Oggi compiamo 11 anni e li festeggiamo con una intervista a Alessia Glaviano Head of Globla PhotoVogue che ringraziamo per il tempo e l’attenzione dedicataci.

L’ultima Edizione del PhotoVogue Festival, “The Tree of Life: A Love Letter to Nature”, è stata dedicata, come suggerisce il nome, ad esplorare la natura e il rapporto che l’essere umano ha con essa. Da cosa è nata la scelta di dedicare un’edizione proprio a questo tema?
Ogni edizione del PhotoVogue Festival nasce da una mia riflessione personale, da una domanda che mi pongo sul mondo che abitiamo e su ciò che ritengo urgente esplorare attraverso le immagini. In passato abbiamo affrontato temi come il female gaze, l’inclusività, la necessità di riscrivere la storia da nuovi punti di vista; abbiamo dedicato un’intera edizione a Susan Sontag per interrogarci sull’effetto dell’ubiquità delle immagini sulla nostra capacità di sentire, o ci siamo confrontati con le questioni etiche sollevate dall’intelligenza artificiale nella produzione visiva.
Nel concepire The Tree of Life: A Love Letter to Nature, riflettevo su l’assurdità della violenza sistemica che infliggiamo agli animali — sull’ipocrisia che ci porta a considerare degni di amore e rispetto un cane o un gatto, ma non un maiale o una mucca. Da lì, mi sono imbattuta nel concetto di kinship, l’idea di una parentela estesa a tutte le forme di vita. Studiando questo approccio, ho trovato nelle visioni delle culture indigene una consapevolezza profonda e rivoluzionaria: una comprensione relazionale dell’esistenza che noi, moderni, abbiamo in gran parte smarrito. Da questa scintilla è nato il desiderio di costruire un’edizione che fosse, appunto, una lettera d’amore alla natura e alla nostra interconnessione con ogni forma vivente.
Quali temi legati all’ambiente sono stati esplorati nelle fotografie di questa edizione?
Abbiamo voluto esplorare la relazione tra essere umano e natura in tutta la sua complessità, evitando rappresentazioni univoche o semplicistiche. I progetti selezionati attraversano temi che spaziano dalla crisi climatica alla giustizia ambientale, dalla sacralità del mondo animale fino alla possibilità di un’ecologia affettiva, interspecie, capace di restituire dignità anche a ciò che abbiamo storicamente marginalizzato.
Abbiamo parlato di attivismo e santuari, ma anche di riciclo creativo nella moda, di comunità indigene che custodiscono visioni cosmologiche dove la terra è soggetto e non risorsa, e di artisti che reinventano il linguaggio visivo per restituire meraviglia alla materia naturale. Il nostro intento non era tanto “documentare” l’ambiente, quanto costruire immaginari alternativi, capaci di far emergere nuove forme di empatia, consapevolezza e responsabilità.
La fotografia come può sensibilizzare le persone su tematiche ambientali?
La fotografia ha la capacità unica di generare un contatto immediato e viscerale. Non si limita a “mostrare” ma può far sentire, creare legami emotivi che rendono impossibile restare indifferenti. In un’epoca in cui la parola “crisi” è diventata quasi un rumore di fondo, le immagini possono rompere la saturazione informativa e aprire fessure di consapevolezza.
Credo profondamente che un’immagine potente possa modificare il nostro sguardo — e cambiare lo sguardo è il primo passo per cambiare il mondo. A volte, la fotografia riesce a smuovere coscienze più di una legge, proprio perché agisce in quel territorio ambiguo tra etica ed estetica, tra intelletto e corpo. E quando tocca entrambi, accade qualcosa: si attiva una possibilità di trasformazione.
In che modo la fotografia racconta il cambiamento climatico?
Il cambiamento climatico non è solo un fenomeno scientifico, ma anche un’esperienza vissuta, un trauma collettivo, una crisi di senso. La fotografia può raccontarlo su molteplici livelli: documentando le sue conseguenze tangibili — desertificazione, inondazioni, incendi — ma anche rendendo visibili le connessioni invisibili tra sistemi, storie e soggettività.
Molti artisti oggi si interrogano non solo su cosa fotografare, ma su come rappresentare l’emergenza climatica senza cadere nel voyeurismo del disastro. Alcuni scelgono l’astrazione, altri il simbolismo, altri ancora il linguaggio del corpo o della performance per suggerire la fragilità dell’ecosistema e la nostra complicità.
Altri ancora, invece, scelgono di raccontare le storie di chi resiste, protegge, rigenera: comunità indigene, attivisti, agricoltori, artigiani, progetti collettivi che incarnano un altro modo di vivere sulla Terra. Perché è importante mostrare non solo ciò che si perde, ma anche ciò che può essere salvato, imparato, trasformato. In questo senso, la fotografia diventa un linguaggio stratificato: al tempo stesso archivio, denuncia, elegia e atto di resistenza.
