4 chiacchiere con Francesco Costa sull’informazione per il 9 compleanno del nostro blog

Chiacchierata con Francesco Costa, vice direttore de ilPost.it per il 9 compleanno del nostro Blog

Celebrare un compleanno non significa soltanto contare gli anni; vuol dire anche dare senso e significato a quegli anni. Quelli passati e quelli che verranno. A ogni compleanno della nostra esistenza si fanno bilanci e propositi, si tirano somme e si progetta il futuro. E come per ogni compleanno che si rispetti, festeggiamo il nono anno di vita del nostro blog www.GiovaniBarnabiti.it, e della sua costola cartacea IlGiovaniBarnabiti, regalandoci una preziosa intervista a Francesco Costa, vicedirettore del Post.it, programmando impegni e coltivando sogni e speranze di dare voce al futuro.

Qualcuno potrebbe contestarci che sia un regalo troppo “laico” per la nostra testata, ma la tradizione barnabitica è sempre stata attenta all’incontro con il mondo intorno a sé per annunciare, per far conoscere, per imparare.

D’altra parte nella bella chiacchierata con Francesco Costa (Catania, 1984) emerge subito il dato per cui scrivere significa, prima di tutto, andare “oltre il proprio ombelico” per parlare di e con altri. È il primo consiglio che ci ha fornito Costa, in una breve riflessione sulla comunicazione, sul giornalismo odierno, con i suoi punti di forza e di debolezza, sulla scrittura come strumento per comprendere la complessità del reale.

«Scrivere, mettere inchiostro su carta – ha detto Costa – ci costringe a pensare a ciò che scriviamo, quindi a ragionarci, a confrontarci con le persone che abbiamo intorno, ci spinge a essere curiosi. Per questo può essere uno strumento molto utile per comprendere la realtà. Dovremmo provare a utilizzare la scrittura non soltanto per raccontare se stessi, ma anche per raccontare il prossimo. Attraverso la scrittura dovremmo provare ad esplorare mondi sconosciuti, ad andare oltre noi stessi, al di là di un esercizio da diario che definirei ombelicale».

In un mondo così complesso, bombardato di innumerevoli informazioni, dove anche le notizie si prestano a diventare terreno di scontro e non occasione di crescita, invitare i giovani a scrivere significa dare fiducia alle loro capacità, alla loro abilità di analisi e di prospettiva non inferiore a quella degli adulti, sottolinea Costa. E noi concordiamo: tenere aperto un blog, anche senza pretese immense deve essere l’occasione di educare a informazioni sempre fondate e ragionate. Educare all’informazione; rendere consapevole il lettore: è questa la vera sfida nell’attuale ecosistema informazione. “La rapidità dell’informazione – spiega Costa – che comunque considero un vasto arricchimento, ci ha disabituati al fatto che queste stesse informazioni andrebbero maneggiate con cautela, verificate. Non sempre il primo racconto, la prima testimonianza è quella vera. Inevitabilmente la velocità è nemica della precisione. Sono tutti elementi di cui il lettore deve essere consapevole”. Non per smettere di leggerle ma per essere per orientarsi e meglio comprendere.

«Non credo – continua – che i giovani siano più vittime di altri di questa complessità odierna delle informazioni. Anzi mi sembra che nelle abitudini di lettura ci sia nei giovani maggiore curiosità, maggiore voglia di comprendere come funziona la realtà, dunque un vantaggio in più rispetto a chi è più adulto».

Ma quanto la frammentarietà, aggiunta alla velocità dell’attuale ecosistema informazione, ne danneggia la qualità? «C’è sicuramente una crisi industriale – spiega – Meno soldi, meno pubblicità, dunque meno persone, meno tempo da dedicare alle cose, quindi meno qualità. Ma c’è anche – quasi come una conseguenza – una crisi professionale che si spiega con una diversa cultura del lavoro e con un approccio superficiale alle cose. La velocità probabilmente ha aggravato la situazione”.

In considerazione di questo scenario non possiamo che essere ancor più attenti ai giovani, specie a quelli che ancora vogliono – e ci chiedono – di pensare. Ma domandiamo: in che modo?

«Sicuramente coltivando la curiosità rispetto al mondo che ci circonda. Se pensiamo che informarsi sia importante, dobbiamo fare un piccolo investimento anche in termini di tempo: non possiamo pensare che la nostra informazione sia frutto soltanto di una selezione casuale di notizie. Che sia leggere un giornale, ascoltare un podcast, leggere libri: ognuno trovi lo strumento più adatto ai suoi interessi ma decida ogni giorno di fare qualcosa per la propria informazione. Perché sia utile».

Questa riflessione sul cercare il “tempo per” ci porta all’ultima domanda, forse la più impegnativa, come ci dirà il nostro interlocutore.

Il 27 maggio ricordiamo la canonizzazione del nostro Fondatore Antonio Maria Zaccaria (1502-1539), per noi una sorta di padre. Aldilà della dimensione specificamente religiosa che questa data ha per noi Barnabiti, e per le varie realtà legate alla nostra comunità, chiediamo a Francesco Costa, di quale paternità avrebbero bisogno – a suo parere – i giovani di oggi?

«È una domanda molto bella e impegnativa. Di una paternità che possa andare oltre l’idea biologica di paternità. Credo che i giovani abbiano bisogno di una paternità fondata sull’esempio. Mi sembra, da sempre, la cosa migliore che possano fare le persone adulte, quelle che hanno un ruolo di guida di una comunità, qualunque essa sia. Nei rapporti tra adulti e giovani l’esempio mi sembra la chiave fondamentale. Si può insegnare e parlare tantissimo, ma se manca il cuore non si trasmette ciò che si comunica».

Sarebbe stato interessante scambiarci altre idee, ma il tempo del lavoro e la saggezza di non volere il troppo ci hanno indotti ai saluti e a un ringraziamento reciproco per l’arricchente occasione di approfondimento.

Le riflessioni di Costa sulla necessità di trovare il tempo opportuno per l’approfondimento e la riflessione, l’idea di una paternità fondata sull’esempio, ben si legano a quello “stile zaccariano” annunciato dal nostro Fondatore.  Antonio Maria chiede infatti con forza di andare sempre alla profondità delle cose, di non restare nel campo della superficialità, della tiepidezza. Noi, con umiltà, impegno e costanza, ci proviamo. 

Grazie Francesco Costa e Buon compleanno GiovaniBarnbiti.it

pJgiannic e Raffaella DM

In carcere ho conosciuto Gesù

“Poichè ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi” Mt 25, 31-46

Il carcere può essere, per molti, un luogo oscuro, triste, dimenticato e crudele. Si pensa che lì si trova il peggio della società, coloro che, in molti casi, non meriterebbero neanche di essere chiamati “persone”.

