di Milano, Onofrio, Carlo, Francesco e Giuseppe di S. Felice (anche se ha parlato solo Francesco!) abbiamo cercato di raccontare il nostro modo di vivere il tempo libero non solo per noi stessi ma anche per gli altri. I campi con i bambini di Milot in Albania, con i bambini malati al Dynamo Camp di Pistoia; l’impegno per il territorio provato da illegalità, inquinamento e indifferenza della gente a S. Felice a Cancello (CE).
Anche se ciò che fai ti appassiona, non è facile parlarne davanti a 300 studenti, non è facile intrattenerli un’ora e mezza.
Il fatto che Andrea (3 liceo) abbia fatto delle domande, ci dice dopo, significa che l’incontro è stato interessante, che ha lasciato insegnamenti utili. L’importanza di dedicare del tempo con gratuità ai diversi tipi di bisogno nel territorio; la bellezza di scocciare le persone che non vogliono preoccuparsi di nulla; la preoccupazione di ascoltare le esigenze di persone e realtà che spesso nessuno ascolta. Poca teoria e molta concretezza, evidenzia Andrea, che piace!
Non sono mancate le lacune, specialmente il fatto che gli organizzatori dell’incontro, denunciano i giovani viestani di essere inetti, incapaci di riconoscere le esigenze dei ragazzi.
«Non si può pretendere – continua Andrea – che tutti i giovani vadano in Chiesa e quindi rispondano alle sue proposte; il mondo, anche quello di Vieste, è più grande della Chiesa. A noi piace organizzare momenti di sport o feste per raccogliere altri giovani, per creare incontro. Forse non è un vero e proprio volontariato, ma è del tempo che con passione io e miei amici spendiamo per togliere dall’indifferenza, dal non sapere cosa fare il sabato sera. Non mancano però attività sporadiche nelle mense pubbliche per i più bisognosi.»
Sicuramente il volontariato è un bel tempo da vivere per crescere come persona. Non si sa se lo si fa per Gesù, perché il rapporto con la Fede è ancora abbastanza contorto evidenziano più volte Sofia e Andrea: lo si fa perché fa crescere.
Il tempo scorre velocemente, qualche volta si perde la tensione, ma la sinergia tra di noi ci permette di recuperare subito il discorso e portarlo a termine con una certa abilità!
L’unico problema? Oltre l’audio aggiustato dal nostro Giuseppe, far parlare “timidi” liceali, ma qualcuno rompe il ghiaccio e le cose scivolano via con destrezza. Anche questo è … volontariato!

Grazie a GiovaniBarnabiti, grazie giovani di Vieste.

Giovani in politica!

