¡Adelante 2023! Campamentos de Verano

¡Adelante 2023! Campamento de verano. Con questo motto comincia ufficialmente la nostra avventure con i PP. Barnabitas di Mérida – Yucatán, in Messico. Pubblichiamo volentieri le attese di quattro nostri volontari tra i 9 che vivranno questa opportunità.

Quando hai 18 anni l’estate rappresenta la libertà, le uscite con gli amici, le prime vacanze insieme e anche io immaginavo che avrei passato la mia estate così. Poi mi è stata presentato un viaggio in Messico, da volontario, in una missione di padri Barnabiti: non ci ho messo molto a cambiare idea!
Inizialmente, ero molto indeciso perché significava, e significa tuttora, intraprendere il primo viaggio all’estero da solo, ma le preoccupazioni non si limitano solo a questo; gli usi e costumi diversi potrebbero rappresentare un ostacolo difficile da superare, per non parlare della lingua della quale conosco solo poche parole. Credo però che tutto ciò sia un “rischio” che vale la pena correre, perché esperienze del genere, alla mia età, capitano una volta sola nella vita e spero siano sia formative a livello personale che a livello di interazioni con gli altri. Inoltre sono convinto che vedere e poter toccare con mano la povertà e le difficoltà delle altre popolazioni possa darmi un’apertura mentale che ad oggi, in un mondo che tende sempre di più all’egoismo e al benestare personale, è una caratteristica fondamentale da possedere. Quindi alla domanda di padre Giannicola “perché hai scelto di imbarcarti in questa avventura” rispondo: per poter migliorare, come persona e come giovane uomo, e, nel mio piccolo, sperando di poter dare una mano prestandomi ad ogni servizio necessario.
Michele LaD. – Bologna

Ad agosto 2023, nonostante la mia giovane età, mi accingerò a vivere un’esperienza destinata a segnarmi per tutta la vita. L’opportunità di intraprendere un viaggio del genere è sempre stato un sogno per me. Fin da piccolo, infatti, mi sono impegnato nel cercare di aiutare il prossimo, ma nessuna attività di volontariato a cui ho partecipato può essere paragonata a questa futura esperienza.
Recarsi in un luogo tanto lontano quanto culturalmente diverso sarà profondamente formativo, mi aiuterà a crescere e a maturare. Sarà un viaggio indimenticabile, nel quale migliorerò il mio senso empatico e nel quale vivrò in prima persona le difficoltà con cui alcune persone sono abituate a vivere. Spero vivamente di poter dare il mio contributo alle comunità che incontreremo, pur essendo consapevole delle difficoltà che potremmo incontrare. Finalmente sarò in grado di aiutare veramente qualcuno, recandomi proprio nei luoghi di necessità. Probabilmente, per intraprendere un viaggio del genere a soli 18 anni, è necessario un po’ di coraggio e di inconsapevolezza, ma la possibilità di essere realmente utile nel corso della mia vita è un impulso più forte delle paure.
In poche parole, tra pochi mesi vivrò quello che il piccolo me ha sempre sognato, e la speranza è quella di essere all’altezza per tutto ciò che mi verrà richiesto.
Arturo M. – Bologna

Sono sempre stata affascinata dalle esperienze di volontariato, di chi volava oltreoceano per spendere il proprio tempo aiutando altre persone, per trasmettere la propria cultura e tradizione, o semplicemente per far divertire bambini ma anche adulti che quotidianamente si trovano a contatto con una realtà alquanto diversa e complicata rispetto alla nostra, ma altrettanto affascinante.
Quest’anno si è presentata anche a me l’occasione di poter vivere un’esperienza di questo genere, più precisamente un’esperienza di volontariato in Messico, Mérida, con i Padri Barnabiti.
Nonostante si tratti di un lungo viaggio, carico di impegno e sacrificio, non ho esitato un istante a confermare la mia presenza per aderire al progetto.
Nell’istante in cui mi è giunta la proposta, ho sentito dentro di me il senso del dovere che ho sempre avuto nei confronti del volontariato, ho capito che era il momento di approfondire e allargare il mio percorso, partito dal servizio prestato presso la mensa dei poveri della città di Como, a un viaggio oltreoceano che avrebbe lasciato dentro di me un segno indelebile.
Credo che l’obiettivo del viaggio, insieme ad altri giovani, sarà quello di ideare e organizzare attività che possano stimolare i bambini soprattutto a livello sociale e nell’ambito dell’apprendimento, tramite il gioco, canzoni e laboratori all’aria aperta.
Da questo viaggio mi aspetto di tornare una persona nuova ma soprattutto arricchita: sono sicura che lo spirito genuino, in particolare dei bambini, mi riempirà di gioia, facendomi capire che si può trovare la spensieratezza e la felicità dell’infanzia anche nelle circostanze più difficili.
Questi i miei propositi per partire e imbarcarmi in un viaggio in cui metterò tutto il mio impegno e la mia forza, per dare il mio contributo e fare la differenza nella vita mia e di alcune persone.
Lucrezia Sammartano – Como

15 giorni a Merida (Messico) impegnati a svolgere attività di animazione per i bambini del posto insieme a un gruppo di ragazzi italiani e altri giovani delle comunità locali dei Padri Barnabiti?
Quando penso a questo straordinario viaggio, sono pervaso da una grande emozione, perché so che questa esperienza cambierà la mia vita e lascerà un’impronta indelebile nel mio cuore. Non posso fare a meno di pensare a tutti quei sorrisi che vedrò e all’energia contagiosa delle persone che incontrerò lungo il mio percorso. Sento che saranno loro ad arricchire me, molto più di quanto potrò fare io per loro.
Immagino i volti curiosi dei bambini mentre condivido con loro momenti di gioco, creatività e
divertimento. Mi chiedo quali siano le loro storie, i loro sogni e speranze. Sono ansioso di immergermi nella loro cultura, di imparare dalle loro tradizioni e di scoprire nuovi modi di vedere il mondo attraverso i loro occhi.
Allo stesso tempo, ammetto che c’è un po’ ansia che mi accompagna, ma credo sia normale sentirsi così quando ci si avventura in territori sconosciuti.
La consapevolezza di avere l’opportunità di fare la differenza nella vita di questi bambini mi riempie di gratitudine. Forse non sarà tutto facile, ma ho fiducia nelle mie capacità e nel supporto degli altri ragazzi che mi accompagneranno in questa avventura.
Mentre mi preparo a partire, mi concentro su ciò che posso offrire e su come posso contribuire a creare un impatto positivo. Sono pieno di speranza e desiderio di rendere questi momenti speciali, di condividere amore, gioia e sorrisi con tutte le persone che incontrerò in queste due settimane.
Quindi, con un bagaglio pieno di entusiasmo e un cuore aperto, mi avvio verso Mèrida, pronto a iniziare questa straordinaria avventura. Non vedo l’ora di lasciare un’impronta duratura e di creare ricordi che porterò con me per tutta la vita.
Riccardo S. – Lodi