Oggi voglio condividere un po’ della mia esperienza come membro del gruppo Kolbe, che è parte della pastorale penitenziaria della città di Mérida, nello stato dello Yucatán, Messico.

Visitai il carcere per la prima volta 6 anni fa, e devo ammettere che me lo immaginavo giusto come si vede nelle serie TV o nei film. Avevo molti dubbi e anche un poco di paura. Credo che la mia preoccupazione più grande era sapere che avrei dovuto conversare con le persone recluse lì dentro. Posso dire con sicurezza che quella prima visita mi cambiò la vita: ho capito, infatti, che l’amore di Dio trascende luoghi e circostanze. Incontrai un Dio che vive attraverso tutti i fratelli che si trovano nel carcere.

Ho capito che anche nei luoghi più oscuri, Dio è capace di illuminare e spargere il suo amore in ogni momento. Ho conosciuto persone straordinarie, persone che si rialzano tutti i giorni con l’unico obiettivo di cercare essere migliori di ieri, persone che lavorano e si sforzano di andare avanti in mezzo alla monotonia e alla povertà che caratterizzano la vita nel carcere.

Però, non tutto è di colore rosa. Ho incontrato anche tristezza, rabbia, ingiustizia, disperazione e sete di perdono per gli errori commessi in passato.

La pandemia fu, per noi del gruppo apostolico, una sfida e una opportunità di incontrare nuove forme per restare in contatto con questi nostri fratelli carcerati. Insomma, sono passati quasi 2 anni, nei quali non abbiamo potuto visitarli! Gli abbiamo mandato lettere, generi di prima necessità, dolci, messaggi, cartelloni,  abbiamo recitato rosari virtuali pregando per la loro salute, e moltre altre iniziative. Gesù ci regalò la creatività per rimanere vicino a loro nonostante la forzata distanza.

L’anno scorso, in dicembre, ci informarono che finalmente avremmo potuto visitare il carcere. Non posso descrivere la gioia che provai. Fu una visita incredibile, nella quale ho potuto constatare che tutte le preghiere che avevamo offerto per loro avevano dato frutto. Ci ricevettero con gioia e soprattutto con una grande speranza di andare avanti nonostante la pandemia. Fu come reincontrare un vecchio amico.

A partire da gennaio, a causa dell’arrivo della variante Omicron, le visite al carcere furono sospese di nuovo. Pertanto, siamo stati molto incerti sulla possibilità di poter realizzare la tradizionale missione in carcere nella settimana santa. Ma con la benedizione di Dio, sì, ci siamo riusciti!

Questa Settimana Santa abbiamo avuto l’opportunità di visitare il carcere il Giovedì, il Venerdì e il Sabato Santo. Con l’aiuto di tutti i gruppi apostolici che visitano il carcere siamo riusciti a portare ai fratelli privati di libertà più di 1200 pacchi di generi di prima necessità, realizzare le celebrazioni liturgiche tipiche di ogni giorno, conversare, proporre attività e soprattutto portare loro un messaggio di speranza: ricordando che Gesù è vivo e che non si trattiene nel dare misericordia e amore in abbondanza.

Il mio cuore è ricolmo di amore perchè nuovamente sono riuscita a incontrare Gesù in carcere. Prego che continui a benedire tutti i gruppi che con molta allegria e dedizione visitano le carceri di tutto il mondo.

Oggi voglio invitare anche te a darti una opportunità di visitare il carcere! Sono necessari molti giovani come te e me, che trovino il coraggio di portare allegria e speranza alle persone private di libertà. Non temere! Ti prometto che non è come te lo immagini!

Ringrazio anche padre Stefano per il suo appoggio, dedizione e amore a questa missione che gli toccò realizzare. Preghiamo per le vocazioni sacerdotali!

Per concludere, mi piacerebbe lesciare questo messaggio: il carcere non è un luogo dimenticato da Dio, è un luogo che ha bisogno delle nostre preghiere e soprattutto della nostra fede. Fiducia in tutte le persone che lo abitano e che si sforzano di essere migliori per, un giorno, reintegrarsi nella società.

Grazie mille e un saluto dal Messico!

Tere Montzerrat Polanco Núñez – Merida

photo by https://unsplash.com/@grant_durr

Blanco, un cantante a san Pietro

Lunedì 18 aprile, prima della Veglia con il pontefice, piazza San Pietro è stata il centro di un grande momento di festa. Dopo due anni di pandemia, don Michele Falabretti (responsabile dell’Ufficio nazionale della Cei per la pastorale giovanile) ha organizzato un concerto prima del momento di preghiera per il Lunedì dell’Angelo. L’evento, avvenuto in concomitanza con il forte pellegrinaggio dei laici, ha riscosso moltissimo successo sul pubblico giovanile (circa 57000), ma anche in quello adulto. I ragazzi sono stati accompagnati di fatto da numerosi adulti, per lo più educatori, sacerdoti, volontari e famigliari. Inoltre, successivamente all’annuncio che le udienze generali riprenderanno a tenersi nella Piazza, il concerto è segno di un ritorno alla normalità che manca ormai da troppi anni. Averlo organizzato in periodo pasquale è un modo per incoraggiare le persone a credere in Gesù; metaforicamente si può vedere in esso una nuova rinascita proprio come quella che Gesù ha mostrato ai credenti “vincendo le tenebre della morte” riprendendo il Papa.

Per l’occasione, è stato invitato Riccardo Fabbriconi, in arte Blanco, fresco vincitore del Festival di Sanremo 2022 nonché rappresentante, insieme a Mahmood, dell’Italia agli Eurovision Song Contest di Torino (martedì 10 e sabato 14 maggio. Aver scelto un volto noto come Blanco (oltre a lui erano presenti anche Giovanni Scifoni, Michele la Ginestra e Matteo Romano) è indubbiamente una mossa di apertura verso i più giovani che sempre più spesso si fanno condizionare dai grandi abbandonando gli oratori e i centri pastorali. Essendo Blanco la star del momento, scegliere una persona così significa anche da parte della Chiesa cercare di “riallacciare” i rapporti con un mondo giovanile sempre meno religioso e più ateo. Riccardo ha tatuato sul petto un angelo con una corona di spine, simbolo, spiegato dall’artista stesso che rappresenta la sua doppia natura: da una parte “bravo”, ma dall’altra “marcio”. L’angelo fa però intuire come la persona abbia avuto un’educazione religiosa e cristiana quindi avesse a che fare con l’evento organizzato dalla Chiesa. La sua esibizione è avvenuta in mondovisione, nel pomeriggio prima dell’arrivo di Papa Francesco. Tra i suoi brani ha portato Brividi, canzone vincitrice di Sanremo, e Blu Celeste, celebre canzone del suo omonimo album. Quest’ultima è un inno all’amore, l’arma più potente che l’uomo ha a disposizione. In questo caso, purtroppo è rivolto ad una persona che non c’è più e non ritorna.

