il furto delle stagioni

Cosa resterà dell’oggi ai giovani occidentali?
Sollecitato dalla perturbazione causata dalle restrizioni per far fronte all’epidemia e alla nuova ondata che ha investito l’Europa nelle ultime settimane provo a indagare la condizione attuale da una prospettiva inedita. Non voglio commentare o giudicare le scelte dei governi europei, tantomeno quanti sono deceduti ovvero gli uomini e le donne che ogni giorno lavorano per tenere in piedi i sistemi sanitari del “nostro” Vecchio Continente e gli ammalati gravemente sofferenti. Tutto ciò va trattato dalle persone competenti, io cercherò invece di scrive di qualcosa che conosco meglio.
Cercherò di scrutare la prospettiva, la condizione, la potenziale sofferenza silente, di un segmento della popolazione. Uno spaccato di cittadinanza residua, a tratti invisibile, demograficamente minoritaria e tuttavia legittima proprietaria del futuro del mondo. Naturalmente mi riferisco a una parte specifica della gioventù europea: gli studenti, i dottorandi, i neo-laureati, i maturandi che ambiscono a divenire fisici, chimici, magistrati, biologi, consoli, artisti e così via. Se è vero che le sofferenze, oggi, investono maggiormente i piccoli-medi imprenditori, dipendenti e lavoratori, è vero anche che ciò non delegittima né può sminuire l’inquietudine che investe le gioventù europee, ossia il nostro futuro. Chiaramente, a questo punto, diviene legittima una domanda: “ma perché mai, questi ragazzi, dovrebbero soffrire?”. Purtroppo, o per fortuna, non tutti sono angosciati per ragioni calcolabili matematicamente. Se gli adulti, e nello specifico i lavoratori, costituiscono la loro esistenza sull’equilibro del calcolo e sul garante personificato dal Signor Reddito Adeguato (e immutato), per un giovane studente non è così. Se l’adulto riesce a fare della stabilità il proprio Dio; la giovinezza, invece, ha la prospettiva –l’ambizione- come solo e unico argomento. E cosa accade, allora, a questi ragazzi che giustamente si vedono barricati nelle loro case? Perché il “restare a casa” dovrebbe essere così drammatico per loro –noi-?
Prima di rispondere a questa domanda, credo sia opportuno compiere una precisazione. La giovinezza, nutrendosi esclusivamente di avvenire e di ambizioni, risulta essere –e questo è risaputo- una delle fasi della vita più intense e complesse di ogni esistenza. In una condizione ordinaria, quasi sempre, vi sono dubbi, rimorsi, sensi di colpa, incertezze e paure (tutto ciò, in solitudine, diviene asfissiante). A uno studente universitario può sfuggire il presente, ma non il futuro. In senso pratico ciò significa quanto segue: in età giovanile si fa molta fatica a comprende che cosa e, soprattutto, chi si è. L’adulto, invece, giovando del fatto di possedere già un passato –e quindi un vissuto-, non può avere determinati dubbi in merito. Può impoverirsi, sì; può perdere il lavoro, è vero; certamente, però, è molto più difficile che smarrisca se stesso e che non sappia più rispondere alla domanda “chi sono, io?”. Ai nostri ragazzi, in questo tempo, può accadere quanto detto. L’inquietudine, derivante dall’isolamento e dalla distanza siderale dal proprio “contesto”, ingombra e annebbia le menti. E quindi vi è un rischio di rinuncia all’ambizione, di smarrimento e deperimento della spinta esistenziale e vitale. La tragedia, la morte, può essere anche psicologica, non solo organica. Indubbiamente il momento storico è complesso per tutti noi, ciononostante bisogna non ignorare né sottovalutare la totalità delle questioni.
Ho scritto per dare voce a delle dinamiche, a delle conseguenze, che altrimenti resterebbero ignorate solo perché non organicamente danneggiate dal virus. In definitiva, nessuno può fingere di dimenticare ciò: se l’adulto ha la salute come necessità primaria della propria esistenza, la giovinezza ha il futuro come solo argomento. Perché se è vero che tutti godono degli stessi diritti, è vero anche che nessuno possiede il diritto di non ascoltare e non considerare qualsivoglia forma di sofferenza –sia pure minoritaria, non patologica o meramente psichica-.

Giuseppe P., Aversa

Ragazzi falliti o persone in crescita?

Buon giorno Giuseppe,
ma precisamente con chi sto parlando?

Sono Giuseppe Fornari, della “fondazione aquilone” che lavora con e per ragazzi e adolescenti con meno fortune di altri. A Milano, quartiere Bovisa / Comasina.

Quindi svolgi un lavoro sociale. Come è percepito da tuoi coetanei? Nel senso che non è proprio un lavoro da … carriera.

La difficoltà più grossa e far capire che è un lavoro, non un tempo perso, ma anche le famiglie capiscono dopo il suo valore, quando vedono quello che frutta sui loro figli!

Come ci sei arrivato?

Attraverso percorsi di fede e di servizio civile e poi una formazione che non è solo improvvisazione.
Tu lavori con ragazzi, adolescenti e giovani che poi sono una invenzione della nostra società, perché una volta si passava da bambini ad adulti!

In breve chi sono questi ragazzi, adolescenti, giovani?