«A tutti gli uomini liberi e forti, che in questa grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini superiori della Patria, senza pregiudizi né preconcetti, facciamo appello perché uniti insieme propugnano nella loro interezza gli ideali di giustizia e libertà.»
Don Sturzo, nell’ormai lontano 1919 si rivolgeva così agli italiani martoriati dalle disgrazie della guerra invitandoli a rimboccarsi le maniche per ricostruire un futuro migliore per il Paese.
Ispirandosi a queste parole, dopo 100 anni esatti sta nascendo a Genova un’associazione di promozione sociale. “NOI X I GIOVANI” per riavvicinare i giovani alla politica.
Certo, qualcuno, soprattutto chi proclama la quarta repubblica, potrebbe contestarmi che le parole di Don Sturzo a cui mi ispiro sono addirittura riferibili a periodi anteriori alla prima di repubblica, ma rileggendo questa frase mi sono accorto di quanto siano attuali queste parole:
Ci sono ancora degli uomini liberi e forti che vogliono impegnarsi in qualcosa dedicandoci anima e corpo?
Quali sono oggi gli ideali di giustizia e di libertà per cui valga la pena lottare?
Dove sono i giovani in tutto questo?
“NOI X I GIOVANI” nasce non solo per provare a rispondere a questi interrogativi, tramite conferenze e occasioni di confronto tra i giovani ma si pone soprattutto come un contenitore di buone idee, di domande e risposte liberali per costruire, con tutti quelli che vorranno partecipare, qualcosa di più, di migliore.
La politica, anzi, la buona politica, come ho già detto in altre occasioni, si fa mettendoci la faccia, mettendoci il cuore e la mente, le parole, anche se buone e nobili, da sole non bastano.
Noi giovani, nel nostro piccolo, in un mondo in cui aumentano le disuguaglianze materiali e immateriali dobbiamo impegnarci, nell’Università, nei Municipi, nelle Associazioni, nel Volontariato, nello Sport, ovvero in tutte quelle realtà che, attraverso la loro struttura centrale e periferica, promuovono azioni politiche, economiche e culturali per riportare al centro la persona nel suo essere sociale, ripristinando un sistema valoriale fondato su principi liberali, di correttezza, lealtà e partecipazione.
Venerdì 22 febbraio p.v. presenteremo “Noi per i Giovani” ai giovani genovesi.
Personalmente come giovane che vuole fare politica ritengo fondamentale far passare il messaggio che nel delicato rapporto giovani e politica spetta alla politica fare il primo passo.
Per questo motivo inviteremo i presenti e molte altre persone attraverso i social a compilare uno speciale questionario online basato sui problemi reali dei giovani, sui problemi legati al mondo universitario, alla difficoltà di trovare un lavoro dignitoso, dando spazio anche a critiche e consigli in modo tale che il lavoro politico che Noi x i giovani realizzerà nei prossimi mesi non sia frutto di scelte calate dall’alto ma che sia espressione di una politica che “incontra i giovani” nelle loro esperienze di vita.
Con questa iniziativa speriamo di raccogliere, nel miglior modo possibile, quel invito di Papa Francesco a gettare il seme buono del vangelo attraverso il servizio dell’impegno politico, mettendoci in gioco anche attraverso la passione educativa e la partecipazione al confronto culturale.