“Quando il cielo si fa blu, penso solo a te. Chissà come stai lassù ogni notte. È blu celeste”

In tutto il brano l’artista ha sensi di colpa, si sfoga, salvo poi autoassolversi; concetto che si presta all’idea di perdono cristiano. Possiamo quindi affermare quasi sicuramente che la scelta di far cantare Blanco non sia stata dovuta al momento che sta vivendo, ma anche all’abilità di scrittura, profonda e sensibile di Riccardo che in qualche modo, nonostante la giovane età, può essere d’esempio per milioni di persone.

Marco Ciniero, Milano

UN RE CON I PIEDI SCALZI

Gesù non era sicuramente un uomo da pantofole!

Non puoi andare a Gerusalemme in pantofole, non puoi percorrere la via della Croce in pantofole. Forse puoi andare a piedi scalzi, ma in pantofole no!

A piedi scalzi certamente camminava Gesù, era un re con i piedi scalzi, forse per questo le folle mettono dei mantelli sulla sua strada, perché la gente semplice spesso sa cosa deve veramente fare.

A piedi scalzi, per questo Maria, la sua amica Maria cosparse di olio di Nardo i piedi di Gesù, piedi stanchi ma non abbastanza; un gesto che poi Gesù proporrà ai discepoli lavando loro i piedi nell’Ultima Cena.

Prima di andare a Gerusalemme Gesù si era fermato dai suoi amici Maria, Marta e Lazzaro per rinfrancarsi, per condividere i progetti e il cammino. Il valore dell’amicizia.

Gesù va a Gerusalemme con una regalità paradossale, è un re sul dorso di un asino, un re verso il quale religione e politica si oppongono, un re che non mischia Cesare e Dio.

È un re che fa semplicemente la volontà di Dio, che gode della fiducia di Dio perché vive della fiducia. E qui dovremmo domandarci se abbiamo e se offriamo fiducia, in chi riponiamo la nostra fiducia.

Quella di Gesù non è una fiducia passiva, ma attiva, che si sa incontrare i più poveri, dimenticati, oppressi e anche se tacessero i discepoli di fronte a ciò, griderebbero le pietre alle folle che cercano risposte; griderebbero le donne sulla strada della Croce, i due ladroni, le donne con Giuseppe d’Arimatea, quelle donne davanti al sepolcro vuoto.

Anche non vogliamo celebrare questa Santa Settimana da protagonisti: troviamo ogni giorno 10 minuti per rileggere e ascoltare la parola di Dio, per ascoltare la storia intorno a noi, non solo quando dice quello che vogliamo.

Anche noi vogliamo compiere piccoli gesti di pace con i quali lavare i piedi scalzi della nsotra umanità, perché solo così si costruisce la Pace.

«Il peccato del mondo – diceva tempo fa il Card. Martini – non deve essere minimizzato, né ridotto a debolezze personali. Il peccato del mondo è un appello a decidere. Chi si spinge in questa lotta al punto di accettare, come Gesù, svantaggi, ingiurie e sofferenza? Il mondo reclama a gran voce giovani coraggiosi… Io mi aspetto il rinnovamento soprattutto dai giovani… A volte i loro gesti di pace sono solo brace su cui dobbiamo soffiare per accendere il fuoco… Consegniamo ai nostri figli un mondo che non sia rovinato. Facciamo sì che siano radicati nella tradizione, soprattutto nella Bibbia. Leggiamo con loro. Abbiamo profonda fiducia in loro. Non dimentichiamo di dare loro anche dei limiti. Impareranno a sopportare difficoltà e ingiurie se per loro la giustizia conta di più di ogni altra cosa.» (Conversazioni notturne a Gerusalemme). Questo significa camminare con i piedi scalzi di Gesù.

Daniele e il clima di domani

Tra i giovani attivisti partecipanti della prima Cop-giovani di sempre, è stato affidato a Daniele Guadagnolo il compito di rappresentare l’Italia. Piemontese del 1993, laureato in economia alla Bicocca di Milano, è appassionato di comunicazione e particolarmente impegnato sull’emergenza climatica, dove si distingue per la capacità di coinvolgere i coetanei attraverso iniziative sempre molto concrete. Già invitato a partecipare ad eventi internazionali nel 2018 — dove ha preso parte alla United Nations Conference on Trade and Development di Ginevra — è oggi particolarmente attivo nell’ambito delle Conferenze per i giovani che periodicamente l’Onu organizza a livello sia globale che locale.

Daniele, la Cop26 ha portato i giovani al confronto diretto con i negoziati globali sul clima. Inizia così un dialogo intergenerazionale sul quale ci sono molte aspettative dell’opinione pubblica. Come farete ad essere incisivi di fronte a governanti impegnati da decenni in trattative così complesse?
Il lavoro sviluppato a livello individuale deve trasformarsi in un agire di gruppo. Dobbiamo avere una voce comune in modo da accrescere la forza delle nostre proposte. Dobbiamo politiche sul cambiamento climatico la Cop rappresenta il tavolo di lavoro più importante a livello mondiale. Non solo perché è promosso dalle Nazioni Unite e riconosciuto da tutti i Paesi, ma anche perché offre la possibilità di un confronto concreto su problemi e possibili soluzioni. A questo appuntamento siamo arrivati attraverso incontri internazionali — Conference of Youth — e nazionali — Local Conference of Youth — dedicati interamente ai giovani. Qui abbiamo sviluppato una crescita sia personale che generazionale. Credo che non ci faremo sfuggire l’occasione storica che abbiamo di sollevare le nostre istanze a Glasgow come negli anni a venire.