Vedi, una fase intermedia tra bambino e adulto è importante anche se oggi è troppo. Mio papà a 11 anni andò a lavorare!
Questi adolescenti sono persone in crescita, in cerca del proprio posto nel mondo. Si affacciano e cercano di capire la società di oggi, impresa non facile perché è una società confusa, senza modelli chiari.
Fino a qualche anno fa era più facile scegliere tra bianco e nero, oggi no; è importante
essere affiancati nelle scelte.

Perché esistono situazioni periferiche, dimenticate?

Forse perché uno dei modelli occidentali prevede solo il primo posto, non il secondo; talent show in cui si deve vincere perché chi arriva secondo non vale. Se non arrivo al massimo non valgo nulla. Non si capisce che ognuno ha un suo massimo!
Abbiamo percorsi con ragazzi normali e disabili, in cui i normali sono già esclusi dalla classe! Dai docenti stessi.
Se si è già esiliati alle medie come possono arrivare all’età adulta.
Se non si può avere il minimo, per esempio un pc per sé e non diviso tra uno o più fratelli, in un ambiente bello. Molti dei collegamenti erano solo audio per paura di far vedere la propria casa. A scuola almeno sei sullo stesso banco, c’è una maggiore uguaglianza.
Noi non possiamo aiutare in tutto, però almeno dare delle luci differenti, delle occasioni più umane.
La chiusura ha tenuto tutti sotto una pressione faticosa ingestibile anche senza volere.
Come hai trovato questi “tuoi” ragazzi dopo tanti mesi di lontananza?
Li abbiamo trovati desiderosi di riprendere a stare insieme. Non gli bastava più il cellulare per comunicare: ce ne siamo accorti sia durante la chiusura sia ora. Abbiamo bisogno di corpi.

Sai indicare alcuni valori, non dico irrinunciabili, ma quasi?

L’amicizia, persone cui poter confidarsi, coetanei o altri.
La famiglia.
Ma molti ragazzi di 3 media pensano solo ai soldi, a diventare ricco, per avere amici. Forse i più grandi ci pensano meno, ma in terza media…
Hanno una idea di Dio, di una fede in Gesù come possibile compagno di viaggio o le prospettive vanno altrove?
Quelli che seguiamo noi, come possono credere in Gesù se nessuno glielo annuncia? Nessuno parla più a loro di Dio. Io ci ho provato. Sono molto immanenti: chi se ne frega? Basta che me la cavo, perché Dio dovrebbe preoccuparsi di me e io di lui.
Forse gli abbiamo chiuso i cancelli come Chiesa, coltiviamo le pecore dentro ma quelle fuori…

Cosa condiziona, nel bene e nel male, maggiormente questi giovani?

Terribilmente il cellulare dal quale conoscono e pensano il mondo.
Il nostro lavoro è aiutarli a lasciarsi condizionare dalle persone che pensano a loro, non da degli estranei… Se trovano una persona che li ascolta si lasciano … condizionare. I giovani sono fantastici su questo capiscono la differenza…
L’orientamento scolastico poi li e ci massacra: prima c’era il gruppo adolescenti ora ci sono gli adolescenti uno per uno…
Un lavoro personale aiuta assai e fa vedere il meglio.

Questi ragazzi, adolescenti, giovani sanno di passare da una fase infantile a una adulta?

Sanno che devono passare, ma a quali condizioni? Cosa li aiuta? I genitori sono disponibili che i figli crescano?
Hanno il desiderio di autonomia e libertà di farsi una strada però oggi è più complesso, oggi fallire significa sentirsi un fallito, non uno che ha inciampato. Abbiamo bisogno far conoscere loro dei fallimenti.

Il loro idolo preferito

Sicuramente qualche rapper, ma è un modello da scardinare perché bisogna sbattersi in quello che si fa, non si può credere che tutto sia così semplice… il soldo facile, gli influencer.

Ti senti un poco loro idolo?

Si, ma non io, noi come educatori. Ti fanno capire che sei importante per loro. Che hanno bisogno di te, ma facciamo attenzione al rischio di sostituirsi a loro.
Se vuoi loro bene, loro lo capiscono. Sempre.
È una bella sensazione ma anche un grande peso!

Grazie Giuseppe, buon lavoro.

Ritratto della giovane in fiamme

Non ho intenzione di girarci troppo attorno: Ritratto della giovane in fiamme è un film che ho aspettato per molto, tanto tempo. Da quando ha vinto la Migliore sceneggiatura e il Queer Palm a Cannes nel maggio del 2019, la macchina dell’hype è entrata a pieno regime e tutto quello che ho potuto fare è stato aspettare pazientemente che questo gioiello raggiungesse i grandi schermi danesi. Fastforward a febbraio 2020 e molti premi e nomination più tardi, è stato finalmente il mio turno di vedere di cosa si trattasse.

Ambientato ai confini di una remota Bretagna alla fine del XVIII secolo, la storia si concentra su Marianne (Noémie Merlant), una pittrice incaricata di produrre segretamente un ritratto per un soggetto che non lo vuole, una giovane donna di nome Héloïse (Adèle Haenel). Con il ritratto destinato a un fidanzato indesiderato, Héloïse ha rifiutato i lavori dei pittori precedenti e Marianne ha il compito di crearne uno che possa andare bene questa volta. Impostata questa premessa nei primi 15 minuti, la narrazione esplode in una vetrina colma di tensione, di sguardi nascosti e rubati, di un’alchimia tra due donne che raggiunge un livello quasi insopportabile – in un’accezione estremamente positiva – prima che l’inevitabile esploda per alterare per sempre le loro vite.