MORIRE O VIVERE DI PASQUA

Ma tra Tutto e Niente non può esistere grigio. Non c’è compromesso.
Io. Ogni cosa. Si è figli del Tutto, o figli del Niente.
Da una parte, Dio. Dall’altra, il Caos. (Daniele Mencarelli, Sempre tornare)
La vita finisce con la nostra morte o continua in qualche modo?
Abbiamo celebrato la Pasqua da qualche giorno, l’evento che ci immette nell’eternità, nell’immortalità.
Si può credere nell’eternità, in una vita rinnovata, rigenerata, risorta: viva nonostante la morte biologica?
Vivere da risorti, vivere dopo la morte, un argomento che può interessare ma non fa parte del pensare quotidiano.
Ne ho parlato con alcuni studenti del 4 anno. La discussione è stata interessante, anche se difficile, ma ogni tanto se qualche cosa è difficile forse significa che vale. Non può essere che tutto sia sempre molto accessibile e senza ricerca. La vita in sé è difficile, non impossibile, ma difficile da comprendere nella sua totalità: non può essere altrettanto anche per la vita risorta?
La confusione tra risurrezione e reincarnazione è molto presente, far comprendere la differenza abissale non è facile. Il principale dato da evidenziare a questo proposito è che la risurrezione, la vita risorta riguarda tutto il nostro corpo; la reincarnazione riguarda una parte di noi, l’anima che andrebbe vagando alla ricerca di un altro corpo dove dimorare. La risurrezione riguarda l’originale unicità della storia di ognuno; la reincarnazione perde la propria originalità e unicità, l’essenza di sé si perde in altro.
Il bisogno di immortalità è proprio della persona, da sempre l’uomo e la donna vogliono lasciare un segno di sé proprio perché sanno di dover morire.
Andri Snær Magnason ne Il tempo e l’acqua racconta che ognuno di noi porta con sé la memoria consapevole di almeno 8 generazioni prima e dopo, un modo per raccontare il bisogno di immortalità!
Nella fede cristiana l’uomo non è immortale, però la morte non è l’ultima parola: l’uomo è fatto per l’eternità, perché Dio è eterno, perché Cristo ha portato su di sé la morte per rendere l’uomo e la donna eterni. Gesù è l’epilogo della preoccupazione di Dio del prendersi cura dell’uomo. Dio si cura dell’uomo. Dio è immortale, al di là della condizione di debolezza e di fragilità dell’uomo; Dio è capace di chinarsi sull’uomo e di prendersene la responsabilità, di dargli gloria e un compito, di entrare in relazione dialogica con lui. È la sicurezza di questo dialogo che dona vita e apre alla vita per sempre.
Questa parola di vita diventa vita e dona vita attraverso il Battesimo. Proprio nel rito di immersione nell’acqua del Battesimo il credente muore e rinasce. Nel battesimo l’uomo della vita solo naturale muore, si lascia la morte alle spalle, e rinasce con la vita di Cristo, la vita eterna, non nel senso che non morirà (anche Cristo è morto), ma che, come è accaduto al Figlio di Dio, la morte non avrà mai l’ultima parola.
La maggior parte dei giovani di oggi non ha paura della vita, però vive una vita di paura, una vita che non vuole pensare alla morte eppure con la morte diretta o indiretta ci gioca. Probabilmente anche perché non ha più presente il sapore della vita risorta. Forse perché i cristiani per primi faticano a riconoscere e raccontare la Pasqua come l’evento fondamentale e portatore di vita. Se è così l’umanità, i più giovani come possono affrontare la morte?
Il battesimo è il modo di Dio di prendersi cura dell’uomo e della donna facendoli partecipare alla vita di Dio: tutti gli eventi di morte sono per lui episodi «di passaggio», cioè di parto, di rinascita.
Il battesimo inaugura questa possibilità di rinascere sempre, ma è compito del credente renderla sempre più cosciente e attiva, realizzandola nella sua storia in modo unico e originale. Per se stesso e per gli uomini e le donne amate dal Signore che vivono tra le nostre strade.

L’IRANIANA VIDA DIBA: MI IMPEGNO PER SOSTENERE LA LOTTA ALLA LIBERTÀ NEL MIO PAESE

Da diversi mesi le cronache sono affollate di drammatiche notizie dell’Iran e del suo popolo, alle prese con una vastissima ondata di proteste. Una vera e propria rivoluzione che abbiamo provato a raccontare con l’aiuto di un occhio esperto, conoscitore consapevole delle dinamiche di quella parte di mondo. 

Vida Diba è una donna iraniana, residente in Italia da più di 10 anni. Oggi è product manager presso la società Wrad, un brand di design e moda sostenibile. Vida ci racconta che venire in Italia è sempre stato il suo sogno sin da bambina. Un sogno che realizza con impegno, programmandolo passo dopo passo: gli studi in Iran, fino alla laurea, poi il trasferimento in Italia.

 «Cosa ti ha spinto fin da piccola a desiderare un altro posto dove vivere?»

«Diversi motivi. Vivevo una situazione di disagio: non vivevo bene in Iran, non c’era un bel clima, mi sentivo come se fossi una persona di troppo. Mi veniva detto che dovevo andarmene, che se qualcosa non mi andava bene, avrei fatto meglio ad andar via dal mio paese. Mi sentivo diversa rispetto a molti altri: volevo essere libera, volevo uscire, avere un ragazzo, poter lavorare anche con i ragazzi, tutte cose normali che in Iran vengono viste come strane, sbagliate. Per ogni limite che mi veniva imposto, sentivo il desiderio di oltrepassarlo. Ogni volta che mi dicevano ciò che le donne devono e non devono fare, io sentivo la voglia di fare tutto ciò che mi era proibito. Ho sempre cercato di dire quello che pensavo, ma dovevo spesso dire bugie perché non sempre si può dire la verità. Non puoi dire “io sono”, devi dire “io devo essere”».

Nel 2009, nel periodo delle proteste del movimento Verde in Iran, Vida scende in piazza a manifestare. «Volevo far sentire la mia voce, ma sono stata picchiata e fermata diverse volte dalla polizia morale. Una volta – racconta-, mentre ero in taxi con mio fratello, ci hanno fermati e interrogati per il modo in cui eravamo vestiti. In quegli anni ho capito che non potevo più vivere lì, che dovevo andare via. Mi sentivo chiusa in gabbia, non mi sentivo tratta come una persona. Così ho deciso di venire in Italia».

In Italia Vida si è subito sentita a casa: «era il paradiso dove volevo vivere».Da quando è arrivata non ha mai parlato dell’Iran. «Avevo paura per me e per la mia famiglia; mi chiedevo perché proprio io avrei dovuto parlare e raccontare ciò che accadeva».

Con l’arresto e l’uccisione della giovane Masha Amini, il 13 settembre 2022, in Vida è cambiato qualcosa. Lei stessa racconta che quell’episodio è stato come un’esplosione, una prorompente necessità di raccontare la verità. «Di colpo volevo parlare, volevo avere anche io il coraggio di queste donne ed essere al loro fianco nelle loro proteste», dice.

«Cosa hai deciso di fare quindi?»

«Ho iniziato ad andare in giro, in scuole e università. Ho cercato di utilizzare al meglio il mio lavoro per sensibilizzare l’opinione pubblica su queste tematiche. Da quattro anni lavoro con Wrad e in tutto questo tempo ho sempre parlato di sostenibilità ambientale nel mondo della moda. Ora è giunto il momento di iniziare a parlare anche dell’Iran, portando avanti diversi progetti.

Collaborando con il gruppo di Fashion Revolution Iran, ad esempio, abbiamo notato che in Iran centinaia di migliaia di artisti e artigiani hanno smesso di lavorare. In questo modo riescono ad essere accanto ai manifestanti, seppur non in piazza, e non alimentano economicamente il regime iraniano. Grazie all’aiuto di Vogue Italia, abbiamo deciso di agire con una call to action: chiediamo a tutti gli artisti italiani e europei di mandarci un’opera d’arte che racconti la sofferenza e la tragedia di quanto sta accadendo, ma anche la bellezza di queste persone e di questo popolo in lotta, che cerca di cambiare le cose. Il loro è un grido universale di libertà, il loro motto “Donna, vita e libertà” è rivolto a tutte le persone nel mondo.  E sono proprio queste le parole che abbiamo scelto come filo conduttore per le opere che chiediamo di inviarci: tra quelle che riceveremo, ne sceglieremo venti che saranno esposte in mostra a Milano, per raccogliere fondi e aiutare gli artisti in Iran».