Una sezione intera della mostra era dedicata a fotografie dall’America Latina, area geografica su cui anche noi ci stiamo concentrando in vista della Cop30 che si terrà a Belem, in Brasile, il prossimo novembre. Perché avete deciso di dedicare una sezione specifica a questa area geografica e cosa ci raccontano di diverso le foto che provengono da questa regione?
La sezione latinoamericana era già prevista all’interno del festival, perché avevamo lanciato un’open call per celebrare un anniversario di Vogue Mexico and Latin America. Ma non potevo immaginare quanto i lavori che avremmo ricevuto sarebbero stati straordinari. Sono rimasta profondamente colpita dalla qualità, dalla varietà e dalla forza delle proposte: una tale concentrazione di talento non l’avevo mai vista.
La sorpresa più grande è stata accorgermi di quanto fossero in perfetta sintonia con il tema del festival The Tree of Life, pur essendo nati in un altro contesto. Tantissimi progetti affrontavano con profondità il rapporto con la natura, le cosmovisioni indigene, l’eredità del colonialismo, la spiritualità legata alla terra, l’idea di kinship — quella parentela estesa a tutte le forme di vita che è stata per me il punto di partenza curatoriale. È come se, da due lati diversi del mondo, stessimo cercando di dire la stessa cosa.
Ma non è solo una questione di contenuto: c’è anche un’estetica potente e coerente che attraversa molti dei lavori ricevuti. Una tensione tra corporeità e paesaggio, un uso del colore viscerale, una capacità di fondere l’intimo e il politico, il personale e il collettivo. Molti artisti attingono alle tradizioni visive locali, ma con un linguaggio estremamente contemporaneo, visionario, spesso sperimentale. In alcune immagini si percepisce una carica quasi mistica, in altre un’urgenza militante, ma tutte contribuiscono a costruire un immaginario alternativo, radicale e necessario.
Per questo abbiamo voluto dare alla regione uno spazio centrale. Perché non si tratta solo di ascoltare nuove voci, ma di riconoscere nuove visioni capaci di influenzare e arricchire il discorso globale.
Cosa ne pensa lei di Cop30 e quale può essere il ruolo della fotografia in contesti di questo tipo?
La COP30 sarà una tappa storica, anche solo per il fatto che, per la prima volta, si terrà nel cuore dell’Amazzonia. È una scelta altamente simbolica, che pone al centro uno degli ecosistemi più vitali e vulnerabili del pianeta, ma anche un territorio carico di tensioni storiche, economiche e culturali.
Mi auguro che questa edizione rappresenti un vero momento di svolta e non solo una dichiarazione d’intenti. In particolare, spero in un coinvolgimento autentico e paritario delle popolazioni indigene, che da secoli custodiscono conoscenze ecologiche profonde e visioni del mondo fondate sulla reciprocità e sul rispetto. Qualsiasi strategia ambientale seria non può più prescindere dalla loro voce e dal riconoscimento dei loro diritti.
In questo scenario, la fotografia può avere un ruolo chiave: non solo come strumento di denuncia o documentazione, ma come spazio di ascolto e rappresentazione etica. Può dare visibilità a chi spesso viene escluso dai tavoli decisionali, può restituire emozione e complessità a questioni troppo spesso ridotte a cifre. E, forse soprattutto, può contribuire a immaginare — e a far immaginare — futuri diversi.
Lei è a conoscenza del nostro progetto “dalla Quercia alla Foresta” in cui alcuni nostri volontari collaboreranno con dei giovani di Benevides alle porte dell’Amazzonia. Pensa che progetti di questo tipo possono aiutare anche le popolazioni locali dei luoghi fotografati e afflitti dal cambiamento climatico?
Sì, conosco il vostro progetto e lo trovo estremamente importante, anche perché risponde a un’urgenza che sento profondamente. Per troppo tempo, molte iniziative — anche quelle mosse da buone intenzioni — si sono rivelate, di fatto, neocoloniali: calate dall’alto, incapaci di riconoscere la complessità dei territori, e spesso più interessate alla narrazione che alla realtà.
Oggi è fondamentale rovesciare questa dinamica: le culture indigene devono avere voce, ma soprattutto controllo. Devono essere protagoniste attive, non comparse nel racconto di qualcun altro. È bello e incoraggiante vedere che anche voi siete mossi da questa stessa consapevolezza, e che cercate di costruire progetti fondati sullo scambio, sull’ascolto, sulla co-creazione.
Solo così la fotografia — e più in generale la narrazione visiva — può davvero diventare uno strumento etico, relazionale, trasformativo. Non si tratta solo di rappresentare il cambiamento, ma di contribuire, con rispetto e responsabilità, a immaginarlo insieme.

Giulia C. – Bologna