Dunque quali sono le sfide che i giovani lanciano ai grandi della Terra?
Innanzitutto intendiamo sostenere il tema dell’ambizione climatica, che deve crescere su scala locale, nazionale e globale; in secondo luogo lavoreremo sulla crisi economica generata dal covid e su come uscirne attraverso strategie di sviluppo sostenibile come la transazione energetica, la resilienza e le soluzioni basate sulla natura; ci è stata anche affidata una riflessione sul coinvolgimento di attori non istituzionali ponendo tra gli altri i temi dell’imprenditorialità giovanile, dello sport e dell’arte; e allo stesso tempo siamo parte attiva sui progetti volti a costruire una società più consapevole attraverso l’educazione ambientale, la sensibilizzazione e un sempre maggiore coinvolgimento sociale.
La possibilità di un confronto con i ministri delle Cop è un fattore di grande speranza. È l’occasione migliore che abbiamo per mettere in luce idee, progetti ed iniziative sviluppati da noi giovani con l’obbiettivo di impattare sulle decisioni politiche che in ogni caso ricadranno su di noi. Penso che questo evento restituisca alla storia un legame tra le generazioni che è indispensabile per produrre buone e giuste pratiche. Questa è la sfida più importante, perché solo così si potrà produrre il cambiamento necessario.

Daniele, partecipare a questi eventi dell’Onu è per te un’opportunità straordinaria. Come ti sei avvicinato a questo mondo?
È stata molto importante l’esperienza avuta a Ginevra nel 2018, quando sono stato invitato a partecipare alla United Nations Conference on Trade and Development con un gruppo di ragazzi di ogni provenienza. È stata un’occasione importante per approfondire i temi dello sviluppo sostenibile e ne sono uscito, non solo formato sull’argomento, ma anche con una grande voglia di fare qualcosa di concreto per il nostro pianeta. Tornato in Italia, insieme ad altri, abbiamo fondato la Youth Action Hubs, un movimento globale creato dai giovani per i giovani che ha avuto il supporto delle Nazioni Unite. Nello stesso anno abbiamo visto da vicino la Cop24 in Polonia, avendo modo di conoscere tanti altri ragazzi che dedicano il loro tempo alla salvaguardia dell’ambiente. Colpiti positivamente da quest’esperienza, con i miei compagni di viaggio abbiamo lavorato per portare a Firenze la Local Conference of Youth dove si è parlato degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030. Questo impegno mi ha regalato un’emozione unica. Mi sono sentito soddisfatto di ciò che stavo facendo e, considerata la partecipazione di tanti altri ragazzi, credo di aver prodotto risultati anche in termini di coinvolgimento. È a questo punto che abbiamo fatto nascere Change for Planet, un’organizzazione no-profit impegnata ad accelerare lo sviluppo sostenibile e a lavorare sull’alfabetizzazione climatica. Spero tanto che anche grazie a questo nostro piccolo impegno si arrivi, tutti insieme, ad assicurare un futuro al nostro pianeta.

da Osservatore Romano 30 settembre 2021, di LUCREZIA TUCCILLO, Progetto giovani e ambiente di Earth Day Italia

Buon compleanno GiovaniBarnabiti.it dal cardinal Matteo Zuppi

Cari GiovaniBarnabiti.it buon 7° compleanno!

Con tante idee e non pochi sforzi di organizzazione eccoci a un altro compleanno che quest’anno vogliamo festeggiare chiacchierando con don Matteo Zuppi, cardinale di Bologna che gentilmente mi ha accolto per parlare di … comunicazione e giovani. Grazie cardinal Matteo da tutti i GiovaniBarnabiti.

Ma grazie a tutti coloro che ci stanno aiutando come scrittori e come lettori!

Buongiorno don Matteo, grazie per l’accoglienza tra i suoi mille impegni! E al dono che ci porge per festeggiare il 7° compleanno di una piccola produzione comunicativa.

I barnabiti hanno sempre coltivato la cultura specialmente tra i giovani; a dei giovani che vogliono scrivere, ragionare, comunicare questo cosa augurerebbe o cosa chiederebbe?

Innanzitutto di sottrarsi alla logica digitale, perché molte volte purtroppo la logica digitale condiziona anche lo scrivere. Lo stile, il modo in cui si descrivono le situazioni o le preoccupazioni che si vogliono condividere, con la scrittura mostra una estraneazione da sé e quindi una introspezione necessari per comunicare ad altri. Dobbiamo saper scrivere senza la logica di “chi arriva prima”, con una certa velocità che distrugge la profondità. È necessaria una comunicazione che davvero metta al centro il contenuto pur ugualmente trovando una capacità di comprensione, un’efficacia di trasmissione che raccolga tutto il fatto.

In un momento come questo della pandemia, penso che dobbiamo, possiamo anzi, condividere i tanti modi con cui abbiamo vissuto tutti la stessa situazione; una condivisione profonda dei vari sentimenti e reazioni, delle varie fatiche e considerazioni senz’altro aiuta a non far passare invano questo tempo così drammaticamente importante.

Noi non siamo dei giornalisti certificati, scriviamo per hobby, ma riteniamo che questa fatica sia necessaria e utile; scriveva un mio amico gesuita: “la fatica della riflessione è la fatica di essere liberi e aiuta altri a diventare liberi”: cosa pensa di questa affermazione così forte?

Giustissima perché la riflessione aiuta un’auto coscienza, una consapevolezza e la comprensione delle cose della storia del mondo nella quale altrimenti si finisce prigionieri o catturati dallo spazio e non dal tempo, per riprendere sempre le così tanto efficaci indicazioni dell’enciclica “Evangelii Gaudium”. È chiaro che è importante anche la comunicazione perché questa deve trasmettere, ecco il nodo, la profondità.

Davvero l’uomo oggi fatica a riflettere, a ragionare o questo forse è solo un ritornello?

Facciamo più fatica perché siamo digitali perché c’è un uomo digitale che si sta formando che in qualche modo già qualche volta scambia la rapidità della comunicazione per la profondità della comunicazione o la quantità di comunicazione per la conoscenza. Facciamo più fatica perché siamo compulsivi mentre, al contrario, c’è tanto bisogno di tempo per una comprensione profonda del comunicare e dell’ascoltare. Spesso poi evitiamo le fatiche in senso stretto, pensiamo che si possa arrivare immediatamente al risultato: non è così, soprattutto quando si devono comunicare le cose vere e profonde della vita, della persona.

Mi colpisce per esempio nell’enciclica “Fratelli tutti” il commento così intelligente sul buon samaritano; papa Francesco dice: “Che cosa ha regalato il samaritano al malcapitato?”. Il tempo, perché c’è bisogno di tempo, non è che ti regalo una prestazione di servizio e con la ottimizzazione “prima faccio meglio è”, no! Ti regalo il tempo che è anche un modo per non buttarlo da un altro punto di vista, perché poi in realtà l’uomo digitale butta via un sacco di tempo.

Ma i giovani oggi, quelli che riesce a frequentare o vedere, per certi versi fanno molta più fatica di quando avevamo noi 15/17 anni?