«Cosa ne pensi di quanto accaduto fino a questo momento nel tuo paese? Credi che la strada percorrere sia ancora molto lunga?»

«Non possiamo fermarci! Tante cose sono cambiate, molti politici occidentali si stanno confrontando con l’opposizione politica ancora presente in Iran. Le persone devono capire che una rivoluzione di questa portata richiede tempo: vorremmo che le cose accadessero velocemente, ma niente può accadere con tale rapidità».

«Quale è la situazione per le donne in Iran, e perché c’è tutto questo accanimento nei loro confronti?»

«Il tasso di alfabetizzazione delle donne in Iran è molto alto, oltre il 97%; tra queste la maggior parte, circa il 70%, sono laureate in materie STEM: scienza, tecnologia, ingegneria e matematica! Sono donne consapevoli, intelligenti, conoscono il mondo che le circonda. Pertanto si chiedono perché non possano avere la stessa libertà degli altri. Se lo chiedono e non trovano vere risposte, e quindi combattono per ottenere i loro diritti.

Per questo fanno paura a un governo che conosce bene il loro potenziale: se una donna ha potere, l’avranno anche i suoi figli, mentre se una donna è ignorante, lo saranno anche i figli. Ecco perché hanno paura delle madri e non dei padri. Sono queste la molla per moltissimi altri cambiamenti sociali.

Tutte le donne intelligenti vengono imprigionate appena iniziano a parlare e a esprimere ciò che pensano, come accaduto in passato a Shirin Ebadi, vincitrice del premio Nobel per la pace».

Vida riflette ad alta voce su quanto che sta accadendo di recente con gli avvelenamenti seriali nelle scuole femminili: «decine di bambine vengono avvelenate. Questo governo ha paura di bambine di sette anni perché ha paura della bellezza, della felicità, perché è un regime del terrore. Questa rivoluzione – conclude – non riguarda il velo, che resta comunque soltanto un simbolo. Questa – dice – è una rivoluzione che riguarda tutti: gli uomini e le donne, l’ecosistema, gli animali, gli esseri viventi in generale verso i quali non c’è alcuna pietà. È al contempo una rivoluzione economica, le persone non hanno il cibo e vivono in povertà. Non possiamo più permetterlo. Dunque, perché non cambiare proprio ora».

Giulia Centauro

QUARESIMA GREEN

INTERVISTA A JACOPO FINAZZO

Un giornale polemico scriveva: Il giornale del papa (Osservatore Romano del 22 febbraio, inizio di Quaresima) invita a una quaresima Green: non esistono più digiuno, preghiera e carità! La Chiesa ha perso i propri valori!

Con questa citazione introduciamo l’intervista a Jacopo Finazzo, come nostro contributo ai Friday for future 2023.

Cosa significa “green”?
Si potrebbe dire che il termine “green” sia oggi un termine con uno spettro di significato così ampio che risulta difficile da inquadrare con una classica definizione da dizionario. Personalmente ritengo che quando parliamo di “green” ci riferiamo a un certo tipo di comportamento, abitudine o applicazione per una molteplicità di ambiti, tuttavia con lo stesso obiettivo finale ovvero quello di far sì che la nostra presenza e il nostro impatto sul pianeta Terra sia il più “neutrale” possibile. Se prendiamo come esempio la nostra sfera personale, possiamo definire essere “green” con azioni che già conosciamo e forse adottiamo quotidianamente come il risparmio delle risorse, la sensibilità nel trattamento e riutilizzo dei materiali che impieghiamo, ma anche la capacità di intraprendere scelte consapevoli in base all’effetto che queste possono avere sul nostro ecosistema. In effetti, che tali comportamenti vengano adottati o no, con l’idea di “green” oggi sicuramente possiamo in parte definire il carattere della società contemporanea, specialmente se paragonandolo con la storia meno recente.

Dimenticavo: presentati.
Mi chiamo Jacopo Finazzo, sono nato tra le campagne di Siena ma ho vissuto gran parte della mia vita a Firenze. Qui ho completato i miei studi superiori e nel 2019 ho conseguito la laurea triennale in Ingegneria Elettronica e delle Telecomunicazioni, con una tesi incentrata sullo studio di un particolare tipo di cella fotovoltaica detta “Cella di Grätzel”. Spinto da questo lavoro di Tesi, ho accresciuto la mia passione per lo studio delle tecnologie per la produzione di energia rinnovabile, la quale mi ha portato ad intraprendere un Master of Science in Sustainable Energy Technology presso la Delft University of Technology, nei Paesi Bassi. Qui ho avuto l’incredibile fortuna di trovarmi in un ambiente estremamente stimolante, colmo di futuri ingegneri appassionati come me di scienza, tecnologia e soprattutto dell’industria dell’energia del futuro.

Non credi che il Green Think sia una moda per affrontare un problema che non esiste?
Come tutti i comportamenti che vengono adottati in massa quasi come un costume, è facile definire il pensiero ecologico come una moda, specialmente poi quando si formano anche le correnti di pensiero opposte o contrarie. Tuttavia definire il riscaldamento globale come un problema che non esiste sarebbe un errore grave. Siamo tutti testimoni dei cambiamenti che il clima e il pianeta stanno subendo negli ultimi anni, e che purtroppo sono solamente un assaggio di che cosa potrebbe accadere se non riusciamo a migliorarci. Per cui che lo si definisca una moda o altro, basta che il Green Think venga applicato e possibilmente che riesca a diventare parte di noi permanentemente.

Che lavoro fai?
Al momento lavoro come ingegnere fotovoltaico presso Huawei, che molti conosceranno come una multinazionale che commercializza prodotti di consumo come telefoni, computer, etc… In realtà già da diverso tempo, come tante altre aziende, Huawei si è impegnata ad espandere il proprio business domain per includere prodotti per l’energia sostenibile, grazie alla capacità di investire nella ricerca di tecnologie sempre più efficienti. In particolare, nel mio ambito mi trovo a lavorare con clienti sia in ambito residenziale che industriale per supportarli nella realizzazione di impianti fotovoltaici e di batterie in modo da rendere le loro attività quanto più sostenibili possibili, oltre che indipendenti da un punto di vista energetico. La maggior parte dei progetti tuttavia coinvolgono grandi produttori di energia elettrica che tramite la costruzione di parchi solari, stanno virando in maniera decisa verso l’obiettivo del 100% rinnovabile.

È veramente possibile annientare le emissioni?
In teoria, è certamente possibile arrivare ad una società che non abbia emissioni. Tuttavia, l’obiettivo più realistico a cui si punta adesso è la cosiddetta “carbon neutrality”, ovvero la capacità far sì che l’impatto di tutte le attività umane sul pianeta sia neutrale dal punto di vista di emissioni di gas serra. Questo è realizzabile in diversi modi, ma non è così semplice come si potrebbe credere. Sulla carta, si tratta di semplice matematica: immettiamo una certa quantità di gas serra, per poi toglierla successivamente. Esistono delle tecnologie dette Carbon Capture Technologies, che sono in grado di catturare la CO2 dall’atmosfera e che in teoria potrebbero addirittura aiutare a portare in negativo la crescita di CO2 nell’aria. Tuttavia queste tecnologie sono ancora in fase di sviluppo. Per il momento, il trend globale è quello di rendere tutti i nostri processi e le attività più efficienti possibili e senza l’utilizzo di combustibili fossili, in modo da richiedere meno energia e ridurre la quantità di emissioni prodotte, in controtendenza con gli ultimi decenni in cui la crescita spropositata della società ha fatto esplodere le emissioni a livello globale. Solo con l’avanzamento della scienza e la tecnologia saremo in grado di assicurarci che queste emissioni giungano a zero.