Non riesco a ricordare l’ultima volta che sono stato così fortemente preso da un film. Una pellicola con appena cinque personaggi parlanti e estremamente minimalista nel suo approccio, si afferma assolutamente irresistibile. Dalle piccole dimostrazioni di amicizia e compagnia femminile ai dialoghi su interessanti questioni femministe rilevanti oggi come lo erano nel 1700, Ritratto ci va giù così pesante in maniera così garbata e tranquilla da lasciarmi parecchio sbalordito dal suo impatto. Un dramma queer reduce da Cannes di enorme successo e consensi, l’ultimo lavoro di Celine Sciamma si trasla sul grande schermo come un racconto parsimonioso e intenso, senza intaccare la sensualità e l’erotismo dell’immagine stessa. Sembra infinitamente più intimo e reale di ogni previo dramma lesbo, forse per le differenze che rimarca tra la sensibilità cinematografica e lo sguardo di un uomo etero (Abdellatif Kechiche) dietro la macchina da presa a fronte della regista omosessuale.

Proprio come un altro straordinario film in lingua straniera dell’anno scorso, Parasite, Ritratto sembra un’immagine che rivelerà qualcosa di nuovo di zecca a ogni singolo rewatch. Tutto ciò che riguarda la composizione e l’esecuzione di ogni fotogramma sembra stratificato, deliberato da menti esperte, e la passione trasuda da ogni fotogramma.
Da vedere!

Fabio Greg Cambielli, Copenaghen

Aborto?

L’aborto, ovvero l’interruzione della gravidanza attraverso la rimozione del feto, è una pratica molto discussa nel nostro Paese in quanto risente molto la presenza del Vaticano, da sempre contrario perché contro il pensiero cristiano. L’aborto è regolamentato dalla legge italiana dal 1978 purché avvenga entro i primi 90 giorni di gravidanza. Nonostante ciò, ciclicamente si continua a parlare di questo in TV, sui Social e ci si dimentica spesso che è un diritto del cittadino. Si ascolta sempre più frequentemente di donne e ragazze che vengono torturate psicologicamente prima di procedere con l’atto di aborto. Chi decide cosa è corretto o meno fare? Non penso che una persona abbia il diritto e il dovere di decidere per un’altra senza conoscere nemmeno la storia che ci sta dietro. Semmai l’unica cosa che può fare è ascoltarla e, solo dopo, dare un suo parere e consiglio personale.
Prendere la decisione di abortire non è mai facile. È una scelta che viene presa, in teoria, consultando il compagno e i propri parenti. Poi i medici. Se però una donna arriva a pensare di abortire vuol dire che il problema sta a monte. Come mai rifiuta di diventare mamma e non vedere mai quello che sarebbe suo figlio? Ci sono tanti motivi di gravidanze inattese. Tra questi possiamo suddividerli in 3 macroclassi: quelli che riguardano lo “stupro”, successivamente quelli che riguardano “l’inconsapevolezza della ragazza” e poi quelli della “casualità del fatto”.
Per quanto riguarda il primo, oggigiorno sono sempre più i casi di uomini (se si possono definire tali) che con la forza usano le donne per puri piaceri sessuali. In questo caso come non comprendere la giovane donna nel voler abortire? Che vita avrebbe il futuro figlio senza padre e nato da una relazione non voluta? Non si tratta di essere egoisti, bensì di pensare al prossimo per fargli vivere una vita più normale possibile. Lo stesso se si pensa a relazioni clandestine di ragazze che, dopo una serata allegra, rimangono incinte.
Infine, arriviamo all’ultimo punto, forse quello più delicato. Può succedere che pur avendo copulato in modo protetto la ragazza rimanga incinta. Lo dice la scienza. In questo caso cosa fare? Be’ come ho detto prima, non sono nessuno per dire quello che bisogna fare e la decisione che è corretta prendere. Penso che sia bene parlarsi tra coniugi e valutare le circostanze. Alcune domande che mi porrei riguardano l’aspetto economico oltre a quello sentimentale. Com’è la situazione economica della coppia? I due partner sarebbero in grado di crescere un figlio? Hanno abbastanza tempo da dedicare al futuro figlio o dovranno sempre richiedere favori ai futuri nonni? Che vita faranno fare al figlio? Si amano veramente o è una relazione che è in procinto di terminare?
Ho detto prima che questo è il caso di gravidanza più delicata appunto perché la coppia non cercava e non voleva il figlio. Però, dal momento che c’è la possibilità di averlo, bisogna valutare bene le cose. Non penso conti l’età della ragazza. Anzi, se esistono i presupposti detti prima, una coppia può avere un bambino anche a 20 anni. Contrariamente, se i possibili futuri genitori non hanno un lavoro stabile, hanno poco tempo da dedicare o se hanno altri mille problemi, è meglio che decidano per l’aborto della ragazza.
Penso che i medici, piuttosto che criticare o provare a far cambiare idea, debbano aiutare la donna a prendere la giusta decisione per lei e per il figlio. Soprattutto quando sono in sala operatoria non devono abbandonarla a sé stessa perché è sempre una donna che soffre sapendo di perdere quello che sarebbe potuto essere suo figlio.
Marco C. – Milano