Io direi diversa. Diversa perché da una parte fanno meno fatica in quanto comunicano moltissimo, per certi versi molto di più di quanto comunicavamo noi; c’è una quantità di comunicazione, di emozioni, superiore e diverse. Io mando le foto, mando i miei racconti, mando la musica, mando tutti i modi per comunicare qualcosa di me; non è scrivere una lettera, no, che richiedeva però anche un altro tipo fatica. Da una parte si fa meno fatica dall’altra parte si fa più fatica perché troppe volte siamo molto nell’emozionale. Ma noi dobbiamo sempre passare dall’emozionale all’interiore altrimenti si vivono tante emozioni e non riusciamo a farne tesoro qui è la vera sfida, qui la fatica per non saltare il sapere ineludibile della profondità delle cose.

A questo proposito poiché i ragazzi faticano a parlare anche faccia a faccia ho scritto e inviato una lettera personale: tanto stupore ma nessuno ha risposto!

Certamente la comunicazione, l’emozionale l’interiorità è un mondo importante, qui però si apre il problema non solo di una comunicazione migliore, ma anche di una comunicazione falsa. Come riuscire a evitare le notizie false su di sé, sulla vita intorno a noi?

E questa è una delle grandi sfide perché apre all’utilizzo del discernimento. Ci sono delle esperienze che sicuramente ci aiutano in questo, perché molte volte distinguere le fake dalle vere news non è facile, però dopo l’esperienza ti dà qualche indicazione in più, qualche parametro in più, per non accettare tutto come vero.

Forse siamo anche talmente immersi di notizie che ci diventa difficile…

Ci sono anche delle fake news che oltre a essere distorte sono anche quelle che non servono a niente. Se tu sei uno che si informa e quindi hai i riferimenti dati dalla cultura è più facile capire le notizie false dalle vere, se invece sei ignorante, se non conosci il mondo, la storia intorno a te, è molto più facile credere a qualunque cosa, essere molto più vulnerabile.

All’opposto del falso c’è la verità: in poche parole può dire qualcosa sulla verità o cos’è la verità?

Questa è una bellissima domanda che qualcuno fece un po’ a sé stesso e un po’ a Gesù. È una domanda a cui diamo una risposta pratica ma può sembrare una domanda filosofica, e lo è anche. La filosofia ci aiuta nell’arte della vita, a non perdersi nel ragionamento, in quel ragionamento che molte volte fa coincidere la verità solo con quello che ho, con quello che io sento, con quello che io possiedo.

La verità per noi cristiani è Gesù: questa è un enorme liberazione, sia dalle finte verità di noi stessi sia dalle terribili e spietate verità di noi stessi perché poi ad un certo punto possono anche diventare spietate quando ci dobbiamo confrontare con i nostri limiti. Che la verità sia Gesù ci aiuta non a scappare ma a misurarci con lo sguardo molto più largo, molto più profondo verso noi stessi di quello di cui noi stessi siamo capaci. Una verità che non è moralista è una verità che ricorda ma anche sa andare oltre e una verità aperta non è mai una verità chiusa, compiuta e ripeto, una verità non moralista. Molte volte il moralismo fa credere di capire la verità dell’altro, spesso invece è un modo per allontanare l’altro.

Aprendo una parentesi, sono d’accordo sulla verità aperta, ma la difficoltà è che non sempre nell’interlocutore trovi questa capacità di aprirsi. Lo vediamo forse anche in questo dibattito sul decreto Zan: la linea di molti cristiani o anche di Avvenire è una linea, comunque, di confronto e di dialogo che però non sempre si riscontra dall’altra parte.

Il fatto è che nel passato abbiamo costruito troppi muri e pochi ponti, mentre la capacità di dialogare richiede anche un superamento di sé, la capacità di andare oltre i propri parametri, oltre le proprie “verità” per questo che la verità sia in Gesù e Gesù è qualcosa che ci aiuta diciamo così a saperla cercare, a saper cogliere la verità dell’altro.

I giovani faranno più fatica o meno a cercare la verità?

I giovani come tutti quanti noi facciamo una gran fatica quando non la cerchiamo perché diventiamo prigionieri di noi stessi. Quando poi la verità diventa “io” è terribile, perché non è vera, perché è distorta. Ma se siamo in maniera anche molto faticosa alla ricerca di qualche orientamento che appunto spieghi, che risponda, questa è la verità, per cui penso che per fortuna per noi la verità è Gesù.

Costruire ponti è faticoso ma necessario. Devo chiederglielo per forza, per quale motivo i giovani fanno così fatica a credere oggi in Dio e si allontanano dalla Chiesa?

Ci possono essere varie risposte, uno, per la semplice fatica che facciamo tutti quanti noi, perché nostro Signore ci lascia liberi e quindi dobbiamo saper scegliere, e qualche volta non sappiamo scegliere, perché credere in Dio non è mettersi una camicia, non è schiacciare un bottone, non è mettere una firma, è una scelta interiore, in questo senso, non ci deve scandalizzare che ci sia sempre una fatica. Poi c’è la fatica della Chiesa, per cui molte volte molti dicono “io credo in Dio non credo nella Chiesa”, non si ha Dio come Padre se non c’è la Chiesa come Madre e qualche volta la Chiesa ha dato testimonianza negativa e questo chiaramente allontana.

Questa fatica credo faccia parte di un cammino anche ciclico della Chiesa che però può diventare l’occasione per una riforma più forte più sicura…

Questo lo speriamo perché ce n’è un grande bisogno, soprattutto di maggiore autenticità purché espressa con vicinanza, non umiliando l’altro. La vicinanza non significa compromesso, non significa svendita. Io sono vicino proprio perché non ho timore, perché sono qualcosa che non ho timore di perdere.

Con questo invito a una autenticità vicina all’altro chiudiamo il nostro incontro, ma apriamo un rinnovato lavoro per tutti noi e per il nostro blog. Grazie don Matteo e … buon compleanno GiovaniBarnabiti.it

Ragionare?

Ciao,
“Ragionare”, “ragiona ancora le gente oggi?”.

L’argomento non è semplicissimo, cerco di buttare giù qualche idea.
Cosa si intende per “GENTE”, le masse? Sono convinta che la “Gente” di oggi non sia diversa da quella di altri momenti storici. C’è chi ha una sua idea, convinzione e la porta avanti ragionando sugli eventi e agendo di conseguenza e c’è chi si fa trascinare dalla massa e dalle tendenze e non ragiona ma fa quello che fanno tutti, ma questo succede oggi come succedeva un tempo.