Se ne sai qualche cosa, cosa pensi del blocco produzione auto non elettriche il 2034?
Da un punto di vista tecno-ecologico è sicuramente un risultato interessante. Personalmente ritengo sarebbe apprezzabile riuscire un giorno a camminare per le strade delle proprie città senza sentire l’odore sgradevole dei gas di scarico dei tir o delle macchine, per non parlare di quanto ci ringrazierebbero i nostri polmoni. È tuttavia necessario intraprendere questa strada verso l’elettrico in maniera molto responsabile. L’auto elettrica deve diventare economicamente sostenibile per il cittadino medio, l’infrastruttura energetica delle nazioni deve drasticamente cambiare per fare spazio a centinaia di migliaia di veicoli che hanno bisogno giornaliero di energia elettrica per la ricarica, e soprattutto ci vogliono tanti investimenti nella ricerca per migliorare le attuali tecnologie impiegate nell’auto elettrica, in particolare delle batterie utilizzate, per renderle facilmente riciclabili, sostenibili da produrre e meno costose.

Per quanto ne sai nel passato ci sono stati passaggi analoghi che possano insegnarci qualche cosa?
Il passato ha tanto da insegnarci su come le società si sono evolute con l’arrivo di nuove tecnologie o abitudini volte a migliorare la qualità della vita delle persone. Tuttavia, credo che quello che sta succedendo adesso sia una cosa nuova per tutti, e dal passato possiamo solo prendere qualche spunto. Per la prima volta l’uomo si trova a doversi adattare e reagire a un problema di carattere globale che coinvolgerà, prima o poi, qualsiasi aspetto della nostra vita. E seduto al tavolo con noi c’è un giocatore dalle reazioni alquanto imprevedibili, ovvero il pianeta. È una sfida estremamente difficile e le probabilità di successo ad essere sinceri non sono neanche troppo dalla nostra parte. Però è la nostra occasione per crescere come civiltà, e superare questa sfida vorrebbe dire dimostrare di essere realmente evoluti come ci vantiamo di essere.

Quali passi hai imparato (se ti interessano) per una vita più attenta / green, quali vorresti / dovresti impararne ancora?
Nonostante il mio interesse per la sostenibilità, devo ammettere che condurre una vita green al 100% è molto complicato. Sono tanti i piccoli dettagli e gli aspetti a cui magari anche involontariamente non facciamo caso che però portano a sbagliare. Personalmente cerco di concentrarmi sull’utilizzo responsabile delle risorse, tra cui acqua, luce, riscaldamento ma anche cibo e materiali da riciclare. Tra le attività più difficili da evitare sicuramente abbiamo i mezzi di trasporto. Non tutto è affrontabile con un mezzo di trasporto pubblico o con un mezzo alternativo che inquini di meno (parlando ad esempio di trasporto aereo). E sicuramente vorrei porre ancora più attenzione nell’evitare di alimentare l’aspetto meno ecologico del nostro istinto un po’ capitalista che ci porta a comprare oggetti nuovi sempre più spesso. Il mio sogno poi è rendere la mia abitazione indipendente dal punto di vista energetico grazie a pannelli solari e batterie per la riserva.

Un consiglio per altri comuni cittadini?
Il mio consiglio principale è quello di informarsi il più possibile sul mondo delle tecnologie per l’energia sostenibile e formarsi una propria idea a riguardo, che sia concordante o meno. È importante per i cittadini sapere come il nostro sistema energetico sta cambiando, quali sono le difficoltà e quali saranno i vantaggi, oltre che ad essere molto interessante. Riguardo la sfera personale, cercare di mantenere abitudini responsabili verso il pianeta poi è ovviamente un’azione che seppur piccola può voler dire molto.

CADERE

Nelle nostre vite può accadere di tutto e tutti ovviamente speriamo in avvenimenti felici e opportunità che ci permettono di avere una vita facile e di cui vantarci con gli amici davanti a una tazza di caffè o a una buona pizza e birra. Ma è tutta speranza e apparenza perché la realtà dei fatti è che ognuno di noi cade per motivi diversi e ci ritroviamo a dover affrontare eventi che segneranno a vita il nostro percorso.
Riuscire ad alzarsi e “sopravvivere” ai traumi che comportano molte volte queste cadute, sia fisiche che psicologiche, è faticoso e non sempre si riesce a dimenticare o a perdonare il motivo di tale sofferenza ma la perseveranza e il lavorare su se stessi sono molte volte l’inizio della guarigione.
Una delle cadute peggiori che una persona deve affrontare è la violenza, che sia su donne uomini o bambini.
Le vittime di violenza perdono la speranza, si chiudono in se stesse domandandosi “perché proprio io?” oppure “dov’è Dio?”. In queste situazioni si tende a percorrere due strade: il rifiuto e il disprezzo nella fede o la scoperta di amore che va al di sopra di quello carnale; quello di Dio.
Il rifiuto verso Dio è dovuto alla sofferenza e alla sensazione di abbandono che si prova nelle situazioni dolorose; mentre la scoperta della fede è un’ancora alla quale le persone si attaccano con tutta la loro forza per riuscire a superare tutto quello che hanno passato. Come hanno fatto dei giovani ragazzi di Kinshasa, che davanti al Papa hanno avuto la forza di raccontare le loro drammatiche esperienze per dare esempio ad altre persone che hanno affrontato o stanno ancora affrontando tali torture.
Credo che in ogni caso il primo passo verso l’inizio di una nuova vita debba partire dall’accettare e perdonare. Non per forza dal perdonare il proprio carnefice, ma dal perdonare e dall’accettare noi stessi per come siamo; le nostre debolezze e le nostre forze che ci aiutano a proseguire il nostro percorso di vita.
Martina C. – Bologna 3 les

490 anni!

«È proprio dei grandi cuori mettersi al servizio degli altri senza ricompensa e combattere non in vista della paga»