Il modo migliore per formare delle coscienze e per coltivare dei valori è quello di saper discutere e dialogare non solo con chi la pensa come te, bensì con chi parte anche da altri presupposti. Questo vale specialmente quando si collabora con una persona giovane e in modo particolare quando in questa nostra società anche bella, i parametri sono differenti.
Per questo motivo ci piace pubblicare la riflessione di Marco C., ma anche rispondere.
Il tema della vita è un tema troppo importante per non essere ragionato e rielaborato continuamente, specialmente oggi dove la tecnica ci permette azioni prima impensabili e il soggettivismo – non ho scritto individualismo – prevale nel pensare e proporre le proprie idee.
La vita, anche la mia vita personale, seppure pensiamo di esserne gli unici responsabili, non è solo una mia proprietà, riguarda sempre anche gli altri, sempre.
Quando poi parlo di una vita che deve nascere tutto ciò vale ancora di più, specialmente perché questa vita non ha voce.
Allora se io sono un soggetto ragiono pensando anche l’altro come un soggetto, se io sono un individuo, l’altro che debba nascere o essere già vivo, non mi interessa perché ci sono io e basta.

Al di là dell’essere o no cristiani, la vita non è una mia proprietà, la vita è sempre altro da me, è sempre un dono che chiede di essere incontrato. Purtroppo chi attenta in vari modi alla vita questo non la fa, non è interessato a incontrare ma a sfruttare l’altro.
Anche la vita che una donna porta dentro di sé non è di esclusiva proprietà della donna (e purtroppo la tecnica attuale lo dimostra in modo evidente).
La vita va sempre accompagnata e custodita, specialmente nei momenti di fragilità.
Questi momenti sono quelli che ha elencato Marco, momenti che non solo il medico o chi per esso talvolta “violenta”, ma tutta la società dimentica.
Tralasciando il caso estremo di uno stupro sulla donna (qui consiglierei però la visione di: Venuto al mondo) negli altri casi mi domando se dobbiamo lasciare il neo concepito a semplice prodotto di errori, dimenticanze o questioni economiche.
Da maschio non posso dire se l’aborto lasci una traccia indelebile nel corpo di una donna; da uomo che si sente parte complementare di una donna voglio dire che di fronte a una vita che può nascere non possiamo agire semplicemente secondo il nostro sentire o il nostro portafoglio.
Da uomo, in quanto partner o società, non posso lasciare solo una donna nel momento delicato di una vita in grembo.
Ma anche il fatto di poter gestire da sola un aborto, come l’attuale legge prevede specialmente con la pillola dei giorni dopo, è una scelta che scaturisce da una idea di essere umano sempre più pensato come individuo piuttosto che come soggetto e / o persona.
Non voglio mettere i discussine la legge sull’aborto, ma l’incapacità della nostra società di sapere accompagnare una donna e talvolta una coppia nell’affrontare un momento così importante della vita non solo della donna e dell’embrione ma di tutta la società.

LA FUNZIONE SENO DI GENNY’a CAROGNA

Anche questa mattina dopo colazione ho sfogliato il giornale. Per me è un gesto abituale, al quale sono affezionato pur sapendo che un solo giornale non basta per una corretta informazione.
Oggi, leggendo con la coda dell’occhio un articolo di cronaca non particolarmente attraente, ho notato una parola che non mi è piaciuta: “parabola”. Ovviamente non per il suo significato (ogni termine matematico per me è misteriosamente magico) ma per il contesto nel quale era stata inserita.
L’articolo riguardava Gennaro De Tommaso, ex capo ultrà diventato “famoso” per le tristi vicende della finale di Coppa Italia 2014, all’interno delle quali fu ucciso un giovane tifoso napoletano. All’epoca De Tommaso era proprio capo ultrà della tifoseria partenopea ed eccolo quindi sulle pagine di tutti i giornali di quei giorni.
Notizie più recenti, invece, sono quelle riguardanti la sua condanna: 9 anni di arresti domiciliari per spaccio di stupefacenti.
Letto l’articolo a causa del titolo ancora indigesto ho scritto al Corriere della Sera.
Premetto però quattro punti.
1) Le parole sono importanti. Molto più di quanto pensiamo. Così affermano e spiegano 1984, il libro di Orwell e il film di Nanni Moretti Palombella Rossa;
2) Gli ultimi sono persone da proteggere;
3) Siate sempre critici e indignatevi quando ce n’è bisogno. Soprattutto FATE, è la cosa più decisiva che ognuno di noi può raggiungere. Troppo spesso ristagniamo nella tiepidezza tanto insultata da SAMZ e non agiamo.
Scrivere a un giornale è una mossa microscopica, ma mi sono messo in gioco come non facevo da troppo tempo ed è stato importante. Soprattutto siate critici con la Stampa, con i mezzi di informazione. Ricordo sempre molto volentieri un incontro al liceo con un grande giornalista, Antonangelo Pinna. Paragonò il suo mestiere a quello del cane da guardia, perché il giornalista deve essere un giornalista contro. Contro le ingiustizie, le repressioni ma specialmente contro il potere. Ora paragonerei i giornalisti a cani di compagnia, a Pastori Normanni improvvisamente ammansiti e coccolosi. È nostro compito riportarli al loro ruolo originario, perché, sempre citando il grande Pinna, il padrone di un giornale è il lettore.
4) Studiate la matematica che è una materia bellissima.