Forse oggi i media, i social rendono tutti un po’ più facili da condizionare o suggestionare, ma non dobbiamo confondere i giovani che si lasciano trascinare in piazza per risse e pestaggi, che non perdono occasioni per far assembramenti per la movida anche in tempi di Covid, con il fatto che la “Gente”, i giovani non ragionino. Io trovo che è più facile vedere questo che giovani impegnati e maturi. Ho modo di confrontarmi con giovani della mia età e affrontare argomenti su cui ragionare e non mi sento assolutamente di poter affermare che oggi la Gente/i giovani non ragionano.
Io e i giovani miei coetanei viviamo il nostro tempo, con le sue bellezze e le sue contraddizioni. Certo la situazione imposta dalla pandemia ha reso e rende tutto più complicato, i limiti all’incontro alla socialità, ad approfondire e rinsaldare, grazie alla frequentazione la conoscenza rapporti di vera amicizia dei coetanei.
Ma i valori e le certezze su cui ho fondato la mia vita rimangono saldi e sono quelli che mi guidano e impongono le mie scelte.

La nostra generazione forse più di altre sta pagando le scelte della scorsa generazione, con meno valori che spesso hanno portato alla disgregazione delle famiglie, spesso mi trovo a confronto con giovani che vivono, o hanno vissuto a fasi alterne con il papà e con la mamma e che nel loro futuro, non avendo, alle spalle un modello di famiglia, non ne sentono la necessità di formarne una loro o non prendono proprio in considerazione. Allo stesso modo il concetto di fedeltà o legame affettivo che non sempre è vissuto come un valore. Ma ci sono anche giovani che con coraggio e determinazione hanno le idee molto chiare e sanno fare e portare avanti scelte responsabili e coraggiose per se stessi e per gli atri, impegnandosi nel volontariato, nel sociale e sfruttando le tante occasioni di bisogno che si sono create per poter dare una mano. L’immigrazione, la povertà, il disagio sociale danno ai giovani anche l’occasione per viver con maggior apertura, rispetto alle generazioni passate, la conoscenza e l’integrazione con l’atro se vissute nel modo corretto.

Liliana O. 21, Lodi

il furto delle stagioni

Cosa resterà dell’oggi ai giovani occidentali?
Sollecitato dalla perturbazione causata dalle restrizioni per far fronte all’epidemia e alla nuova ondata che ha investito l’Europa nelle ultime settimane provo a indagare la condizione attuale da una prospettiva inedita. Non voglio commentare o giudicare le scelte dei governi europei, tantomeno quanti sono deceduti ovvero gli uomini e le donne che ogni giorno lavorano per tenere in piedi i sistemi sanitari del “nostro” Vecchio Continente e gli ammalati gravemente sofferenti. Tutto ciò va trattato dalle persone competenti, io cercherò invece di scrive di qualcosa che conosco meglio.
Cercherò di scrutare la prospettiva, la condizione, la potenziale sofferenza silente, di un segmento della popolazione. Uno spaccato di cittadinanza residua, a tratti invisibile, demograficamente minoritaria e tuttavia legittima proprietaria del futuro del mondo. Naturalmente mi riferisco a una parte specifica della gioventù europea: gli studenti, i dottorandi, i neo-laureati, i maturandi che ambiscono a divenire fisici, chimici, magistrati, biologi, consoli, artisti e così via. Se è vero che le sofferenze, oggi, investono maggiormente i piccoli-medi imprenditori, dipendenti e lavoratori, è vero anche che ciò non delegittima né può sminuire l’inquietudine che investe le gioventù europee, ossia il nostro futuro. Chiaramente, a questo punto, diviene legittima una domanda: “ma perché mai, questi ragazzi, dovrebbero soffrire?”. Purtroppo, o per fortuna, non tutti sono angosciati per ragioni calcolabili matematicamente. Se gli adulti, e nello specifico i lavoratori, costituiscono la loro esistenza sull’equilibro del calcolo e sul garante personificato dal Signor Reddito Adeguato (e immutato), per un giovane studente non è così. Se l’adulto riesce a fare della stabilità il proprio Dio; la giovinezza, invece, ha la prospettiva –l’ambizione- come solo e unico argomento. E cosa accade, allora, a questi ragazzi che giustamente si vedono barricati nelle loro case? Perché il “restare a casa” dovrebbe essere così drammatico per loro –noi-?
Prima di rispondere a questa domanda, credo sia opportuno compiere una precisazione. La giovinezza, nutrendosi esclusivamente di avvenire e di ambizioni, risulta essere –e questo è risaputo- una delle fasi della vita più intense e complesse di ogni esistenza. In una condizione ordinaria, quasi sempre, vi sono dubbi, rimorsi, sensi di colpa, incertezze e paure (tutto ciò, in solitudine, diviene asfissiante). A uno studente universitario può sfuggire il presente, ma non il futuro. In senso pratico ciò significa quanto segue: in età giovanile si fa molta fatica a comprende che cosa e, soprattutto, chi si è. L’adulto, invece, giovando del fatto di possedere già un passato –e quindi un vissuto-, non può avere determinati dubbi in merito. Può impoverirsi, sì; può perdere il lavoro, è vero; certamente, però, è molto più difficile che smarrisca se stesso e che non sappia più rispondere alla domanda “chi sono, io?”. Ai nostri ragazzi, in questo tempo, può accadere quanto detto. L’inquietudine, derivante dall’isolamento e dalla distanza siderale dal proprio “contesto”, ingombra e annebbia le menti. E quindi vi è un rischio di rinuncia all’ambizione, di smarrimento e deperimento della spinta esistenziale e vitale. La tragedia, la morte, può essere anche psicologica, non solo organica. Indubbiamente il momento storico è complesso per tutti noi, ciononostante bisogna non ignorare né sottovalutare la totalità delle questioni.
Ho scritto per dare voce a delle dinamiche, a delle conseguenze, che altrimenti resterebbero ignorate solo perché non organicamente danneggiate dal virus. In definitiva, nessuno può fingere di dimenticare ciò: se l’adulto ha la salute come necessità primaria della propria esistenza, la giovinezza ha il futuro come solo argomento. Perché se è vero che tutti godono degli stessi diritti, è vero anche che nessuno possiede il diritto di non ascoltare e non considerare qualsivoglia forma di sofferenza –sia pure minoritaria, non patologica o meramente psichica-.

Giuseppe P., Aversa

PREGIUDIZI SULLA CHIESA? brevi annotazioni sulla necessità di generare il futuro.

«Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dètte la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla?».

F. Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125

Nell’atrio di questo millennio, che l’Occidente si appresta a vivere, che cos’è, cosa può essere e soprattutto cosa non potrà più essere deputata a fare, l’istituzione ecclesiastica, “baluardo” del nostro Vecchio Continente?
Non è importante, in questa sede, dibattere sui classici – e seduttivi – argomenti concernenti l’esistenza o l’inesistenza di Dio, il significato dell’esser fedeli, i meriti e i demeriti storici della cristianità e così via. Il punto essenziale, il crocevia, è il seguente: la Chiesa, il Vaticano, come si percepisce nel nostro tempo? Ora che siamo distanti ormai vent’anni dal secolo scorso, in che modo il mondo cattolico e mutato e quanto, ancora, muterà? Gli europei, come i cattolici, per fortuna o purtroppo, non possono ignorare determinati quesiti. Il motivo di ciò? Non esisterebbe l’Europa – la nostra, amata, Europa – se non esistesse il cristianesimo e viceversa. Sulla base di questo dato imprescindibile – il quale potrà essere confermato da chiunque si sia occupato, nel corso della sua esistenza, di discipline storiche, filosofiche e teologiche – non possiamo continuare a fingere di non vedere e non capire.
Al di là di quanto i governi e i cittadini europei ne possano dire, è impossibile non far caso alla forte crisi politica, culturale e antropologica, che tutti noi stiamo vivendo. Questo senso di disincanto, disorientamento e disillusione, ovviamente non può che coinvolgere anche la Chiesa alla quale, però, bisogna riconoscere che è da ormai un decennio che sta tentando disperatamente di restare aggrappata a un mondo che nessuno – veramente nessuno – riesce più a comprendere. Tuttavia, anche il mondo cattolico sta pagando a caro prezzo la vertigine della trasformazione antropologica che l’intero pianeta sta attraversando.
L’Occidente, dopo il 1989, ha dato progressivamente l’impressione di aver smarrito la bussola: crisi delle cosiddette socialdemocrazie, dissoluzione e disincanto nei confronti di qualsivoglia ideologia politica e ridimensionamento brutale del potere ecclesiastico. Tutto ciò, innegabilmente, ha incrementato il senso di smarrimento in tutti coloro i quali sono venuti al mondo a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio. L’opinione pubblica e gli organi d’informazione cercano le cause nella mancanza di occupazione che – a causa delle crisi economiche – avrebbe obliato nelle menti dei giovani l’idea di uno stralcio d’avvenire. Questo, in parte e solo in piccola parte, è vero. Bisogna considerare, però, che ci troviamo dinanzi a un cane che si morde la coda. Bene, la causa dei nostri mali va cercata proprio nell’assenza di luoghi dove cercare ristoro.
Tralasciando la questione politico-antropologica, vorrei concentrarmi sulla figura e sul luogo che può rappresentare la Chiesa. Non importa se Dio esiste o meno, ciò che conta è la domanda che un individuo nell’oggi può porre a Dio. Ogni tipo d’interesse, ogni forma di desiderio, amore e ammirazione, non è nient’altro che la formulazione di un quesito. Il fatto che qualcuno abbia assistito al collasso di un qualche tipo di ideologia politica certifica un fatto: quell’ideologia non era più in grado di rispondere, e forse neppure di accogliere, la domanda dell’interlocutore. Quest’ultimo, allo stesso tempo, ha rinunciato persino a formulare il quesito: “ma tutto ciò, alla fine, che senso ha? Meglio lasciar perdere. Che vada tutto in malora”.
Nei confronti della cristianità, dal mio punto di vista, è andata più o meno allo stesso modo. L’istituzione ecclesiastica, nella percezione comune, non è più in grado di rispondere ai più svariati quesiti. Tutto questo, però, è un dramma.
Una volta che abbiamo obliato il tutto – e, quindi, niente più ideologie, niente più Dio né religione – cosa ci resta? Che cosa siamo? Temo che ci resti il nulla e che, conseguentemente, non possiamo che scoprire d’esser divenuti un grande – seducente e amabile – niente.
La Chiesa accusa i giovani di non avere valori, mentre i giovani, al contrario, accusano il mondo cattolico di essere afflitto da un sistema valoriale anacronistico: un cane che si morde la coda, ripeto! Comunque, questa condizione, fa male indistintamente a tutti. Bisogna tentare necessariamente di distruggere entrambi i pregiudizi: le giovani generazioni devo smetterla d’immaginare la figura del cristiano come una figura fuori dal tempo e dal mondo; i cristiani, i sacerdoti, non devono dare più modo ai giovani di pensarli come obsoleti. Aprirsi al dialogo, alla diversità, alla differenza, aprirsi persino allo scontro. Essere disposti ad accettare le contraddizioni e le incoerenze. Solo attraverso una forma di caos produttivo, oggi, potrà germogliare una nuova idea di mondo, di casa, di futuro. Offrire l’avvenire, un pensiero, un paradiso che sia qui –nei corpi e nelle menti- e non solo in cielo!
La cristianità, del resto, dispone di armi potentissime – quali l’arte e la bellezza – per rigenerarsi. Il compito, oggi, spetta a tutti i seminaristi, a tutti coloro che si apprestano a divenire sacerdoti, ma anche ai cristiani giovani, sono loro il futuro della cristianità e solo formando in modo impeccabile i nuovi apostoli di Dio, Dio stesso riuscirà a non morire. I nuovi cattolici, i futuri signori di Dio, hanno il dovere di pensarsi come i “custodi del divenire”, affinché il nulla – che un tempo fu immaginato dalla Chiesa nelle vesti del Diavolo – possa finalmente cessare di tediare le nostre primavere.

Giuseppe P. – Aversa

Rinia shqiptare, La gioventù albanese

Rinia shqiptare, e ardhmja pa të ardhme
La gioventù albanese, il futuro senza futuro

Di Redjon Lleshaj – Milot

Shqipëria vazhdon të mbetet një ndër vendet e para në Europë për papunësinë e të rinjve, emigrimin dhe varfërinë studentore.
L’Albania continua a rimanere uno dei primi paesi in Europa per la disoccupazione dei giovani, l’emigrazione e la povertà studentesca.

Krahas impenjimit me përkushtim në thellimin e reformave në vend, për të dalë nga tranzicioni, vendi ynë ka nevojë për një frymë të re, për një mentalitet të ri qeverisës të personifikuar me demokracinë moderne perëndimore. Frymën e re dhe mentalitetin e ri askush nuk e përfaqëson më mirë se rinia, që po shkollohet duke marrë eksperienca të drejtpërdrejta akademike dhe jetësore në demokracitë perëndimore.
A parte il grande impegno per mandare avanti le nuove riforme nel paese, per uscire dalla transizione, l’Albania ha bisogno di una nuova aria, per una nuova mentalità nel governare come le “moderne democrazie dell’Occidente”. La nuova aria e la nuova mentalità nessuno le può rappresentare meglio dei giovani, che stanno studiando e facendo esperienze accademiche e di vita nelle democrazie dell’Ovest.