Era il 18 febbraio 1533 quando a Bologna Papa Clemente VII concedeva, al cremonese Sant’Antonio Maria Zaccaria, il Breve di Approvazione dei Chierici Regolari di S. Paolo, che i milanesi chiameranno poi Barnabiti dal nome della loro prima sede, la chiesa milanese di S. Barnaba. È uno dei più antichi ordini di chierici regolari nella storia della Chiesa e ad esso partecipano anche l’istituto religioso delle Suore Angeliche di San Paolo, congregazione parallela a quella maschile dei Barnabiti, e i Laici di S. Paolo. L’Ordine ha quindi anticipato e, in un certo senso, anche preannunciato la Riforma cattolica nei confronti della Riforma protestante in Europa.
I primi gruppi erano assiduamente dediti a poveri, ammalati e ai giovani. Nei decenni successivi, la continua ricerca della santità e il notevole altruismo con il quale i gruppi barnabitici erano conosciuti, ha coinvolto ed affascinato le aristocrazie, nonché il ceto medio borghese, delle cittadine lombarde. Ad oggi, son passati 490 anni da quel giorno e si può affermare con certezza che “qualcosina” è stato fatto. Ad esempio, il prefetto dell’Archivio Segreto del Vaticano è il barnabita padre Sergio Pagano. Preferisco però soffermarmi maggiormente su ciò che i Chierici Regolari lasciano a chi li conosce da vicino piuttosto che sulle figure politiche-religiose.
I Barnabiti si trovano difatti in tutto il mondo, anche dove l’intolleranza religiosa e la violenza sono la normalità per gli abitanti del posto: dalle Americhe (USA, Messico, Brasile, Argentina e Cile) fino all’Asia (Filippine, India, Indonesia e Afghanistan) passando per l’Africa (RD Congo e Ruanda e Tanzania) con numerose comunità nonché case religiose. Come allora, la missione dei Padri è quella di prendersi cura della gioventù negli oratori e nelle scuole. Contribuiscono infatti alla formazione umana, insegnando ai ragazzi non soltanto conoscenze teoriche, ma anche valori spirituali e cristiani. E questo perché la scuola, come voleva il Fondatore, è vista da sempre come uno strumento prezioso di evangelizzazione e promozione umana.
Come ha rilasciato in molte interviste padre Pasquale Riillo, si può pensare che parte del successo, e aggiungerei anche dell’umiltà, di Parini, Manzoni e Montale sia avvenuto sì grazie alla loro genialità, ma anche per una educazione basata sulle nozioni scolastiche, ma quasi sicuramente anche su valori come il rispetto, l’educazione e la disciplina, fondamentali per la vita di tutti i giorni.
Insieme a mio fratello ho avuto la fortuna di essere cresciuto in un ambiente barnabitico. In realtà, è una situazione che si ripete da diverse generazioni perché molti nostri parenti hanno studiato dai Barnabiti presso il Collegio San Francesco di Lodi. Ai tempi di padre Fiore e padre Mancini, quando mia madre e mio zio erano dei giovani adolescenti, il Collegio registrava molti iscritti ed era molto rinomato nell’ambiente Lombardo. Erano circa 700 alunni, per lo più convittori e cioè studenti che vivevano nella struttura ecclesiastica, che frequentavano. Il ricordo che si portano dietro di quegli anni è molto positivo, spesso ci raccontano di storie che succedevano a scuola oppure nel convitto e nei chiostri. Ne accadevano di ogni colore, erano altri tempi e tutti ci ridevano sopra per quello che veniva commesso. Questo faceva sì che si creasse anche uno spirito di appartenenza e di grande famiglia allargata, oggi parleremmo di teambuilding, tra gli studenti che prima di essere compagni di scuola o di camera erano amici nella vita quotidiana. Per Lodi giravano sempre insieme, tutta la città li riconosceva ed era un po’ come quello che adesso vediamo nelle serie tv ambientate nei college americani. Molti di loro sono rimasti tutt’ora amici, altri invece si sono persi, ma quando ci sono gli incontri degli ex alunni, si riconoscono e ridono ancora insieme raccontandosi le vicende del SanFra. Le generazioni successive, come la mia o quella di mio fratello, non hanno potuto purtroppo godere gli anni migliori per via della crisi religiosa che ha colpito la Chiesa e di conseguenza anche il Collegio. Gli iscritti sono drasticamente calati per diversi motivi sui quali non mi voglio tanto soffermare, ma tra i quali possiamo annoverare un corpo docente laico che non ha la stessa passione e grinta posseduta dai sacerdoti, un disinteresse generale verso la cultura e anche una società meno religiosa. Tutto questo porta una famiglia a non investire tanto economicamente in una scuola paritaria e per una educazione ecclesiastica. Nonostante ciò, posso lo stesso dire che i principi e i sani valori non si sono persi con il tempo e, seppur in un numero più ristretto, le persone cercano e portano ancora avanti le opere apostoliche dei Barnabiti. Il volontariato, ricordiamo l’affermazione con la quale
«È proprio dei grandi cuori mettersi al servizio degli altri senza ricompensa e combattere non in vista della paga», così Sant’Antonio Maria Zaccaria ha voluto spiegare la visione del suo Ordine. Qui attinge anche l’attuale volontariato zaccariano che grazie al dialogo tra vecchie e nuove leve i Padri riescono ad avere iniziative più smart per raccogliere fondi e raggiungere lo stesso tutte le classi della società attuale. Ne è un esempio l’iniziativa pasquale che trovate sul nostro Blog www.giovanibarnabiti.it, con la quale attraverso l’offerta di colombe artigianali si cerca di raccogliere dei fondi per il progetto “dona un futuro” per bambini di Merida in Messico, attività estiva dei giovani volontari zaccariani con i Padri e i giovani del posto.
I tempi cambiano e di conseguenza anche le persone devono evolversi e adattarsi. Posso affermare, con il consenso anche di alcuni miei ex compagni nonché amici, che i padri si sono adattati bene e riescono a tenere unite le persone sotto un unico grande tetto senza distinzioni tra gli Ordini o tra le città di provenienza. Quando ci si vede sembra di conoscersi da molto tempo e nessun altro istituto lo può insegnare, anzi tantissimi compagni di classe finita la scuola non si cercano più. Qui addirittura studenti di diverse età e diverse strutture barnabitiche chiacchierano insieme come se nulla fosse. Pensate, sembra scontato, ma con l’avvento di Internet la comunità giovanile è ancora più unita e coesa anche al di fuori dei propri confini nazionali. Come se prima di essere italiani, brasiliani o indiani fossimo barnabiti; penso fosse stata proprio questa la volontà del Fondatore.
Marco C. – Milano

SUICIDI IN CARCERE

Il tema dei suicidi è molto delicato, sia che si tratti di persone detenute che di persone in libertà. Riguarda la salute mentale e la salute dell’anima.
In questa sede affrontiamo un incremento dei suicidi in carcere e una brevissima riflessione sull’esecuzione delle pene.
Il dato dei suicidi di persone detenute in carcere è il più alto mai registrato nella storia, tanto da attirare attenzione mediatica a livello nazionale su un tema che è sempre stato presente ma poco trattato.
Sicuramente il carcere è un luogo che, per sua natura, chiude, isola e deprime, ma recentemente la situazione, visto anche il collasso del sistema penitenziario italiano, sembra essersi aggravata ulteriormente.
Perché una persona preferisce porre fine alla propria vita piuttosto che scontare una condanna?
Partendo dall’analisi di ciò che è la pena, si potrà evincere la pluralità di funzioni che questa mira, in primis la sicurezza della società, andando a bloccare chi ha commesso reati, in secundis la rieducazione dei condannati e il loro reinserimento sociale.
Queste funzioni sono opposte tra loro e pare che lo Stato non abbia mai davvero trovato un equilibrio.
Come posso proteggere i cittadini dai criminali e allo stesso tempo rendere questi ultimi persone migliori e dedite al rispetto della legge?!
Questa domanda retorica è fondamentale per vedere dall’alto ciò che è l’ordinamento penitenziario, di quanto difficoltoso sia farlo funzionare e di quanta confusione si sia creata in questo settore.
Bisogna accorgersi, infatti, che questa duplice funzione sia un’utopia e non basta scrivere dei bei principi in Costituzione e aspettarsi che la realtà segua la poesia.
È la poesia che descrive la realtà, non viceversa.
L’applicazione pratica del nostro ordinamento penitenziario si traduce in una generale disfunzione dell’apparato sanzionatorio, non solo da un punto di vista strutturale, ma soprattutto da un punto di vista giuridico.
Ad esempio è noto come l’opinione pubblica si lamenti di pene troppo tenui per i criminali, avendo peraltro ben ragione di farlo, poiché il processo ha una struttura volta a favorire l’imputato e ha dei meccanismi che vengono abusati e che portano a una impunità dei reati.
Dall’altro lato non ci si rende conto di quanto invasiva e disturbante possa essere la giustizia penale, di come certe garanzie siano necessarie per proteggere le persone, anche colpevoli, dall’inquisizione statale e, infine, di cosa significhi realmente essere detenuti.
Il carcere ti rende inutile, ti rinchiude in una vita che ti vuole punire ma non ti da speranza.
Basterebbe iniziare a immedesimarsi nei detenuti per rendersi conto, per poter migliorare il sistema e salvare vite.
Il suicidio di un detenuto in carcere non solo è una sconfitta per l’ordinamento, ma è anche una complicità colposa da parte dello Stato.
Eccezioni alla generale regola sono tanti esempi positivi di persone che sono riuscite a migliorare e a rinascere in carcere grazie alla fede che è intervenuta e ha cambiato le loro vite nel momento più buio.