Buongiorno,
sono Luigi Cirillo, vent’anni.
Oggi ho letto sul Corriere un titolo che mi ha indispettito: La parabola di Genny’a carogna: Da capo ultrà a collaboratore rinnegato da amici e familiari, di Fulvio Bufi. Sono rimasto particolarmente colpito, in negativo, dal titolo: La parabola di Genny’a carogna.
Il termine che mi ha fatto storcere il naso, ma soprattutto mi ha provocato un forte dispiacere è “parabola”.
Per quanto il termine sia molto vago e impreciso (che tipo di parabola? Com’è orientata?), nel gergo comune, al contrario, applicato in un contesto di questo genere assume un significato specifico.
Si tratta di una parabola discendente, con un massimo e presumibilmente un minimo, in quanto la vita di una persona non è infinita e quindi si tratta di un dominio chiuso.
Con queste ipotesi, le quali mi auguro siano sbagliate si può arrivare facilmente a brutte conclusioni.
Ovvero che la vita di Gennaro De Tommaso abbia avuto un massimo, che va ricercato nel passato, in quanto se si parla di parabola ora vuol dire che il punto di massimo sia già stato raggiunto. Un passato macchiato da violenza e spaccio di droga, il quale credo sia orribile identificare come vertice della vita di un uomo.
In secondo luogo, l’altra conclusione, ancora peggiore, alla quale questo termine può portare, è che ora la vita del Signor De Tommaso si avvii verso una traiettoria discendente, simbolo di declino.
Questi ragionamenti, mai supportati ma nemmeno smentiti all’interno dell’articolo, mi trovano fortemente in disaccordo.
Sono convinto, al contrario, che la vita del Signor De Tommaso non abbia raggiunto un massimo nei suoi anni di maggiore potere criminale; al contrario, credo che questi possano essere paragonati a un minimo.
Soprattutto mi auguro, come cittadino e come uomo, che la sua vita possa invece ripartire proprio da ora, dal suo punto più buio e trovare finalmente il massimo in una vita onesta e dedita al rispetto del prossimo.
Credo sia nostro dovere, in quanto membri di una stessa comunità, credere in questo e credere nella giustizia, anche nella sua componente punitiva.
Dimentichiamo sempre che il carcere, così come l’arresto domiciliare, ha come primo scopo quello di riportare in società chi ne è stato allontanato.
Se non siamo noi i primi credere in questo, non saremo mai i primi a cambiare la schifosa realtà del sistema punitivo italiano (mi riferisco soprattutto alle condizioni inumane nelle carceri, ma anche al recupero dei condannati che spesso non avviene).
Cambiare si può, basta crederlo e FARLO.
Come sempre si parte dalle cose piccole, da un termine innocuo (parabola) che invece è il primo sintomo di un senso comune deficiente dei giusti obiettivi.
Le parole sono importanti, specialmente quando sono scritte su una delle testate italiane più prestigiose e storiche.
Scrivere parole giuste nel loro contesto, è questo è il ruolo molto delicato di Voi Giornalisti e una delle vostri enormi responsabilità.
Anche il pentimento non deve essere valutato come un minimo. Quale sia stato il motivo dietro ad esso, reale rimpianto o decisione finalizzata al proprio interesse, noi non possiamo saperlo ed è giusto che sia così.
Tuttavia sappiamo che è il primo fondamentale passo verso il riscatto di un uomo e come tale va considerato.
Concludo aggiungendo che non mi piace paragonare la vita di un uomo ad una funzione matematica, ma se proprio si vuole applicare questa forzatura ecco come avrei titolato: “La funzione goniometrica di Gennaro De Tommaso. Da capo ultrà a collaboratore rinnegato da amici e familiari”.
Una funzione con alti e bassi, che non sta a noi conoscere o giudicare.
Vi prego di far arrivare queste poche righe anche al Signor Fulvio Bufi, principale destinatario.