Luca Marcato – Genova

Influncer del proprio ego

Definire Maria “influencer di Dio” può sembrare un paragone azzardato per qualcuno, ma non per Papa Francesco, che con tali parole esorta i giovani a seguirne l’esempio per farsi messaggeri dei valori cristiani (GMG 2019, Panama).
Chi sono gli influencer? Sono personaggi divenuti così popolari da rivestire un ruolo primario nell’ambito della comunicazione pubblicitaria; utenti che vantano un profilo di migliaia (o milioni) di follower sui social network dove, attraverso foto e video, trasmettono messaggi e contenuti di vario genere.
Sono per lo più personalità del web o VIP, che non si prestano soltanto a promuovere i prodotti delle aziende per cui vengono ingaggiati (a differenza dei testimonial), ma si presentano come esperti nel proprio settore e per questo capaci di conquistare la fiducia dei follower. “Primi tra pari”, gli influencer non sembrano così diversi da noi, poiché lontani dall’alone di perfezione che riveste le star hollywoodiane…ed è proprio tale percezione (genuinità = credibilità) che ci spinge a seguirli.
Non è un caso che la rete dei social – nella quale si insedia la cultura dell’esteriorità e del superfluo – costituisca l’habitat naturale per il proliferarsi di una tale figura, spesso icona di bellezza… ma non è questo il punto della digressione sopraesposta, che mira piuttosto a contestualizzare le recenti parole di Papa Francesco.
Il fenomeno “influencer” è un trend, e Bergoglio, che ama esprimersi con il linguaggio dei giovani, non esita a farne menzione quando dice: «Senza alcun dubbio, la giovane di Nazaret non compariva nelle “reti sociali” dell’epoca, però senza volerlo né cercarlo è diventata la donna che ha avuto la maggiore influenza nella storia». “Esperta” di fede e amore, donna comune all’apparenza (certamente non una diva del suo tempo), Maria è la “prima fra gli umili” scelta Dio per la diffusione del Suo messaggio di pace e la realizzazione del Suo progetto di salvezza.
Considerato il fatto che le aziende reclutano un influencer sulla base del suo profilo – il più possibile compatibile con i rispettivi valori d’impresa – si potrebbe dire che la scelta di Dio abbia seguito con successo le dinamiche di questo fenomeno.
Ma cosa significa, per noi cristiani, essere «“influencer” nel secolo XXI»? Certamente non vuol dire ambire «a possedere l’ultimo modello di automobile o acquistare l’ultima tecnologia sul mercato. In questo consiste tutta la grandezza dell’uomo?».
Siamo strumenti nelle mani di Dio, partecipi di un progetto più grande di quella che è la fitta/finta “rete” dei social, dove i giovani che ostentano la ricchezza materiale sono sempre più influencer del proprio ego e prigionieri di uno schermo dove si combatte per la visibilità e non per un ideale.
«È la cultura dell’abbandono e della mancanza di considerazione» afferma Papa Francesco, «molti sentono di non avere tanto o nulla da dare perché non hanno spazi reali a partire dai quali sentirsi interpellati. Come penseranno che Dio esiste se loro da tempo hanno smesso di esistere per i loro fratelli?».
Solo aprendo il nostro cuore, come Maria aprì il suo accettando la volontà di Dio, diventeremo “influencer di pace” e, attraverso il concreto (non digitale) condividere, potremo finalmente sentirci parte attiva di una comunità che agisce per il bene comune.
Come J.K. Rowling scrive in uno dei suoi più celebri romanzi: «non serve a nulla rifugiarsi nei sogni e dimenticarsi di vivere», allo stesso modo non ha senso restare connessi tutto il giorno, per sentirsi apprezzati e amati da una comunità tutt’altro che vera, preferendo un contatto online al contatto diretto, un post a una buona azione.
Riscopriamo l’essenza delle relazioni e cancelliamo i filtri, quelli che ci trasformano in personaggi costruiti e poco credibili agli occhi di Dio e del prossimo, perché «solo l’amore ci rende più umani, più pieni… tutto il resto sono cose buone, ma vuoti placebo».

Pasqua Peragine – Altamura

Buon compleanno Barnabiti

486 anni fa il Nostro fondatore, Sant’Antonio Maria Zaccaria, si ritrovò davanti a una situazione difficile, quella di dover trovare un modo per rinnovare un oratorio, un modo di essere cristiani, ormai in crisi.
Decise pertanto di fondare un nuovo ordine religioso distinto in tre diversi collegi, uno di sacerdoti, uno di religiose e uno di laici. Diede vita a qualcosa di innovativo, qualcosa di nuovo per quei tempi.
Ritengo che oggi abbiamo bisogno di questo, di un rinnovamento, di un vento che spazzi via le difficoltà che oggi incontriamo nel nostro cammino. E quel vento dobbiamo essere noi giovani! Noi giovani che, come dice papa Francesco, non siamo il futuro ma siamo il presente!
Perché sempre più bambini dopo la comunione spariscono dall’ambiente parrocchiale? Perché i genitori non spingono i bambini a essere partecipi, perché sono restii a condividere i valori che la Chiesa trasmette? Perché sempre meno giovani sono disponibili a mettersi in gioco in un ambiente sano, capace di stimolarli e di trasmettere loro veri valori, di rendere loro veri uomini e donne?
Tocca a noi fare qualcosa per invertire la rotta, noi che ci sappiamo sempre lamentare di ciò che non va, ma che oggettivamente abbiamo paura di agire.
Adesso è il nostro momento, è il momento di avere il coraggio di cambiare, ciò che va rinnovato. Prendere le redini e dirigere la chiesa verso un nuovo mondo d’Accoglienza, di Partecipazione, di Felicità, di tanto Entusiasmo e Amore.
Tanti auguri a Noi!

Samuele Grosso – Genova