Paolo P. – Pavia

Le fatiche del femminismo cristiano

Gli anni a cavallo tra il XIX e il XX secolo furono anni di grande cambiamento e fermento, in cui movimenti culturali e femministi iniziarono a reclamare a gran voce il riconoscimento dei diritti per le donne.
Oltre ai noti movimenti suffragisti inglesi e americani, ne esistevano diversi anche in Italia, portati avanti da studiose, filosofe e giornaliste. In molti casi, si trattò di associazioni definite di “femminismo cristiano”: le affiliate, infatti, aspiravano ad unire temi di denuncia sociale a principi e valori di ispirazione evangelica.
Tra le madri fondatrici di tali movimenti, vi fu Adelaide Coari, maestra cattolica che proponeva la costruzione di un programma minimo femminista, sulla scia delle rivendicazioni Socialiste di inizio secolo.
Tra le figure più importanti troviamo Elisa Salerno. Nata e vissuta a Vicenza, si interessò in particolare allo studio e alla denuncia delle condizioni operaie delle lavoratrici e dei lavoratori veneti. Formatasi da autodidatta, imparando il latino, il francese e il tedesco, la filosofia e la teologia, impiegò tali conoscenze per fondare, all’inizio del ‘900, il suo giornale dal titolo “La donna e il Lavoro”.
All’interno dell’editoriale, l’attenzione è posta in particolare su studi, ricerche e interviste alle donne della classe operaia vicentina, mettendo in luce, nel dettaglio, aspetti quali il divario salariale fra uomini e donne, le precarie e insalubri condizioni di lavoro, le continue sopraffazioni morali e sessuali a cui venivano sottoposte. L’idea di fondo di tale ricerca era che, oltre alla giusta battaglia sindacale e sociale, fosse soprattutto necessario una battaglia culturale e ideale, che partisse dall’istruzione, nel tentativo di avviare un radicale cambiamento ideologico.
In tale contesto, Salerno accusò pubblicamente la Chiesa e le sue istituzioni, che nonostante professassero la necessità di difendere e proteggere i deboli e gli ultimi, di fatto perpetravano la situazione di subalternità delle donne, a causa di un intrinseco antifemminismo nella patristica e nella scolastica.
Per tali coraggiose affermazioni, la studiosa fu prima condannata dalla Chiesa Locale, poi dalle Curia Romana e infine fu scomunicata, nel 1927, anno in cui interruppe definitivamente la sua produzione editoriale.
Giulia C. – Firenze

QUANDO IN UN MONDIALE DI CALCIO NON CI SI INTERESSA DEL CALCIO

Il campionato mondiale di calcio 2022 sarà la ventiduesima edizione della massima competizione per le rappresentative di calcio maschili delle federazioni sportive affiliate alla FIFA. Il Mondiale si svolgerà in Qatar dal 20 novembre al 18 dicembre 2022 e fin da subito risaltano all’occhio le date anomale nelle quali si svolge il torneo. Seppur poco tradizionali, esse sono comprensibili per via delle temperature proibitive del Paese ospitante. Oltre a ciò, sarà l’ultima edizione con sole 32 nazionali partecipanti, ma verrà ricordata quasi sicuramente anche per essere la prima in quasi 100 anni di storia a disputarsi in uno Stato del Medio Oriente.
Nel 2010 la FIFA, attraverso le consuete elezioni, ha infatti scelto di premiare la candidatura qatariota rispetto ad altre più ricorrenti come quella americana, australiana o giapponese. Fin da subito, però, la scelta della sede del Mondiale ha destato non poche polemiche. In quei giorni, è stato raccontato successivamente, c’è stato un pranzo all’Eliseo che ha visto come ospiti l’allora Presidente francese Nicolas Sarkozy con i presidenti di FIFA, UEFA e il principe ereditario del Qatar, che sarebbe diventato poi emiro tre anni dopo. Da quel momento, la strada spianata per un Paese ricco che poteva economicamente offrire tanto ai partner europei si era spianata.
In una costante affermazione di soft power, l’assegnazione dei Mondiali 2022 è stata seguita dall’acquisizione del PSG e da altri investimenti dal valore di centinaia di milioni di euro, che, secondo alcuni, avrebbero portato la Francia prima e l’Occidente poi a chiudere un occhio su molti aspetti etici. Tra i più noti, i modi con i quali sarebbero state costruite le infrastrutture.
Nell’ultimo decennio il Paese ha conosciuto un boom edilizio: 7 stadi, hotel, grattacieli, tram, metropolitane, strade e addirittura un aeroporto, i quali sorgono in mezzo al nulla. In occasione della competizione calcistica si sono persino costruite città nuove. L’investimento per l’emirato guidato dal 2013 da Tamim bin Hamad al-Thani è stato enorme: 229 miliardi di dollari, 15 volte in più del budget utilizzato per finanziare i Mondiali in Russia nel 2018 (all’epoca record per una competizione calcistica).
Ma perché tutte queste polemiche? Durante questi anni, ci sono state svariate indagini condotte da giornalisti e organizzazioni (tra le più note la Human Rights Watch) che hanno denunciato le numerose violazioni dei diritti umani nei confronti dei lavoratori migranti da paesi africani e asiatici, i quali lavoravano in condizioni disumane cercando di rispettare le scadenze della road map che prevede, come già accennato precedentemente, la costruzione di un numero di strutture senza precedenti in un’area geografica che ne era completamente sprovvista.
Recentemente, in Germania, i tifosi del Bayern Monaco e del Borussia Dortmund hanno criticato all’unisono il Mondiale sottolineando come per la costruzione delle infrastrutture siano morte migliaia di persone. Lo striscione recitava proprio così “15000 morti per 5760 minuti” (15000 tote für 5760 minuten fussball scham buch). Oltre a questi decessi, purtroppo, ve ne sono altrettanti che non vengono contati per via di una poca trasparenza delle informazioni diffuse dalle autorità locali. Tutte le morti per infarto, eccesso di stress fisico, asfissia e patologie derivanti dal lavoro estenuante nei cantieri, ma non avvenute sul posto di lavoro, rientrano tra le morti naturali e di conseguenza non conteggiate. Oltre a ciò, in questa decade vi sono state anche diverse morti per suicidio o derivanti dalle condizioni igieniche e climatiche precarie; ricordiamo che la competizione viene giocata d’inverno proprio perché d’estate si raggiungono facilmente 50°.
Il disappunto non proviene soltanto dai tifosi, bensì anche la Danimarca, squadra partecipante al torneo, si è schierata al coro della gente comune attraverso l’ideazione e la presentazione di divise ad hoc per il torneo nelle quali lo stemma e lo sponsor tecnico non si vedono. Come se non bastasse, a pochi giorni dalla gara inaugurale, il Qatar è di nuovamente accusato per il mancato rispetto dei diritti civili. L’ambasciatore dei Mondiali 2022, l’ex calciatore qatariota Khalid Salman, nel corso di un’intervista all’emittente televisiva tedesca Zdf ha definito l’omosessualità “una malattia mentale”, suscitando lo sdegno del ministro degli Esteri tedesco. Il Qatar, infatti, non vuole che le persone omosessuali manifestino il proprio orientamento sessuale o il sostegno ai diritti LGBT. Salman ha continuato dicendo che le persone gay saranno accettate, ma dovranno rispettare le regole del Paese; quindi evitare di manifestare la propria omosessualità.
Da qualche giorno, infine, girano notizie riguardanti una possibile assunzione di lavoratori migranti da parte del Qatar per fingere di essere supporters delle nazionali che disputano la partita. Essa è una notizia uscita già qualche anno fa, quando si parlò anche del fatto che per la prima volta una nazione ospitante un evento pagava gruppi di tifosi per riempire gli stadi. L’obiettivo è infatti quello di simulare arene, negozi, aree urbane e sportive piene in modo tale da avere uno spettacolo televisivo migliore e da qui tutto l’indotto diretto e indiretto dei diritti tv ed eventuali nuove possibilità di ospitare futuri eventi sportivi come le Olimpiadi.
Insomma, che dire, questi Mondiali non sono ancora iniziati e già non si fa altro che parlarne. Sicuramente, sotto questo punto di vista, il Qatar ha già vinto in quanto ha creato un hype dietro a un evento mondiale che raramente si è in grado di riscuotere.
Marco C. – Milano