Cordiali saluti,
Luigi Cirillo

Verë në kohën e Covid-19

Vera e këtij viti ishte ndryshe nga të tjerat. Nuk ishim mësuar më parë me këtë situatë dhe prandaj ishte mjaft e vështirë. Kjo verë ishte e pazakontë dhe ka detyruar shumë persona të rishikojnë planet e tyre. Janë anuluar shumë aktivitete kulturore e fetare dhe janë ndryshuar shumë gjëra të planifikuara më parë.
Pushimet verore këtë vit ishin të pazakonta për këdo. Ishim të detyruar të mësoheshim me praninë e virusit në mes nesh dhe të bënim kujdes duke respektuar rregullat e këshillat e nevojshme për tu mbrojtur nga kjo pandemi e rrezikshme.
Sigurisht që kur përmendet vera, gjëja e parë që të vjen ndërmend është plazhi. Epo këtë vit edhe palzhi ishte ndryshe, ku na duhej të përshtateshim me rregullat e reja aspak të zakonshme për një vend të tillë.
Këtë vit nuk e kishim të mundur të organizonim kampin veror duke parë situatën e vështirë që po kalojmë. Ndoshta kjo ishte ajo për të cilën na erdhi më shumë keq. Gjithsesi më e rëndësishme në këtë situatë është shëndeti.
Gjëja më e mirë që mund të bëje gjatë kësaj vere ishte shëtitja në një ambient të hapur pse jo në një park, duke vrapuar, ecur ose duke ngarë një biçikletë. Pra aktivitetet në mjediset e hapura ishin një nga mënyrat më të mira dhe mbi të gjitha më të sigurta në këtë periudhë pandemie. Kjo ishte periudha e duhur për të shijuar momente me familjen, për t’u stresuar më pak, e për t’u argëtuar.
Kjo nuk ishte një verë e zakonshme për askënd. Ndërsa pandemia COVID-19 është ende mes nesh është shumë e rëndësishme të kujdeseni për veten dhe të gjithë përreth jush. Lutemi dhe shpresojmë që të gjithë të jeni mirë me shëndet.

Lutemi për padre Graziano dhe padre Giovanni Nitti që të shërohen sa më shpejt dhe të rikthehen shëndosh e mirë në mesin tonë. Siamo con voi!

Redjon LL. – FushMilot

L’estate a Milot nel tempo del Covid-19

L’estate di quest’anno è stata diversa da tutte le altre. Non avevamo mai vissuto una situazione simile perciò è stato ancora più difficile. Quest’estate così inusuale ha costretto molte persone a rivedere i propri progetti. Molte attività culturali e religiose sono state annullate e molti altri progetti precedentemente pianificati sono stati modificati.
Le vacanze estive di quest’anno sono state “diverse” per chiunque. Dovevamo abituarci alla presenza del virus tra di noi e stare sempre attenti rispettando le regole e i consigli necessari per proteggerci da questa pericolosa pandemia.
Certo che quando pensi all’estate la prima cosa che viene in mente è la spiaggia. Eppure quest’anno anche la spiaggia è stata diversa. Anche qui dovevamo adattarci alle nuove regole assolutamente inusuali per un posto simile.
Quest’anno poi non abbiamo potuto organizzare il campo estivo con i giovani italiani e i nostri bambini vista la difficile situazione che stiamo vivendo. Forse questo è l’aspetto che mi è dispiaciuto di più anche se comprendo che più importante in questi casi sia la salute.
La cosa migliore che potevi fare durante quest’estate era la passeggiata fuori in un parco, correndo, camminando o andando in bici. Le attività all’aria aperta erano le opportunità migliori e più sicure per affrontare questa pandemia. È stato questo anche il periodo dove si potevano gustare dei sereni momenti in famiglia per dimenticare lo stress e per divertirsi un po’.
Questa non è stata un’estate usuale per nessuno. Mentre la pandemia dovuta al COVID-19 è ancora tra noi è importantissimo prendersi cura di noi e di tutti quelli intorno a voi.
Noi anche preghiamo e speriamo che siate tutti in buona salute. In particolare preghiamo per padre Giovanni e padre Graziano perché possano guarire al più presto e ritornare quanto prima tra di noi sani e salvi.

PpGG: siamo con voi.

Redjon LL. – FushMilot

PREGIUDIZI SULLA CHIESA? brevi annotazioni sulla necessità di generare il futuro.

«Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dètte la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla?».

F. Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125

Nell’atrio di questo millennio, che l’Occidente si appresta a vivere, che cos’è, cosa può essere e soprattutto cosa non potrà più essere deputata a fare, l’istituzione ecclesiastica, “baluardo” del nostro Vecchio Continente?
Non è importante, in questa sede, dibattere sui classici – e seduttivi – argomenti concernenti l’esistenza o l’inesistenza di Dio, il significato dell’esser fedeli, i meriti e i demeriti storici della cristianità e così via. Il punto essenziale, il crocevia, è il seguente: la Chiesa, il Vaticano, come si percepisce nel nostro tempo? Ora che siamo distanti ormai vent’anni dal secolo scorso, in che modo il mondo cattolico e mutato e quanto, ancora, muterà? Gli europei, come i cattolici, per fortuna o purtroppo, non possono ignorare determinati quesiti. Il motivo di ciò? Non esisterebbe l’Europa – la nostra, amata, Europa – se non esistesse il cristianesimo e viceversa. Sulla base di questo dato imprescindibile – il quale potrà essere confermato da chiunque si sia occupato, nel corso della sua esistenza, di discipline storiche, filosofiche e teologiche – non possiamo continuare a fingere di non vedere e non capire.
Al di là di quanto i governi e i cittadini europei ne possano dire, è impossibile non far caso alla forte crisi politica, culturale e antropologica, che tutti noi stiamo vivendo. Questo senso di disincanto, disorientamento e disillusione, ovviamente non può che coinvolgere anche la Chiesa alla quale, però, bisogna riconoscere che è da ormai un decennio che sta tentando disperatamente di restare aggrappata a un mondo che nessuno – veramente nessuno – riesce più a comprendere. Tuttavia, anche il mondo cattolico sta pagando a caro prezzo la vertigine della trasformazione antropologica che l’intero pianeta sta attraversando.
L’Occidente, dopo il 1989, ha dato progressivamente l’impressione di aver smarrito la bussola: crisi delle cosiddette socialdemocrazie, dissoluzione e disincanto nei confronti di qualsivoglia ideologia politica e ridimensionamento brutale del potere ecclesiastico. Tutto ciò, innegabilmente, ha incrementato il senso di smarrimento in tutti coloro i quali sono venuti al mondo a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio. L’opinione pubblica e gli organi d’informazione cercano le cause nella mancanza di occupazione che – a causa delle crisi economiche – avrebbe obliato nelle menti dei giovani l’idea di uno stralcio d’avvenire. Questo, in parte e solo in piccola parte, è vero. Bisogna considerare, però, che ci troviamo dinanzi a un cane che si morde la coda. Bene, la causa dei nostri mali va cercata proprio nell’assenza di luoghi dove cercare ristoro.
Tralasciando la questione politico-antropologica, vorrei concentrarmi sulla figura e sul luogo che può rappresentare la Chiesa. Non importa se Dio esiste o meno, ciò che conta è la domanda che un individuo nell’oggi può porre a Dio. Ogni tipo d’interesse, ogni forma di desiderio, amore e ammirazione, non è nient’altro che la formulazione di un quesito. Il fatto che qualcuno abbia assistito al collasso di un qualche tipo di ideologia politica certifica un fatto: quell’ideologia non era più in grado di rispondere, e forse neppure di accogliere, la domanda dell’interlocutore. Quest’ultimo, allo stesso tempo, ha rinunciato persino a formulare il quesito: “ma tutto ciò, alla fine, che senso ha? Meglio lasciar perdere. Che vada tutto in malora”.
Nei confronti della cristianità, dal mio punto di vista, è andata più o meno allo stesso modo. L’istituzione ecclesiastica, nella percezione comune, non è più in grado di rispondere ai più svariati quesiti. Tutto questo, però, è un dramma.
Una volta che abbiamo obliato il tutto – e, quindi, niente più ideologie, niente più Dio né religione – cosa ci resta? Che cosa siamo? Temo che ci resti il nulla e che, conseguentemente, non possiamo che scoprire d’esser divenuti un grande – seducente e amabile – niente.
La Chiesa accusa i giovani di non avere valori, mentre i giovani, al contrario, accusano il mondo cattolico di essere afflitto da un sistema valoriale anacronistico: un cane che si morde la coda, ripeto! Comunque, questa condizione, fa male indistintamente a tutti. Bisogna tentare necessariamente di distruggere entrambi i pregiudizi: le giovani generazioni devo smetterla d’immaginare la figura del cristiano come una figura fuori dal tempo e dal mondo; i cristiani, i sacerdoti, non devono dare più modo ai giovani di pensarli come obsoleti. Aprirsi al dialogo, alla diversità, alla differenza, aprirsi persino allo scontro. Essere disposti ad accettare le contraddizioni e le incoerenze. Solo attraverso una forma di caos produttivo, oggi, potrà germogliare una nuova idea di mondo, di casa, di futuro. Offrire l’avvenire, un pensiero, un paradiso che sia qui –nei corpi e nelle menti- e non solo in cielo!
La cristianità, del resto, dispone di armi potentissime – quali l’arte e la bellezza – per rigenerarsi. Il compito, oggi, spetta a tutti i seminaristi, a tutti coloro che si apprestano a divenire sacerdoti, ma anche ai cristiani giovani, sono loro il futuro della cristianità e solo formando in modo impeccabile i nuovi apostoli di Dio, Dio stesso riuscirà a non morire. I nuovi cattolici, i futuri signori di Dio, hanno il dovere di pensarsi come i “custodi del divenire”, affinché il nulla – che un tempo fu immaginato dalla Chiesa nelle vesti del Diavolo – possa finalmente cessare di tediare le nostre primavere.