Ne jemi ndër vendet e pakta të demokracive perëndimore, ku rinia nuk ka asnjë lloj roli në vendimmarrje, si dhe nuk përbën forcën rinovuese të vendit, po tenton të largohet nga atdheu. Të rinjtë që kanë studiuar duke investuar mundin e tyre familjet shqiptare, me sakrifica dhe vështirësi të shumta financiare, ku janë vlerësuar vlera të larta intelektuale, me nivele të lakmueshme edhe në fushën e formimit akademik, si dhe me aftësi të jashtëzakonshme integruese në jetën e shoqërisë së vendit, nuk vlerësohen dhe përkrahen as nga shoqëria as nga organizmat shtetërore.
Noi siamo uno dei pochi paesi democratici dove la gioventù non ha nessun ruolo nelle decisioni, ma anche non funge da forza innovatrice del paese, solo tenta la fuga dalla patria. I giovani che hanno studiato investendo il sacrificio umano e finanziario delle loro famiglie, pur avendo sviluppato grandi valori intellettuali e abilità nell’integrarsi nella vita sociale del paese, non sono apprezzati e tantomeno aiutati dalla società e dalle istituzioni albanesi.

Prandaj, kjo rini që mbart vlera përparuese, zhvillimi dhe demokratizuese, duhet jo vetëm të vlerësohet, ashtu siç e meriton nga politika dhe shteti shqiptar, por edhe të përkrahet dhe të mbështetet për t’i dhënë hapësirat e domosdoshme, ku mund të japë ndihmën e saj në mënyrë të veçantë për të shtyrë vendin drejt integrimt europian.
Per questo questa gioventù con i suoi valori progressisti e democratici, non solo va valorizzata con merito dalla politica e dallo stato albanese, ma anche aiutata per avere gli spazi necessari in cui offrire il suo contributo specialmente per favorire l’integrazione europea.

Një shoqëri e zhvilluar, mirëfilli, “merr frymë” nga të rinjtë. Të rinjtë janë mundësia për të ecur përpara. Ato janë zhvillimi, përparimi, progresi i një kombi të zhvilluar, me një histori të lavdishme.
Una società sviluppata come si deve, “respira” grazie ai giovani. I giovani sono la possibilità per andare avanti. Loro sono lo sviluppo, il futuro, il progresso in una nazione sviluppata, con una storia gloriosa.

Shpresat për një të ardhme më të mirë, përpara se t’i mbysim ne, po i shkel vetë koha! Ne nuk kërkojmë idealen, as që e synojmë të mirën absolute. Duhet thjesht të rrëzojmë murin që kemi ngritur rreth vetes, sepse jeta e secilit nga ne është betonizuar , ndërkaq egoizmi është i përhapur edhe jashtë kufijve të tij. Është e rëndë të thuhet se numri i studentëve që largohen nga ky vend rritet çdo ditë e më shumë, sepse dëshirat e tyre nuk përputhen me atë se çfarë ky vend ofron.
Non i giovani, ma il tempo, sta cancellando le speranze per un futuro migliore. I giovani albanesi non cercano l’ideale o il bene assoluto, ma soltanto vogliono abbattere quel muro creato intorno a loro che ha cementificato il vivere quotidiano, che ha aumentato l’egoismo. È difficile ammetterlo, ma il numero degli studenti che si allontana da questo paese aumenta quotidianamente, perché il loro desiderio non combacia con ciò che gli viene offerto dall’Albania.

Largohen sepse këtu mungon kultura e mirëfilltë politike, parimet intelektuale e moralizuese, shoqëria e mirëfilltë demokratike dhe rruga civilizuese me parime të sigurta. Dita-ditës kuptojmë se jeta nuk është plot dritë, egozimi ka mbyllur gjithkënd në vetvete dhe nuk dimë më se çfarë kërkojmë, nuk dimë të dallojmë çfarë është e bukur dhe nuk bëjmë asgjë me ideal e pasion.
Si allontanano perché mancano la vera cultura politica, i principi intellettuali e morali, la vera democrazia necessari per una strada verso la civiltà. Giorno dopo giorno i giovani capiscono che la vita non è piena di luce, che l’egoismo rinchiude e non si riconosce cosa cercare, cosa è bello, come fare le cose con ideali e passione.

Për të dalë prej “botës së errësuar” drejt një bote më të civilizuar, drejt botës së artit, drejt asaj bote ku kultivohet dija, duhet rikthyer vullneti dhe dinjiteti i rinisë universitare: ajo paraqet fortifikatën bazë të dijes dhe zhvillimit, ndaj duhet vënë në ballë të proceseve të një kombi.
Per uscire da questo “mondo oscuro” verso uno più civilizzato, verso il mondo dell’arte, della sapienza, bisogna riconoscere la volontà e la dignità ai giovani universitari: questo processo di attenzione va posto ai primi posti nella crescita di una nazione.

Ne si studentë do të duhej të bartim mbi supe pjesë të peshës së rëndë të një kombi, ndaj duhet shfrytëzuar energjia dinamike që kemi, për të krijuar vlera kulturore dhe shkencore, të cilat do jenë shtysë e përparmit dhe barazimit me kombet e zhvilluara të botës.
Noi, in qualità di studenti, dovremmo reggere sulle spalle gran parte del peso di una nazione, per questo bisogna sfruttare la nostra energia dinamica per creare quei valori culturali e scientifici che saranno la spinta dello sviluppo e dell’uguaglianza in sintonia con le altre nazioni sviluppate nel mondo.

Duhet të jemi të vendosur dhe të bindur se vendi ynë meriton të jetë si vendet e tjera në Europë. Të rinjtë intelektualë, me ndryshim nga paraardhësit e tyre, janë ata që do ta drejtojnë Shqipërinë, atdheun e tyre, një politikë ndryshe, në këtë mijëvjeçar të ri, por sigurisht duke u përkrahur nga shoqëria dhe opinioni publik mbarëpopullor.
Dobbiamo essere decisi e convinti che il nostro paese merita di essere come gli altri paesi dell’Europa. I giovani intellettuali, a differenza dei loro predecessori, sono quelli che devono guidare l’Albania, la loro patria, una diversa politica, in questo nuovo millennio, ma ovviamente con l’appoggio della società e dell’opinione pubblica a livello nazionale.