COP27 – Conferenza annuale delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici

In occasione della prossima COP27, la Conferenza annuale delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici iniziata il 7 novembre in Egitto, abbiamo raccolto i pareri di alcuni giovani che si occupano in prima persona di questi temi.
Andrea Grieco, Head of Impact di Aworld (ONU), vive a Milano; Giorgio Brizio è un esponente dei Friday for Future, autore di Non siamo tutti sulla stessa barca, attualmente in Erasmus a Instabul; Angelo Bruscino (meno giovane, ma solo di età non di spirito) è un imprenditore impegnato nella greeneconomy ma anche scrittore affermato, vive a Napoli; Sarah Maria Truzzi, si occupa di sviluppo nei paesi emergenti per l’ONG VIVA don Bosco, vive a Brussel.
In particolare abbiamo posto loro cinque domande.
1) Che cos’è la COP27?
2) Qual è il senso delle COP?
3) Quali benefici sono stati ottenuti dalle precedenti COP?
4) Le persone intorno a voi che sensibilità hanno nei confronti di questi argomenti?
5) Le singole persone che contributo possono dare?

Andrea Grieco, attraverso un post su Instagram ci fa sapere:
La @cop27 egypt è alle porte. L’Egitto è pronto, in tutti i sensi.
Sarà una #cop difficile a tratti indecifrabile quella di quest’anno. La #cop dei paradossi, organizzata in un Paese che non ammette il dissenso, in un posto lontano (nel deserto) e con misure restrittive e di controllo che castrano ogni protesta.
40.000 delegati da tutto il mondo, più di 100 capi di Stato, pochi attivisti, poche ONG e 60.000 prigionieri politici. La sostenibilità non può prescindere dai diritti umani, è innaturale! Senza democrazia e libertà di espressione non esiste la lotta alla crisi climatica.
Comunque vada questo appuntamento va seguito, come per i precedenti, va protetto il processo che in passato ha portato al Protocollo di Kyoto o all’Accordo di Parigi, ricordandosi però che i Diritti Umani non sono qualcosa che si può barattare o annullare per nessun motivo al mondo. Ricordando i 60 mila prigionieri politici che non smettono di chiedere giustizia e diritti.


Angelo Bruscino, invece ci scrive:
La Cop27 che si terrà in Egitto avrà sicuramente la funzione di rimarcare la grave crisi che ormai già manifesta i suoi effetti. L’idea di organizzare una riunione per i grandi del mondo e sensibilizzarli sul fronte del climate change è stata sicuramente la base di partenza per ottenere alcune prese di posizioni, ahimè solo di ordine declaratorio, di fronte alla recente crisi energetica infatti la maggior parte dei paesi ha fatto fronte implementando al massimo l’uso dei combustibili fossili, in primis il carbone, così nei cieli europei le concentrazioni di inquinanti non è mai stata intensa come in questo 2022.
Purtroppo l’intero modello di transizione energetica, nel mondo e in Europa in particolare, è stato pensato con l’utilizzo del gas; quando questo combustibile è venuto a mancare a causa della guerra Russia/Ucraina o è diventato estremamente costoso, per evitare blackout si è fatto ricorso all’uso delle vecchie centrali (spesso a carbone) che avevamo pianificato di dismettere, vanificando in questa maniera gli sforzi e le dichiarazioni di intenti degli ultimi anni.
C’è anche un dato positivo, nonostante tutto ed è quello che l’intera opinione pubblica ha compreso che la povertà energetica è un tema molto importante che incide profondamente sulla vita di tutti e in questo modo la sensibilità alla creazione di modelli sostenibili con l’utilizzo di energie rinnovabili come il solare e l’eolico ha avuto un’accelerazione. Basti pensare che in un solo anno l’Italia ha raggiunto la Spagna e si appresta a superarla nella produzione di elettricità da rinnovabili.
Insomma come sempre ci sono luci ed ombre, ma probabilmente non saremo in grado di rispettare i tempi stabiliti dalla transazione e peggio ancora, i tempi necessari a scongiurare il disastro ambientale.
Abbiamo confuso negli ultimi anni o mal riposto il sentimento di fiducia, ci fidiamo troppo della tecnologia e abbiamo dimenticato che sono gli uomini a sceglierla e applicarla. Non c’è scoperta tecnica e scientifica che possa salvarci senza gli uomini giusti, non ci resta che un atto di fede e sperare che la provvidenza consenta ai nostri leader di non prendere unicamente la strada lastricata di buone intenzioni, ma quella dei fatti e delle azioni concrete anche se poco popolari, liberandoci certo non dalle responsabilità ambientali che continueranno a pesare sulle nostre coscienze, ma dal gioco delle scelte populiste dai facili consensi e dai fossili della storia che per inciso non sono solo quelli energetici.