Giuseppe P. – Aversa

Minhas causas valem mais que minha vida

“Minhas causas valem mais que minha vida”, dizia Dom Pedro Casaldáliga, padre, bispo, missionário de São Félix do Araguaia, que faleceu no último 8 de agosto. Se suas causas valiam mais do que sua vida, Pedro fez delas sua vida. Tinha uma forma própria de se portar – sempre de forma simples e humilde, desde o falar até a forma de se vestir – e de defender a vida (dos outros).
Nascido Pere Casaldàliga i Pla em Balsareny, na província de Barcelona, na Catalunha, chegou ao Brasil, como padre, em 1968 para uma missão claretiana (ele fazia parte da Congregação dos Missionários Filhos do Imaculado Coração de Maria, fundado por Santo Antônio Maria Claret) no estado do Mato Grosso. Lá ele começou a testemunhar de perto a realidade cruel que o esperava.
Em 1970, aquele que viria a ser conhecido mundialmente pela defesa dos direitos humanos, dos povos indígenas e pela sua constante defesa e preferência pelos pobres, foi nomeado administrador apostólico da prelazia de São Félix do Araguaia (Mato Grosso) e posteriormente bispo da prelazia. Foi nessa época também que publicou as primeiras denúncias à existência do trabalho análogo a escravidão no Brasil. De lá para cá foram inúmeras ações em favor da população de São Félix e a todos os menos favorecidos e marginalizados. Foi responsável por uma evangelização voltada para a promoção humana e sem colonialismo e de oposição à truculência da ditadura.
Tendo tido sua vida ameaçada diversas vezes viu vários de seus companheiros de luta morrerem. Contam até mesmo que um morreu em seu lugar – visto que o marcado para morrer era um bispo porém Dom Pedro Casaldáliga mas ele não tinha o costume de se vestir como os trajes eclesiásticos; preferindo um vestuário mais simples (um chapéu de palha em vez da mitra, um cajado indígena em vez do báculo e um anel de tucum em vez do anel de ouro).
O primeiro bispo prelado de São Félix representou até o seu último sopro de vida uma grande referência para a Igreja Católica no Brasil mas também para a política, para os avanços nos direitos dos povos indígenas, para as populações ribeirinhas e tantos outros; mas seu legado e sua marca continuarão sendo referência e incentivo para todos os que o conheceram ou ouviram sua história – ultrapassando as demarcações nacionais. Como resultado de toda uma vida de dedicação à Criação e aos filhos e criaturas de Deus, o velho Pedro foi enterrado como sempre desejou: na beira do rio Araguaia, de baixo de um pé de pequi, no Cemitério dos Karajá – mesmo local onde eram enterrados indígenas e trabalhadores sem terra que foram assassinados pelos grileiros da região; sendo até no seu próprio enterro, um exemplo de tudo que pregou e viveu.

O óbvio precisa ser dito e vivido e foi isso que Dom Pedro Casaldáliga fez. Que seu exemplo e suas lutas possam representar para todos nós a esperança da perseverança. E, como ele mesmo costumava dizer: “na dúvida, fique do lado dos pobres.”

Ana-Clara Fontenelle – Rio de Janeiro

Per chi suona la campana!

«Ogni morte di uomo mi diminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: essa suona per te» (E. Hemingway)

Non so quale idea abbiamo dell’umanità e del nostro essere parte dell’umanità non solo quando compie qualche impresa memorabile, ma specialmente nella quotidianità del morire e del morire più dimenticato.

Il vangelo di oggi (Mt 14,13-21) ci indica che ognuno di noi può avere una responsabilità grande e vivificante nell’affrontare il pericolo del morire di ogni uomo, prima che questo accada per una conseguenza naturale.

Parlo di morire perché il vangelo di oggi comincia con una morte e si conclude con il superamento del morire di una folla affamata.
Infatti, il vangelo comincia con il ricordo della morte di Giovanni e l’azione di Gesù che si ritira in luogo deserto per fermarsi a riflettere, per cercare di prendere la distanza da questo fatto drammatico che ha toccato il suo punto di riferimento, in un certo senso il suo alter ego: Giovanni Battista.

Il bisogno di preghiera di Gesù, che non è un episodio isolato ma una costante nei momenti cruciali della sua esistenza, è quel bisogno di prendere le distanze per capire come continuare a misurare la vita di tutti giorni. Non è un lavarsi le mani, ma un recuperare la propria responsabilità, capire se e come continuare l’opera di Giovanni.
Capire se e come continuare a prendersi cura di quelle folle senza pastore che dopo la morte di Giovanni andranno a cercare Gesù ovunque egli si trovi.
Il silenzio pieno di preghiera di Gesù è un silenzio per riconoscersi e per riconoscere, per capire qual è la propria vocazione e quali sono le persone di cui prendersi cura.
Di Gesù infatti non si dice che vuole guarire queste folle, ma che vuole prendersene “cura”, ha un atteggiamento … globale della loro persona.
La sua preghiera diventa un momento di riconoscimento della propria vocazione e della propria missione, sulla scia della testimonianza di Giovanni.
Non pensiamo però che questa preghiera sia un’istantanea, piuttosto è il frutto di un cammino che Matteo evidenzia più volte, un cammino che culminerà nel Getsemani.

Non sarà una preghiera che culmina nel benessere personale, in un ignoto nirvana individuale, ma in una rinnovata missione che culminerà nella condivisione del pane e dei pesci.
La vera preghiera cristiana sarà sempre una preghiera aperta, aperta alla … vita: veramente l’incontro con Dio si fa incontro con il prossimo, veramente il prossimo, il povero diventa segno (sacramento dirà Paolo VI) di Dio sulla terra, più del pane e del vino.

Ma dobbiamo ora sottolineare l’inadempienza dei discepoli, non per accanirci contro di loro, bensì per imparare dalla loro chiusura, dalla loro fatica ad aprirsi all’… incoscienza di Dio. I discepoli abituati come ogni uomo a fare i conti anche della carità qui vengono spiazzati dalla fiducia di Gesù nel Padre, da una fede senza misura. Il poco dell’uomo diventa il tanto di Dio.
Noi che siamo abituati a misurare la carità, dobbiamo invece oggi imparare a fare i conti con la carità di Dio; noi che abbiamo paura a dare qualche cosa di più di noi, qui siamo invitati a donarci e a donare quello che siamo e quello che abbiamo.
Non si può correre verso Dio se non si corre come matti anche verso il prossimo direbbe il nostro SAMZ.

La campana della vita, se non vuoi che resti una campana della morte, ricordati che suona sempre anche per te.
Questo significa sapere condividere 2 pani e 5 pesci.