Sarah Maria Truzzi ci racconta più specificamente cosa sia una COP.
La COP27 è la 27^ Conferenza delle Parti che hanno sottoscritto la Convenzione sul Cambiamento Climatico delle Nazioni Unite. È l’occasione per definire le azioni da promuovere, a livello nazionale e internazionale, per mitigare il cambiamento climatico.
Queste conferenze servono sicuramente a sensibilizzare i governi sui vari aspetti del cambiamento climatico. Purtroppo penso siano ancora lontane dall’ottenere dei risultati sufficientemente importanti da poter rallentare la crisi climatica.
L’Accordo di Parigi, firmato in occasione della COP21 definisce un obiettivo preciso (limitare l’aumento della temperatura globale a 1.5°C). Sono però scettica sull’impatto concreto di tale accordo, poiché permette ai singoli stati di definire loro stessi i propri obiettivi nazionali che tenderanno perciò al ribasso. Inoltre, l’accordo non include obiettivi specifici sulla quantità di emissioni di gas a effetto serra da ridurre, rendendolo così poco efficace da questo punto di vista. Questo è un esempio di come le soluzioni elaborate in occasione di queste conferenze non siano sempre sufficienti a contrastare il problema che si prefiggono di risolvere.
Nonostante io frequenti ambienti abbastanza sensibili a tali tematiche, riscontro nelle persone che mi circondano una sorta di rassegnazione al futuro che ci attende, forse troppo consapevoli del fatto che le azioni dei singoli cittadini non saranno mai sufficienti se non accompagnate da radicali cambiamenti sociali, politici ed economici.
Certo sono convinta che il singolo individuo possa apportare dei cambiamenti positivi nel momento in cui si mette in rete favorendo perciò la trasformazione di comportamenti dannosi a livello ambientale. Non bisogna però dimenticare la responsabilità dei “grandi” attori politici ed economici, gli unici che, con le loro decisioni, hanno effettivamente il potere di “cambiare le cose”.


Infine, Giorgio Brizio, abbastanza esperto nel settore COP ci offre una panoramica più articolata ma anche più critica.
La COP non è un supermercato o uno sbirro (anche se di polizia e di controlli molto stringenti a questa COP27egypt ce ne saranno davvero parecchi, tanto che sarà in assoluto l’evento delle Nazioni Unite più sorvegliato di sempre con addirittura videocamere a riconoscimento facciale nei taxi); COP è l’acronimo che sta per Conference of Parties. La prima fu a Berlino nel 1995, ma già nel 92 ci fu il Summit della Terra di Rio de Janeiro.
Le conferenze, ahimè, sono a metà strada tra un evento con enorme potenziale e un circo. Si danno appuntamento capi di Stato, delegati, sherpa, ma anche persone della società civile e purtroppo anche molti lobbisti e coloro che vogliono difendere interessi delle aziende più inquinanti. Ammesso che le COP abbiano dato qualche beneficio, il più grande di questi potrebbe essere quello di riuscire a connettere tantissime persone, ma anche istituzioni e società. Una delle COP più conosciute è quella che si svolse nel ‘97 a Kyoto, da cui prende il nome l’omonimo protocollo, o la COP 2009 di Copenaghen. Importante fu anche la COP 2015 di Parigi, un grande successo del multilateralismo internazionale. Dalla COP di Parigi in poi ogni paese dovrebbe presentare il suo piano di riduzione delle missioni. Tuttavia ogni anno la quasi totalità degli Stati, tranne un piccolo gruppetto, viene rimandata a casa a fare i compiti perché gli obiettivi che questi stati provano a presentare sono fondamentalmente o inesistenti o non sufficientemente ambiziosi. Ad esempio, se dal 2015 tutti gli obiettivi dal primo all’ultimo fossero stati realizzati saremmo riusciti a limitare il riscaldamento globale entro 3,8 gradi, quando sappiamo che dobbiamo stare sotto l’aumento di un grado e mezzo. Ancora adesso l’impegno delle nazioni è insufficiente.
Qui entrano in gioco le singole persone che possono fare la cosa più bella: stare insieme, creare comunità e battersi per quello che sta a loro più a cuore. Per la questione climatica, che senza grandi dubbi possiamo dire essere l’urgenza del nostro tempo, necessariamente abbiamo bisogno che le persone si attivino e solo se saremo tanti a essere consapevoli riusciremo a incidere: cambiare il mercato con il nostro (potentissimo) potere d’acquisto e con le nostre singole azioni quotidiane. Possiamo fare una differenza che, però, deve essere è valida solo se le scelte sono condivise dalla collettività. Inoltre possiamo aumentare l’interesse presso chi governa il nostro Paese. La politica di oggi, fortemente miope, riesce a guardare fino a un orizzonte molto breve: quello del mandato. Per il clima è invece necessaria una visione a lungo periodo.
Esempi di azioni virtuose per l’ambiente sono: smettere di mangiare carne o consumarne meno, smettere di volare o volare meno, oppure cambiare banca e scegliere dove depositare i propri soldi. Unicredit San Paolo, una delle maggiori banche italiane, ogni anno investe moltissimi soldi nell’industria combustibili fossili.
Oltre il 6% di tutte le emissioni globali provenienti dal traffico aereo sono dovute all’utilizzo di jet privati, nonostante siano una piccolissima minoranza. La produzione, il trasporto e il commercio della carne sono responsabili di una grande fetta di emissioni. Eppure nel settore della carne l’Italia continua a investire moltissimo, anche negli allevamenti intensivi ed estensivi. Ci sono banche, compagnie, fondi d’investimento che continuano a considerare esclusivamente i propri interessi, a discapito non solo della situazione globale ma anche dell’ambiente. Questo è quello che accade in Mozambico, dove la patriottissima Eni (sostenuta da numerose banche tra cui Unicredit e Intesa San Paolo), sfrutta senza discriminazioni le risorse del territorio, creando dei veri e propri ecomostri. Ma azioni del genere vengono replicate dalle nostre compagnie italiane (e non solo) anche in Kenya o in Tanzania.
L’azione individuale può quindi avere un effetto solo se forte e accompagnata da una richiesta collettiva di cambio del sistema. In questo momento scendere in piazza, alzare la testa e far sentire la propria voce è imprescindibile, se realmente vogliamo contribuire ad un miglioramento della società. Non dobbiamo quindi solo restare inorriditi e di fronte a gesti estremi come l’imbrattamento delle opere d’arte, ma piuttosto cercare di capire quali sono i motivi dietro a queste azioni. La situazione è grave, e a dirlo non sono due adolescenti con una scatola di fagioli in mano, ma le più grandi menti del pianeta.
COP26 è stata principalmente un fallimento ma non possiamo non notare alcune note positive. Prima fra tutti BOGA (Beyond Oil and Gas Alliance), lanciata da Danimarca e Paesi Bassi. Ad essa, purtroppo, l’Italia ha aderito ma senza accoglierne gli obblighi, senza prendere alcun impegno. Altri paesi vi hanno aderito dichiarando obiettivi di fuoriuscita dai principali combustibili fossili.
Ogni COP si propone obiettivi diversi, ma uno è sempre il principale: capire insieme quanto è distante a livello globale la data di transizione ecologica (cioè l’abbandono dei combustibili fossili).
Alcuni dei grandi inquinatori di oggi non sono certo responsabile di tutte le grandi emissioni del passato (dovute al 93% da paesi europei e dagli Stati Uniti). Ciò che è necessario è aiutarli, attuando proposte come quella della COP di Copenaghen 2009, in cui Obama promise 1000 miliardi per sostenere i paesi più in difficoltà rispetto alla questione climatica. Per non andare a finire dritti nel baratro, bisogna agire in questo modo. Purtroppo già la sola scelta di tenere la COP27 in Egitto e la COP28 a Dubai è un pessimo segnale.
Nella nostra generazione c’è moltissima preoccupazione ma per il momento gran parte delle aspettative sono state deluse, a partire dalla scorsa COP26 di Glasgow che non è stata sicuramente all’altezza. Ci si aspetta molto anche dalla prossima COP ma difficilmente ne uscirà qualcosa di valido. Tuttavia, ci auguriamo di sbagliare le previsioni. A volte la cooperazione e il multilateralismo riescono a portare i loro frutti, come l’accordo di pace siglato pochi giorni fa in Sudafrica sul quale in pochi avrebbero scommesso.
A cura di Luigi C. – Roma